Teatro alla Scala di Milano: “La Traviata” (cast alternativo)

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
 “LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry IRINA LUNGU
Alfredo Germont PIOTR BECZALA
Giorgio Germont ŽELIKO LUČIĆ
Flora Bervoix GIUSEPPINA PIUNTI
Annina MARA ZAMPIERI
Gastone, Visconte di Letorières ANTONIO CORIANÒ
Barone Douphol ROBERTO ACCURSO
Marchese D’Obigny ANDREA PORTA
Dottor Grenvil ANDREA MASTRONI
Giuseppe NICOLA PAMIO
Domestico di Flora ERNESTO PETTI
Commissionario ERNESTO PANARIELLO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia e scene Dmitri Tcherniakov
Costumi Yelena Zaytseva
Luci Gleb Filshtinsky
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 18 dicembre 2013

Chi era alla Scala il 3 giugno 2008 ricorderà che l’atteso debutto (scaligero) di Mariella Devia in Traviata fu rimandato di due giorni a causa di un’indisposizione della cantante, e che a sostituirla fu Irina Lungu. La storia si ripete alla terza replica (turno A) dell’attuale edizione di Traviata, che inaugura la stagione 2013-2014 della Scala e contemporaneamente chiude le celebrazioni milanesi dell’anno verdiano. L’unica protagonista scritturata in origine, Diana Damrau, è infatti sostituita dalla stessa Irina Lungu, chiamata all’ultimo momento, come annuncia personalmente Stéphane Lissner affacciandosi alla ribalta prima dell’ingresso del direttore. Il cambio dell’interprete principale genera un larvato disappunto nell’esigente pubblico del turno A, che soltanto nel corso della serata si stempera, grazie alla bravura, alla professionalità, all’indubbio fascino interpretativo dell’artista. Del resto, la Lungu vanta ormai un’apprezzabile carriera scaligera, di cui piace ricordare alcune tappe: Marguerite nel Faust e Adina nell’Elisir d’amore nel 2010, Nannetta nel Falstaff all’inizio di quest’anno.
Dopo i clamori che ogni Sant’Ambrogio suscita, gli immancabili strascichi polemici, le stroncature programmatiche o i prevedibili panegirici (tutto secondo una sceneggiatura che si ripete da decenni, e che in tutta franchezza inizia a stancare), l’ascolto di una replica permette un giudizio disancorato dalle attese spasmodiche della fatale première, e soprattutto permette di valutare uno spettacolo che ha superato la fase di avvio e si è (o dovrebbe essersi) consolidato nella qualità della performance. Della componente scenico-registica, come sempre, si dirà poi; ma si può anticipare che, a disdetta di tutte le affermazioni sulla presunta e conclamata “modernità” di questa Traviata, lo spettacolo di Tcherniakov è decisamente tradizionale, quando non convenzionale. In quest’anno verdiano, tanto per intendersi, si sono viste Traviate ben più originali nella scansione e nella struttura, come le riproposte delle regie di Laurent Pelly al Teatro Regio di Torino, o quella di Hugo de Ana all’Arena di Verona.
Daniele Gatti concerta con grande scrupolo l’edizione critica (a cura di Fabrizio Della Seta, Chicago-Milano 1996), vale a dire La traviata secondo la revisione verdiana del 1854 per il teatro di San Benedetto a Venezia, e non quella originale dell’anno prima per la Fenice (tranne in un passaggio del finale, in cui il direttore preferisce attenersi alla prima scrittura, come egli stesso precisa nel programma di sala). Riascoltare l’opera completa, con tutte le riprese, varianti e cadenze, senza i tagli di tradizione, è un’esperienza molto interessante, perché restituisce una partitura assai più complessa rispetto alla vulgata. Eppure, la direzione di Gatti non convince del tutto: a parte alcuni momenti, la scelta di tempi eccessivamente lenti pregiudica l’esito dell’esecuzione e rende addirittura faticoso l’ascolto (in particolare nel I atto). Il direttore intende presentare una lettura analitica di ogni disegno musicale, di ciascuna struttura armonica, con l’atteggiamento dello scienziato che presenta i vetrini del microscopio, bene ingranditi perché tutti possano apprezzarne l’importanza. Ma tale scelta si trasforma in un eccesso di zelo didascalico, che attenua la forza drammatica dell’opera; ecco perché, volendo essere calligrafico, Gatti penalizza la fluidità dei tempi verdiani. Il direttore ha interpretato ogni brano di Violetta come espressione di malattia, e dunque di musica minata dall’incombere di un male mortale, rallentata nel palpito vitale, estenuata nel ritmo e di conseguenza frenata (impostazione che ripaga bene, per esempio, nel preludio al III atto, pienamente dolente nella sua sofferta lunghezza, ma non altrove). Si alternano peraltro momenti in cui la direzione è magistrale e trascinante; ma occorre attendere l’inizio del II atto, con la cabaletta di Alfredo «Oh mio rimorso! Oh infamia!», per ascoltare l’intensità di violoncelli e flauti quale espressione della vergogna e del nervosismo del personaggio. Gatti è poi molto elegante nell’accompagnare «Di Provenza il mar, il suol chi dal cor ti cancellò?», e riesce a congiungere rapidità e leggerezza nella successiva cabaletta «No, non udrai rimproveri». Il punto più alto della concertazione direttoriale è comunque raggiunto nella scena al tavolo da gioco (II quadro del II atto), con un effetto incalzante delle viole davvero mai sentito prima. In altri passaggi, invece, il direttore sottolinea con troppa enfasi il volume strumentale, riuscendo pesante e coprendo le voci, come nel finale del duetto tra soprano e baritono nel II atto, e anche sulla frase «Amami, Alfredo, amami quant’io t’amo», allorché esplodono le percussioni, con effetto non certo raffinato.
Irina Lungu affronta il I atto con un più che comprensibile nervosismo, dovuto allo scoglio della grande scena finale, culminante con «Sempre libera degg’io». «Ah fors’è lui che l’anima», in particolare, è cantato bene, ma con eccessiva attenzione a non commettere errori di tenuta ritmica; questo, unitamente al tempo slentato del direttore, frena un po’ la naturalezza e la partecipazione emotiva al personaggio. La voce della Lungu è di timbro scuro e di risonanza calda, anche se alcuni acuti risultano un poco striduli; il mi bemolle finale è teso allo spasimo, dopo la serie di agilità della cadenza, a dire il vero un po’ spianate, un po’ semplificate. Eppure il pubblico inizia ad apprezzare, e tributa al soprano un applauso caloroso e unanime al termine del I atto. Il momento più bello e intenso della serata è però «Addio, del passato bei sogni ridenti», che la Lungu canta veramente bene, perché tessitura e stile della pagina corrispondono in pieno alla sua voce e si adeguano anche alla lettura “rallentata” di Gatti. Non a caso, è anche la scena che determina l’applauso più prolungato e convinto di tutta la serata.
Piotr Beczala appare meno emozionato rispetto alla prima, e canta con voce abbastanza omogenea; il fraseggio rimane però generico, poco appassionato, e nel I atto accumula momenti di stridore. Molto interessante la ripresa con ‘da capo’ della cabaletta del II atto, allorché Beczala si produce in una messa di voce assai impegnativa e risolta bene. Se ogni tanto non indulgesse a qualche portamento e a qualche posa vocale un po’ greve, questo Alfredo somiglierebbe meno a una sorta di “Manrico in vacanza”. In chiusura della cabaletta non c’è puntatura al do (per fortuna), a scongiurare la sovrapposizione con la pira del Trovatore. Nella festa a casa di Flora il tenore è ancora più disinvolto, la voce si fa più virile, risponde meglio alle esigenze del concertato finale. Nel III atto ostenta sì toni squillanti, ma non sempre l’effetto è pari all’intenzione; anche in «Parigi, o cara, noi lasceremo» si profila qualche piccola incertezza di intonazione. La sua prova è nel complesso buona.
Željko Lučić è baritono dal timbro chiaro e gradevole, ma la sua voce non ha il giusto nerbo che ci vorrebbe per un Germont persuasivo; nei momenti cantabili rende meglio, ma è manchevole nell’intonazione, e al di sopra di una certa nota tutto il registro acuto è compromesso. Canta in modo corretto, ma senza il partecipe sentimento di Irina Lungu il duetto del II atto sarebbe monocorde e inespressivo. «Di Provenza il mar, il suol chi dal cor ti cancellò» dovrebbe avvantaggiarsi, secondo l’intenzione del cantante, del legato e della mezza voce, ma l’esito ricercato riesce soltanto in parte: la genericità dell’impostazione delude il pubblico, che non concede, al termine della celebre aria, neppure un applauso; nella cabaletta, poi, il baritono è in difficoltà con i fiati, anche a causa del tempo finalmente brioso applicato dal direttore d’orchestra.
Annina è interpretata da una gloria del melodramma italiano come Mara Zampieri, che ne fa insieme al regista un personaggio di primaria importanza, una sorta di alter ego adulto di Violetta, colei che sembra averla introdotta nel bel mondo (o nel demi monde, a seconda del punto di vista): è molto espressiva, ma vocalmente  è pressochè inesistente. La Flora di Giuseppina Piunti è come bloccata nell’emissione, del tutto priva di armonici e di musicalità; il Gastone di Antonio Corianò e il D’Obigny di Andrea Porta sono spigliati e brillanti, sia nella vocalità sia nella recitazione; il Douphol di Roberto Accurso ha voce un po’ troppo leggera, ma risolve comunque il personaggio in modo accettabile; molto corretto il Grenvil di Andrea Mastroni (che si sente anche a piena voce nel ripristinato intervento finale del III atto: «È spenta!»). Molto buone le prove della banda dietro il palco e del coro preparato da Bruno Casoni (come sempre più apprezzabile nella componente maschile).
Dmitri Tcherniakov imposta rigorosamente la sua regia negli interni previsti dal libretto: abitazione di Violetta per I e III atto, casa di campagna e casa parigina di Flora nei due quadri del II. Si compiace senza dubbio di insistere sull’aspetto ludico di questi momenti: sia a Parigi sia altrove tutto deve essere per forza divertente, nell’atteggiamento frivolo e volgare (anche greve) dei mondani di città così come in Alfredo, improvvisato cuoco che tira la pasta per la pizza nella cucina agreste, su di un tavolo ingombro di spesa e cibi bastanti per un pranzo natalizio di dodici portate. Scena e gestualità sono dunque centrate sulla crassa abbondanza, sulla dimensione consumistica (anche nel III atto: lo spazio è vuoto, ma Violetta si imbottisce di medicinali e gran quantità di barbiturici, fino alla miscela mortifera). Non è la struttura scenografica a interessare il regista, ma l’overdose dei piccoli gesti e degli oggetti. Se la “modernità” della regia è compressa tutta qui, si comprende perché l’effetto in teatro sia minimo, anche perché tale impostazione appare più cinematografica, o peggio televisiva, che autenticamente teatrale. Nella scenografia di Tcherniakov e nei costumi di Yelena Zaytseva c’è un quid di petulante e di poco rifinito: l’abbondante bigiotteria domina su uno sfarzo ostentato, del tipo “Vorrei ma non posso …”, in cui forse il regista vuole far riconoscere la maggior parte del pubblico. Ma la provocazione riesce a metà, anche per alcuni errori di valutazione delle possibilità comunicative dell’opera. Il quadro corale del II atto, per esempio, è un’occasione mancata, perché i numeri «Noi siamo zingarelle» (femminile) e «Di Madride noi siam mattadori» (maschile) risultano del tutto spersonalizzati; il testo del libretto di Piave a questo punto può apparire insulso, ma il coro racconta pur sempre una storia («È Piquillo un bel gagliardo»), che un regista attento dovrebbe cogliere come sfida, e cercare di rappresentare, o almeno valorizzare, anche per sollecitare o provocare il pubblico. Tcherniakov non introduce invece alcuna differenza nei costumi (zingarelle e mattadori sono assenti), e imposta il movimento di tutto il coro sulla ossessiva osservazione e canzonatura di Alfredo (che entra in anticipo rispetto alle didascalie), fino a che il personaggio si trova in completo imbarazzo. I valori narrativi del libretto scompaiono, e la musica è trattata come puro elemento decorativo: bella, ma vuota, fine a sé stessa. La caratterizzazione di Violetta e di Germont non è marcata da tratti originali (men che meno innovativi), forse perché il regista ha preferito concentrare le sue attenzioni su Alfredo: un giovane insicuro, nevrotico, anche un po’ stupido e inopportuno; chiave di lettura che addita in lui responsabilità ben precise nella malattia e nella morte della donna.
Il pubblico, dopo l’iniziale freddezza, si è lasciato convincere dal soprano e dal tenore, e al termine dello spettacolo ha tributato applausi unanimi a tutti i cantanti, al coro, al direttore d’orchestra. Forse, uscendo dal teatro, qualcuno si sarà domandato se questa Traviata fosse degna di inaugurare la stagione e concludere l’annus verdiano (non così mirabilis, a onor del vero, come annunciato); sicuramente è una Traviata consona allo spirito del nostro tempo, per certi aspetti analitico e minuzioso, per altri irruento e inesorabilmente superficiale. Foto Brescia & Amisano © Teatro alla Scala