Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2013/2014
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Melodramma buffo in due atti su libretto di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva FRANCESCO MARSIGLIA
Don Bartolo MARCO FILIPPO ROMANO
Rosina CHIARA AMARÙ
Figaro DOMENICO BALZANI
Don Basilio ABRAMO ROSALEN
Fiorello RYAN MILSTEAD
Berta GIOVANNA DONADINI
Un ufficiale FRANCO RIZZO
Ambrogio ANTONIO SARASSO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Alessandro De Marchi
Maestro al clavicembalo Carlo Caputo
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Vittorio Borrelli
Scene e costumi Luisa Spinatelli
Luci Andrea Anfossi
Allestimento Teatro Regio
Torino, 9 novembre 2013
Ascoltare, a pochi giorni di distanza, le due compagnie assemblate da un teatro lirico per mettere in scena un’opera, tanto più se si tratta di un titolo di repertorio, permette spesso di constatare che “prima” e “seconda compagnia” sono espressioni di comodo uso, ma non rispondono a livelli qualitativi significativamente differenti. Capita sovente, infatti, che ci si trovi di fronte a cast che si differenziano anche in misura marcata per qualità vocali e scelte interpretative dei singoli, ma nel complesso producono risultati che non si possono ordinare secondo le categorie del meglio e del peggio. Ho vissuto questa esperienza proprio in occasione del Barbiere di Siviglia torinese, che ho riascoltato con il primo cast nella stessa serata recensita dal collega Michele Curnis (del quale non posso che condividere le opinioni), dopo aver seguito la prima recita del cast alternativo.
La direzione di Alessandro De Marchi, fin dalla sinfonia, eseguita a sipario chiuso (e lo si evidenzia perché questa, che dovrebbe essere una sana prassi, è abitudine sempre più obliata dai registi che tendono a propinarci le loro fantasticherie introduttive alle vicende rappresentate), ha messo in luce una lettura della partitura di taglio settecentesco, composta, curata, molto raffinata se si vuole, ma priva di quel tocco di verve che occorrerebbe per dare brio ad un’opera che vive di comicità intrinseca alla musica. Non sottolineare questa comicità intrinseca ha generato due inevitabili conseguenze: da un lato, un senso di noia che qua e là rischiava di assalire lo spettatore; dall’altro lato, la concentrazione del pubblico sulla comicità estrinseca, quella imposta dalle gag registiche che costellavano l’esecuzione provocando eccessive risate negli spettatori naïf e noia di secondo grado in chi ha già visto lo spettacolo cinque o sei volte (l’allestimento risale infatti al 2007, ed è già stato riproposto nel 2010 e 2012). Nel secondo cast, occorre rilevare, le gag sono state confinate all’azione scenica, senza interpolazioni nella linea del canto o nel testo del libretto, che è stato rispettato anche nel «grassotta» del ritratto di Rosina, fedele alla corporatura dell’interprete che ha accolto l’aggettivo con un simpatico sorriso molto più emozionante di tanti sketch non previsti da Rossini. Visto che di lei si è parlato, occorre mettere in luce come il mezzosoprano Chiara Amarù abbia rivelato intelligenza interpretativa in tutto il corso della rappresentazione: appoggiandosi su una voce corposa di grande estensione (nella quale occorre solo prestare più attenzione allo sfogo del registro acuto), ha saputo arricchire di ardite variazioni le ripetizioni di «Io sono docile», e rispondere costantemente al carattere determinato e pungente di Rosina; la quale però, quando affronta il rondò nel II atto, è pur sempre una studentessa di canto (con conseguenti tempi lenti e sillabazione più ingenua), e quando si crede tradita è una ragazza indifesa che si sente crollare il mondo addosso, come è perfettamente emerso nel toccante recitativo in cui propone le nozze al tutore. Il conte d’Almaviva è stato impersonato dal tenore Francesco Marsiglia, per il quale si impone un confronto con Antonino Siragusa (interprete del ruolo nel primo cast) perché ci si è trovati di fronte a due voci complementari: un solista che sommasse il meglio di entrambe potrebbe dar vita all’Almaviva ideale. Tanto la voce di Siragusa è costantemente piena, svettante, tesa al virtuosismo, quanto quella di Marsiglia è morbida, vellutata, carezzevole; sicché i suoi passi che più convincono sono proprio la serenata iniziale e la canzone «Se il mio nome saper voi bramante» (quest’ultima impreziosita di passaggi delicati in mezza voce e di belle smorzature che portano a una chiusura in piano di grande fascino) che nella lettura di Siragusa avevano suscitato più perplessità. Non si può, viceversa, estendere il confronto all’aria finale, perché Marsiglia ha scelto di non cantarla affatto, e, secondo la tradizione dei decenni passati, dopo il terzetto del Conte con Figaro e Rosina si è passati al rapido finaletto. Altro interprete ragguardevole è stato il basso Marco Filippo Romano, del quale negli ultimi anni si sta apprezzando la rapida crescita professionale fondata su un solido dominio della tecnica da buffo rossiniano, in particolare del sillabato; non ci si stupirà, nei prossimi anni, di vederlo impegnato nelle “prime compagnie”. La sua lettura dell’aria «A un dottor della mia sorte» è la migliore dimostrazione di come la comicità sia intrinseca alla musica rossiniana, e di come basti saperla mettere in luce, senza ricorrere a improprie caricature espressive o a scenette che distraggono gli spettatori. Scenette ridicole hanno invece costellato l’aria di Basilio, affidata alla voce potente ma non molto aggraziata del basso Abramo Rosalen, che ha lasciato sfuggire l’elemento finemente ipocrita che caratterizza il maestro di musica (da nessuna parte sta scritto che sia un prete, anche se di tale abito è immancabilmente rivestito). Qualche delusione viene dal protagonista: il baritono Domenico Balzani, infatti, nella compagine fa una figura piuttosto insipida, non aiutato dalla voce un po’ chioccia e dalla tendenza a scivolare, qua e là, nel parlato.
Insomma, un risultato apprezzabile per una “seconda compagnia”, nella quale sono brillate buone potenzialità per la carriera dei singoli interpreti. Quanto all’economia della stagione del Regio, forse è inevitabile che rivedere nel giro di tre settimane tre allestimenti di repertorio giunti, ciascuno, almeno alla terza ripresa in non più di tre anni, possa instaurare pericolosi meccanismi di routine, anche nella mente degli ascoltatori. L’idea di istituire un “repertorio all’italiana”, di cui ho già avuto più volte modo di scrivere, è di per sé apprezzabile, ma sarebbe opportuno, in primo luogo, ampliare il ventaglio dei titoli, in modo da distanziare di alcuni anni la ripresa delle singole opere; in secondo luogo, diluire maggiormente il repertorio nel corso del cartellone stagionale; infine, curare sempre l’eccellenza della componente musicale. L’alternativa, che si auspica scartata, è quella di accettare di fare recite dalla scarsa incidenza culturale.