Teatro Regio di Torino: “Il Barbiere di Siviglia”

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2013-2014
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Melodramma buffo in due atti
Libretto di Cesare Sterbini, dall’omonima commedia di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
Musica di Gioachino Rossini
Il conte d’Almaviva  ANTONINO SIRAGUSA
Don Bartolo  PAOLO BORDOGNA
Rosina   LAURA POLVERELLI
Figaro  VITO PRIANTE
Don Basilio  NICOLA ULIVIERI
Fiorello  RYAN MILSTEAD
Berta  GIOVANNA DONADINI
Un ufficiale  RICCARDO MATTIOTTO
Ambrogio  ANTONIO SARASSO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore  Alessandro De Marchi
Maestro del coro  Claudio Fenoglio
Maestro al fortepiano  Carlo Caputo 
Regia  Vittorio Borrelli
Scene e costumi  Luisa Spinatelli 
Luci  Andrea Anfossi 
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 13 novembre 2013
Tra una serie di titoli ed eventi verdiani, e prima del Ballet de l’Opéra de Lyon, otto recite del Barbiere di Siviglia proseguono la stagione del Teatro Regio di Torino, con la ripresa di un allestimento di casa, risalente ormai al 2000 e più volte riproposto. La locandina di questa edizione si presenta molto interessante sulla carta, perché chiama in causa un apprezzato direttore specialista nel repertorio barocco, e dunque capace di offrire prospettive di lettura originali; i nomi dei cantanti sono poi tutti di assidui frequentatori del teatro rossiniano. Forse per cedimento alla tentazione della routine, invece, la serata non prende il volo, se non nelle due scene finali, e nel complesso delude le aspettative (anche quelle del pubblico in generale).
Nella sinfonia Alessandro De Marchi presenta subito una peculiare dimensione cameristica per le sonorità degli archi, all’interno di dinamiche molto accurate (peccato che l’ingresso del corno, a introduzione del celebre tema, determini un piccolo incidente d’intonazione). Il tempo non è metronomico, perché il direttore cerca di differenziare le varie sezioni con screziature ritmiche. Sul piano della concertazione, invece, è fuor di dubbio che De Marchi conceda ai cantanti tutta l’autonomia che interpreti così affermati meritano; ma è altrettanto vero che questo comporti talora leggeri sfasamenti tra orchestra e palcoscenico. Nel concertato del finale I il direttore si fa prendere un po’ la mano, e lascia a briglie sciolte le percussioni (il triangolo sembra quasi un sistro frenetico): è l’unico momento in cui gli strumenti sovrastano le voci, allontanandosi dall’usuale equilibrio.
Con le rispettive arie di sortita nel I atto iniziano a presentarsi i vari personaggi. Antonino Siragusa è un conte d’Almaviva già ascoltato al Teatro Regio (soltanto a febbraio dell’anno scorso): il timbro è senza dubbio bello, anche se non sempre carezzevole e aggraziato come il personaggio – specie all’inizio – richiederebbe; canta tutto a voce piena, con emissione di testa molto evidente negli acuti; nelle agilità è piuttosto impreciso, e se nelle puntature il suono resta corposo, è però poco vibrante perché perde di armonici. Non giova affatto, in certi momenti, il ricorso imitativo al modello per eccellenza del tenore rossiniano di oggi, perché la voce di Siragusa è molto diversa, anche più adattabile, rispetto a quella del contraltino puro. Alla fine del II atto Siragusa si cimenta in «Cessa di più resistere», che in generale canta abbastanza bene; le agilità della prima parte sono un po’ azzardate e nelle colorature si sente qualche imprecisione, ma – a onor del vero – è l’unico momento belcantistico dell’intera esecuzione, come il pubblico fa capire, tributando a Siragusa l’applauso più prolungato della serata.
Nel ruolo di Figaro è Vito Priante, dalla voce chiara e un po’ leggera; cantante che entra subito in empatia con il pubblico, perfettamente credibile come barbiere factotum, non ha però una personalità vocale riconoscibile; in alcune note emesse un po’ forzatamente si riscontra anche qualche difetto d’intonazione. Nel corso della serata il cantante comunque migliora sia in scioltezza sia in musicalità. A proposito di routine esecutiva e rispetto del testo, se è ormai consuetudine (anzi, è pressoché un Diktat) la modifica di grassotta in magrotta per la descrizione di Rosina sulla bocca di Figaro davanti alla diretta interessata, non si capisce perché Siragusa, all’inizio del duetto con il barbiere, non canti «Ti veggo grasso e tondo», come prescrivono libretto e partitura, bensì interpoli Dovrei vederti grasso e tondo, frase con altro numero di sillabe e altro ritmo rispetto all’originale. Stride il confronto con l’approccio filologico di De Marchi, che segue la recente edizione critica curata da Alberto Zedda, adottando, per esempio, la cadenza originale nell’aria di don Basilio «La calunnia è un venticello», assai diversa da quella di tradizione.
Laura Polverelli ha una carriera così importante e ragguardevole, che il ruolo di Rosina non dovrebbe costituire alcun problema per lei; anzi, considerata nello specifico la sua voce, la parte le si adatta molto bene. Al contrario, la sua prova si rivela deludente: la voce appare troppo leggera, disomogenea nel registro, non sostenuta dal fiato, quasi del tutto priva di armonici, debolissima nelle note basse (che coincidono con l’emissione parlata). Le variazioni basse della cavatina risultano imbarazzanti, mentre le puntature rasentano il grido; l’emissione forzata produce accenti grevi e sgraziati, specie nelle clausole di ciascun intervento.
Don Basilio è interpretato da Nicola Ulivieri, altro specialista della parte che fino a pochi anni fa eseguiva molto bene (memorabile un’esecuzione pesarese in forma di concerto nell’agosto 2011, diretta da Zedda; e l’anno scorso era già al Regio di Torino insieme a Siragusa e a Paolo Bordogna); oggi la valutazione della sua voce non può prescindere dalla definizione precisa, di basso o piuttosto di baritono; e infatti, mentre canta insieme al don Bartolo di Bordogna, i timbri quasi si confondono e si stemperano tra loro, anziché stagliarsi in un duetto che valorizzi e l’uno e l’altro. D’altra parte, è il problema principale della compagnia maschile: le tre parti buffe sono affidate a tre artisti preparati e competenti, ma le cui voci si assomigliano troppo per profilare in modo adeguato il contrasto da cui nasce il comico. Nelle note tenute, per esempio, sia Bordogna sia Ulivieri tendono all’emissione fissa, e spesso lievemente calante. È un vero peccato, considerato che De Marchi accompagna molto bene, variando le dinamiche con grande finezza e precisione proprio in corrispondenza delle scene più comiche. L’emissione vocale di Paolo Bordogna risuona sempre un po’ nella gola, e la non completa padronanza del fiato si ripercuote anche sul sillabato, non del tutto comprensibile. La Berta di Giovanna Donadini è debolissima nelle note acute: per tale motivo il momento peggiore della prestazione coincide con le puntature del concertato finale I; più decorosa invece nell’arietta che completa la parte. Buono, come sempre, il coro maschile del Regio, preparato da Claudio Fenoglio.
Sul piano scenico e attoriale gli artisti sono tutti molto convincenti, perché conoscono bene il personaggio che ricoprono; ma proprio per questo la regia avrebbe potuto essere più audace e sperimentale, anziché limitarsi alla ripetizione stantia di gags e scenette prevedibili, banali, noiose, specie in un ciclo di recite d’abbonamento. Tanto più che le trovate di comicità aggiuntiva non si adattano alla finezza dell’impianto scenografico (il misurato manierismo degli interni di Luisa Spinatelli potrebbe ospitare spunti di comicità più raffinata). E ancora, nella monotonia inevitabile delle due scene (una per atto), domina un’immobilità d’altri tempi (persino nel parossistico concertato del finale I). Anche il pubblico torinese, che è sempre generosissimo di applausi e di partecipazione, fa avvertire questa volta un senso di tollerante cordialità – ma nulla più – nei tiepidi applausi a conclusione delle varie scene; serpeggia, nell’atteggiamento e nei commenti degli spettatori, un filo di noia, inevitabile in uno spettacolo che non offre nulla di nuovo a quanti sono per lo più abituati a vederlo.