Venezia, Teatro La Fenice
Orchestra filarmonica della Fenice
Direttore Diego Matheuz
Violino Nicola Benedetti
Max Bruch Concerto per violino e orchestra n. 1 in sol minore po. 26
Béla Bartók Concerto per orchestra
Venezia, 2 dicembre 2013
Un altro battesimo del fuoco per l’Orchestra filarmonica della Fenice, che ha pienamente confermato l’alto livello raggiunto sotto il profilo sia artistico che tecnico, saldamente guidata dal maestro Diego Matheuz, direttore principale del teatro veneziano, che si sta rivelando, ogni volta di più, interprete sensibile e già maturo, temperando quell’esuberanza giovanile, che forse era prevalente nelle sue prime performance in laguna. Ospite d’eccezione la ventiseienne violinista scozzese, dal nome inequivocabilmente italiano, Nicola (sic) Benedetti. I titoli in programma per questa serata erano accomunati dal carattere virtuosistico, presente sia nel lavoro di Bruch, sia in quello di Bartók. Analitica e meditativa, in perfetta sintonia con la bella e brava solista (è il caso di dirlo), la lettura che Matheuz ha proposto del Concerto n. 1 in sol minore op. 26 di Bruch, mettendo bene in risalto ogni particolare di questa composizione, pervasa da un aura tardo romantica; l’unica ancora in repertorio di uno dei più significativi rappresentanti dell’accademismo musicale nella Germania dell’Ottocento, assai stimato da Brahms (che nel comporre il suo Concerto per violino aveva in mente proprio questa composizione), continuatore della tradizione di Mendelssohn e deciso avversario della scuola neotedesca di Schmann e Wagner, sostenuta invece da Liszt. Della vastissima produzione di Bruch – autore, tra l’altro, di tre concerti per violino e orchestra, tre sinfonie, alcune opere teatrali, e molta musica da camera – è rimasto oggi di fatto soltanto il primo concerto per violino, scritto nel 1866 per Joseph Joachim; un lavoro di grande fascino, composto a soli ventotto anni, che rivela freschezza e vigore giovanile, ma anche momenti colmi di lirismo. Straordinaria l’interpretazione della Benedetti, che – sempre ispiratissima e come rapita dalla musica – nel primo tempo, denominato da Bruch Vorspiel (Preludio) per la libertà quasi rapsodica del suo fluire, ha iniziato l’esecuzione appoggiando dolcemente l’archetto sullo strumento nel sol iniziale, per ottenere una languida nota lunga senza vibrato, che ha preannunciato le seduzioni sonore con cui avrebbe soggiogato il pubblico nel suo dialogo con l’orchestra in tono ora elegiaco, ora patetico, ora drammatico, perfettamente assecondata dagli strumentisti della Filarmonica. Nel secondo tempo (Adagio), pervaso da una vena patetica al limite dell’affettazione – indubbiamente uno tra i più bei movimenti lenti di tutte le composizioni per violino e orchestra, legato senza soluzione di continuità al primo movimento come avviene nell’analogo concerto di Mendelssohn – la violinista si è distinta per cantabilità ed intensità espressiva, accompagnata da un’orchestra che ha saputo corrisponderle ora intessendo delicatissime trame sonore ora partecipando ai momenti di forte pathos con affettuoso coinvolgimento, fatto di bel suono, perfetto affiatamento, sensibilità musicale. Vigoroso il Finale, dove la violinista ha messo in mostra tutta la sua padronanza dello strumento nei passaggi virtuosistici come nei momenti in cui prevale un certo gusto per il grandioso, complici ancora una volta Matheuz e l’orchestra. L’esecuzione è stata salutata da scroscianti applausi e da qualche meritatissimo “Brava!” Ne è seguito un bis: la Sarabanda dalla Partita n. 2 per violino solo di Bach, eseguita sfoggiando uno stupendo fraseggio e senso della forma.
Ma il vero battesimo del fuoco per la Filarmonica si è avuto con l‘esecuzione del bartokiano Concerto per orchestra. Questa composizione – com’è noto – deve la sua origine a quell’instancabile animatore dell’ambiente musicale americano che fu Serge Koussevitzky, il quale nel 1943, sollecitato da Jozsef Szigeti e Fritz Reiner, andò a trovare Bartók, degente in un ospedale negli Stati uniti, per commissionargli un pezzo per orchestra da dedicare alla memoria della defunta consorte Natalie. Tra agosto ed ottobre, nella quiete del soggiorno di cura e riposo di Saranac Lake, il musicista ungherese compose, in non più di otto settimane, il Concerto per orchestra, primo dei capolavori della sua produzione americana. La partitura, che ha come cellula germinale l’intervallo di quarta magistralmente trattato, prevede una compagine orchestrale davvero imponente, affidando ai diversi strumenti o gruppi di strumenti un ruolo concertante o addirittura solistico. Una prova davvero ardua per le orchestre di tutto il mondo, che richiede agli strumentisti grande coesione e senso dell’insieme e, nello stesso tempo, la capacità di far risaltare le singole sezioni, i singoli strumenti, impegnati in passaggi, come si è notato poc’anzi, anche di natura virtuosistica. E la Filarmonica, insieme al giovane direttore venezuelano, ha superato la prova a pieni voti. Nell’Andante non troppo dell’Introduzione si è apprezzato un suono assolutamente coeso durante l’esposizione del misterioso motivo iniziale da parte dei bassi, prima dell’apparizione del tema delineato con precisione dai flauti e successivamente dalle trombe, interrotto bruscamente dall’urlo dei violini, sempre impeccabili nel suono e nel fraseggio; impareggiabili per bel timbro e musicalità i tromboni e le trombe, protagonisti nel gioco contrappuntistico, che anima il successivo Allegro vivace in forma di sonata.
Esemplare lo Scherzo – intitolato in partitura (in italiano) Il giuoco delle coppie – dove le sette coppie di strumenti si sono segnalate per nitore di suono e senso del ritmo nelle variazioni sul tema, preannunciato da un tamburo militare, procedendo per intervalli paralleli: i fagotti per seste, gli oboi per terze, i clarinetti per settime, i flauti per quinte e le trombe in sordina per seconde maggiori. Suggestiva la parte centrale del movimento, una sorta di asimmetrico corale in forma tripartita, colorato dell’oro brunito degli ottoni. Di grande seduzione sonora la “notturna” impressionistica Elegia, aperta dalla cupa e misteriosa introduzione monodica di contrabbassi e timpani, in cui sulla tenue sonorità creata dagli archi, tra ondeggianti glissati dell’arpa ed echi di flauti e clarinetti, spiccavano le acute figurazioni dell’oboe e poi dell’ottavino, creando un’atmosfera magica, prima dell’improvviso ritorno del tema dell’Andante iniziale.
Tutta l’orchestra ha brillato nell’eccentrico Intermezzo interrotto, costituito da due soggetti alternati di carattere popolaresco (il primo lieve e grazioso, il secondo struggente e appassionato), finché si è imposta bruscamente la burlesca, che ricorda sia La vedova allegra che la Sinfonia di Leningrado di Šostakovič (forse una trovata per sbeffeggiare l’ancora imperante nazismo). Nitido il richiamo dei corni e perfettamente scandito il trafelato perpetuum mobile degli archi, che introducono allo spumeggiante Finale: una girandola di motivi, su cui si spiccava luminoso il tema delle trombe, costituente il soggetto di una fuga liberamente articolata, in cui si sono distinte varie sezioni dell’orchestra, prima dell’esposizione trionfale degli ottoni, con accenti di blues nello stile di Gershwin – omaggio al musicista americano, di cui Bartok all’epoca era ospite. E così via fino all’imperiosa coda conclusiva. Applausi a non finire una volta terminata l’esecuzione con una vera ovazione tributata alle parti che si erano più messe in luce e, in particolare, alle trombe. Secondo bis della serata: la Danza ungherese n.1 di Brahms, eseguita con grande verve, ma anche con acuto senso dei contrasti dinamici ed agogici.