La genesi
Composta nel 1889 in appena due mesi su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, Cavalleria rusticana fu rappresentata per la prima volta al teatro Costanzi di Roma il 17 maggio del 1890 con un cast d’eccezione costituito da Gemma Bellincioni (Santuzza), Federica Casali (Lucia) Annetta Gulì (Lola), Roberto Stagno (Turiddu), Gaudenzio Salassa (Alfio) sotto la direzione di Leopoldo Mugnone ottenendo un successo tale da rendere famoso il suo compositore. Prima di ispirare l’opera di Mascagni il dramma di Verga aveva conosciuto un’altra riduzione melodrammatica ad opera di Stanislao Gastaldon il quale, su libretto di Bartocci-Fontana, aveva composto una Mala Pasqua che, rappresentata per la prima volta circa un mese prima, l’8 aprile 1890, sempre al teatro Costanzi di Roma, aveva ricevuta una discreta accoglienza. Il successo dell’opera di Mascagni non fu inaspettato, in quanto la Cavalleria aveva vinto l’anno prima il concorso indetto dall’editore Sonzogno dopo essere stata esaminata da una commissione di cui facevano parte Sgambati, Marchetti e Platania. Il giudizio favorevole della commissione, che conferì a Mascagni il primo premio su 73 lavori esaminati, costituisce una testimonianza dell’alto livello qualitativo dell’opera che da quella prima rappresentazione ha trionfato nei principali teatri del mondo. Mascagni, che in quel periodo si definiva un naufrago per il quale ogni molecola è una tavola, vide nel concorso una possibilità di sopravvivenza artistica e, trovati, dunque, i due librettisti, si gettò nella composizione dell’opera abbandonando l’amato Ratcliff. Conclusa la stesura della partitura, Mascagni, che pur aveva scritto la Cavalleria esclusivamente per il concorso, non avrebbe voluto inviarla, forse perché preso da una forma di scetticismo e da mancanza di fiducia nei propri mezzi, come Lo stesso compositore ricordò nelle conversazioni avute con De Carlo e pubblicate nel volume Mascagni parla: “La “Cavalleria” fu scritta appositamente per il concorso. All’ultimo momento, però, non la volevo più mandare. Infatti non la mandai mica io, la mandò mia moglie. Io mi ero messo in testa di mandare un atto del “Ratcliff”, scrivendo alla Commissione: «… Non è il concorso che io voglio vincere, voglio solo farmi conoscere. […] Via via che si avvicinava la scadenza del termine fissato aumentavano le discussioni con mia moglie: io mi scoraggiavo, lei si esaltava; io ero sfiduciato, lei brillava di fede. «Insomma, – dicevo – io non me la sento di far ridere i miei nemici con un bel fiasco!». E lei: »Lascia fare, ride bene chi ride l’ultimo». Mancavano ormai tre giorni. Ci fu l’ultima discussione. «Non c’è più tempo da perdere» dice lei. «Infatti, non ce n’è più perché l’ho preso tutto». Mia moglie non mi risponde neanche e se ne va nell’altra stanza. Soltanto più tardi seppi il resto. A mia insaputa si era messa a fare il pacco dello spartito di Cavalleria in fretta e furia. Mancava poco alla partenza della posta. Quel giorno diluviava. Per timore di non giungere in tempo, mia moglie non prese neanche l’ombrello. Si mise uno scialle in testa e scappò sotto quel torrente d’acqua”. (S. De Carlo, Mascagni parla. Appunti per le memorie di un grande musicista, Roma, De Carlo Editore, pp. 57-58)
Il concorso si rivelò per Mascagni quel trampolino di lancio nel quale aveva sperato e la sua Cavalleria conquistò il primo premio su 73 lavori esaminati. Lo stesso compositore ricordò: “Io poi debbo fare a parte l’elogio della Commissione. Allora non era mica come oggi, come in certe commissioni moderne: c’era tutta gente per bene; tutta brava gente. C’erano Platania, Sgambati, Galli, professore del Conservatorio di Milano, Marchetti, direttore di Santa Cecilia di Roma, e D’Arcais, il famoso giornalista, critico musicale dell’Opinione, gran musicista anche lui: cinque professori sul serio. E come avevano fatto il concorso? Questa è una cosa che mi è piaciuta moltissimo quando l’ho saputa. Avevano suddiviso le opere (ben settantatré) in cinque cassetti, circa quindici per cassetto, e mandavano un cassetto a ciascuno dei commissari, i quali lo trattenevano un determinato numero di giorni, sufficienti ad esaminare tutte le quindici opere. Terminato l’esame, dovevano rimandare ciascuno il proprio cassetto contenente anche il giudizio dell’esaminatore su ogni opera. I diversi commissari si scambiavano poi questi cassetti, in modo che alla fine tutte le opere riportavano il giudizio dei cinque esaminatori. Ultimato il lavoro, la commissione si riuniva per discutere i vari giudizi particolari ed emettere quello complessivo. Tali giudizi risultavano quindi, quasi sempre, di un’equanimità e di un’esattezza straordinaria. Curioso, simpaticissimo, quel sistema lì. Ci hanno messo due anni a esaminare le opere, mica un giorno! Due anni a esaminare settantatré opere! Oggi se ne esaminano duecento in una settimana… È che oggi si fa un concorso sapendo già in anticipo chi lo deve vincere; allora non lo potevano sapere. Fu per questo, perché non furono fatte ingiustizie, che lo vinsi io… A questo proposito mi viene in mente quando mi presentai al concorso. Fu una cosa straordinaria. A un certo punto Sgambati mi chiese: «Lei è Mascagni?». «Sì». Mi fa: «Dimmi un po’ perché ti sei fatto raccomandare da tanta gente? Tu sai che nei concorsi non è mica bello farsi raccomandare…». «Io?! Maestro, ma certo c’è un equivoco. Qui io non conosco nessuno. È la prima volta che vengo a Roma; chi mi poteva raccomandare? Forse mi confonde con un altro». «Te l’ho detto in ischerzo: su settantré concorrenti ce n’è stato uno solo che non aveva raccomandazioni ed è quello che vincerà». (Questa è proprio di Sgambati). Confesso che quando entrai nella sala, lì per lì preso da una grande timidezza, o piuttosto da un senso di sgomento. Giuocavo una grossa carta. Sapevo bene che cosa rappresentava per me la decisione di quei professori. Il fatto di riscuotere il premio delle tremila lire aveva un’importanza molto relativa. […] Volevo venir via da Cerignola. […] Ora, siccome volevo venir via da Cerignola, occorreva che potessi prendere l’aire in un modo o nell’altro. La mia vittoria nel concorso poteva costituire il trampolino di lancio; un fallimento significava ripiegare per benino tutte le proprie speranze, chiuderle in valigia forse per sempre e tornarsene avvilito a Cerignola, dove certamente mi attendeva lo scherno di quei cari redattori del Risveglio”. (Ivi, pp. 52-54).
Per Mascagni Cavalleria fu un vero trionfo, nonostante «Il Risveglio» non mancasse di lanciare una frecciata alla musica del compositore livornese in occasione di un’esecuzione in anteprima a Cerignola del preludio e dell’intermezzo sui quali si espresse causticamente: «Se tutti i pezzi di Cavalleria sono tutti come quelli eseguiti dalla Filarmonica, i buoni romani dovranno bene annoiarsi». In realtà i romani non si annoiarono e lo strepitoso successo di Cavalleria diede al suo autore non solo quella fama della quale era alla costante ricerca, ma anche alcune noie di natura legale con Giovanni Verga che chiese al compositore e all’editore il riconoscimento dei diritti sugli utili dell’opera ricevendo, in contraccambio, l’offerta di mille lire, somma che fu giudicata irrisoria dallo scrittore siciliano, il quale fece ricorso alla «Società degli autori». La complessa vicenda giudiziaria, che ne seguì, si concluse soltanto il 22 gennaio 1893 con l’accettazione, da parte di Verga, della somma di 143000 lire come compensazione finale.
L’argomento e la musica.
L’opera si apre con un preludio dalla struttura formale piuttosto ardita con la celeberrima Siciliana, incastonata al suo interno e cantata a sipario chiuso da Turiddu, che il compositore decise di non inviare insieme con il plico dell’opera nel timore che fosse giudicata troppo azzardata: “A un tratto qualcuno si accorge che ho un fagottino di musica sotto il braccio. Mi dice: «Cos’ha lì, sotto il braccio?». Ho il preludio dell’opera». «Come? Non l’ha mandato?». «Sì, un po’ di preludio l’ho mandato, ma quello vero ce l’ho qui». «Perché?». «Perché ho avuto paura. Siccome c’è una canzone cantata in dialetto siciliano dal tenore, dietro il sipario, ho detto: «la prenderanno per una cosa troppo azzardata, c’è il caso che mi faccia male invece che bene e non l’ho mandato». «E allora perché l’ha portato?». «Se i signori della Commissione lo vogliono sentire… Non c’è obbligo da parte loro, questo si capisce». «Sentiamo, sentiamo». Mi sono messo al pianoforte – mi ricordo che era uno strumento a coda buonissimo – ed ho suonato il preludio; poi ho attaccato la Siciliana, cantandola come potevo. Alla fine del canto la Commissione è entusiasta. Io sono tutto rosso dall’emozione. «Ma questa è una cosa bella! – dicono – ma perché non l’ha mandata?». «Ripeto, mi pareva che fosse una cosa pericolosa… Sa, io vo’ coi piedi di piombo»”. (ivi, pp. 55-56)
Questa Siciliana taglia in due il preludio proprio nel momento di massima tensione, quando l’orchestra a pieno organico riprende uno dei passi più drammatici del duetto tra Turiddu e Santuzza. Il preludio, con un inizio in pianissimo su un accordo di settima di seconda specie che si costruisce a poco a poco dando vita alla ripresa del tema (Es. 1) che si accompagna all’inizio delle funzioni religiose, rappresenta immediatamente l’atmosfera dell’opera. Il drammatico duetto tra Santuzza e Turiddu, vero centro dell’opera, informa questo preludio, nel quale emerge la contrapposizione tra il carattere religioso della festa della Pasqua, rappresentato all’inizio, e il dramma della gelosia che prende forma nel contrastato rapporto tra i due protagonisti. Proprio mentre questo dramma sta per deflagrare con la ripresa in crescendo di uno dei passi più drammatici, anche per la presenza di un’armonia cromatica discendente estremamente tesa, di questo duetto, in modo sorprendente, si staglia la splendida Siciliana introdotta da un languido accordo di quarta e sesta sulla dominante di fa minore affidato all’arpa. Questo brano, con il quale i librettisti conferirono all’opera un colore siciliano e marcatamente realistico reso perfettamente dall’uso del dialetto, ha un’importanza fondamentale nello sviluppo dell’opera, in quanto introduce il pubblico direttamente in medias res, mettendolo al corrente dell’amore adulterino tra Turiddu e Lola, la cui dichiarazione esplicita, nel dramma verghiano, è ritardata al momento del colloquio che si svolge nella prima scena tra Gnà Nunzia, mamma Lucia dell’opera, e Santuzza. La Siciliana ha, inoltre, l’effetto di ritardare la deflagrazione del dramma che puntualmente si verifica con la ripresa delle ultime tre battute. Nel finale del preludio la ripresa del tema dell’appassionato Ah! No Turiddufocalizza l’attenzione su Santuzza, vero motore del dramma e personaggio estremamente problematico per la ricchezza di sfumature psicologiche.
Per quanto riguarda la fabula, il libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci è estremamente fedele alla riduzione teatrale della novella verghiana, anche se presenta alcune differenze dovute essenzialmente alle necessità sceniche dettate da alcune convenzioni melodrammatiche; tra queste differenze risaltano soprattutto, oltre alla già citata Siciliana, l’introduzione di pezzi chiusi, quali la sortita di Alfio e il celeberrimo brindisi, e la scelta di ridurre il numero dei personaggi da 9 a 5 con l’eliminazione dello Zio Brasi, di sua moglie, comare Camilla, di Zia Filomena e, infine, di Pippuzza, sostituiti da un coro che, nell’opera di Mascagni, assume una funzione diversa. Un primo “tradimento” del libretto nei confronti del dramma di Verga è costituito dalla scena d’apertura, ambientata, come recita la didascalia, in una piazza in un paese della Sicilia, che, naturalmente, è Vizzini in provincia di Catania. È un giorno di festa; si celebra, infatti, la Pasqua e le campane della chiesa suonano, mentre donne e uomini entrano gradualmente in scena. Alle prime, che inneggiano alla bella stagione e alla celebrazione della Pasqua in onore della quale devono cessare le rustiche opre, rispondono i secondi che esaltano le rispettive mogli. Il coro è introdotto da un tema orchestrale gioioso di sapore popolare con la sua apertura melodica iniziale e le frequenti note di volta ascendenti in crome nella seconda frase (Es. 2) che anticipano il richiamo Ah! scambiato reciprocamente subito dopo dagli uomini e dalle donne. La prima parte del coro delle donne è molto semplice con la prevalenza di ribattuti e suoni congiunti conclusi da un popolaresco melisma in terzina sulla parola fior, mentre la seconda parte (Tempo è si mormori) si concede ad un’interessante apertura melodica. Più pesante appare, invece, l’intervento degli uomini anche nell’accompagnamento nel quale prevalgono, almeno inizialmente, i suoni gravi quasi a rappresentare il duro lavoro dei campi. Questo quadro sereno di campagna cessa presto, perché il dramma è alle porte segnalato dal repentino passaggio dal la maggiore al fa diesis minore, tonalità nella quale è esposto dai violoncelli un tema estremamente triste che ritornerà all’interno dell’opera, mentre gli altri archi si producono in patetici accordi sincopati (Es. 3). Questo tema informa un breve preludio orchestrale che introduce il “dialogo” tra Mamma Lucia e Santuzza che, innamorata di Turiddu, vorrebbe sapere dove egli si trovi; realizzato musicalmente con momenti di recitativo che si sviluppano in arioso, questo dialogo assume toni drammatici prima nell’accorata richiesta di Santuzza, Ditemi per pietà dov’è Turiddu, che si dispiega in un’espansione melodica, e, poi, nel mi ribattuto quasi parlato in corrispondenza della dichiarazione sono scomunicata in risposta a Mamma Lucia che le aveva detto di entrare nell’osteria da lei gestita insieme con il figlio. Dopo la domanda di quest’ultima: E che ne sai del mio figliuolo? che si conclude con un interrogativo accordo di settima di dominante di si maggiore, entra sulla scena Alfio annunciato da un agitato tema in crescendo. La sua sortita, nella quale l’uomo loda il suo mestiere, esaltato anche dall’intervento del coro, sembra in apparenza convenzionale con una struttura fraseologica piuttosto semplice, ma, nella sezione centrale, nella quale Alfio fa riferimento alla fedeltà della moglie Lola, assume un tono ironico grazie ad una raffinata contraffazione del tema, degna di Berlioz e del tutto assente nell’opera italiana, ottenuta con uno spostamento d’accenti dettato anche dal testo (Es. 4), che lo rende quasi irriconoscibile. Nel breve recitativo successivo Alfio, dopo aver chiesto a Mamma Lucia di quel vecchio vino buono da lei venduto nell’osteria e alla risposta di quest’ultima secondo la quale Turiddu sarebbe andato a provvederne, allude alla presenza del suo rivale vicino a casa sua, mostrando di sospettare qualcosa senza averne la prova. Mamma Lucia è meravigliata, ma il pronto intervento di Santuzza, che la invita a tacere, evita che il discorso possa degenerare. Nel frattempo il suono dell’organo introduce alle funzioni religiose e a una gemma dell’opera, la famosa preghiera, intonata dal Coro e da Santuzza. Il primo, in una scrittura solenne ed ecclesiastica quasi di matrice rinascimentale come conviene a un brano di musica sacra, intona il Regina Coeli in latino e nella sezione in italiano (Inneggiamom, il Signor non è morto) si produce in una scrittura innodica e in maggioranza omofonica. Ad esso si aggiunge Santuzza che costituisce una voce originale e soprattutto individuale in contrapposizione al coro, una massa anonima e non ben distinta, pur cantando le stesse parole che, sulla sua bocca, si dispiegano in una scrittura estremamente lirica idonea a rappresentare efficacemente il tormento della donna peccatrice che vorrebbe redimersi. Il canto dolente e pieno di fervore religioso di Santuzza, personaggio che nella Cavalleria di Mascagni, si erge a vero e forse unico protagonista dominando come un gigante tutti gli altri, finisce per coinvolgere anche il coro con i soprani che alla fine raddoppiano la parte della donna. Dopo questo momento quasi mistico, suggellato dall’orchestra che alla fine del coro riprende ancora il tema della preghiera, il dramma ritorna sulla terra con un repentino arpeggio discendente che introduce la domanda di Mamma Lucia, Perché m’hai fatto cenno di tacere? La risposta di Santuzza è affidata alla romanza, Voi lo sapete, o mamma, con la quale la donna racconta il forte sentimento d’amore che la lega a Turiddu, ma anche il tradimento di quest’ultimo che, ancora innamorato della sua ex-fidanzata Lola, continuava a frequentarla quando il marito era assente. Musicalmente la romanza ha una struttura tripartita, la cui prima presenta un carattere narrativo che assume toni drammatici nel momento in cui Santuzza ripete per ben due volte l’amai su un accompagnamento orchestrale che riprende il tema iniziale quasi a scandagliare il cuore della donna, mentre la seconda parte (Quell’invida) è caratterizzata da una rielaborazione del tema orchestrale già udito quando era stato presentato questo personaggio (Es. 3). Nell’ultima parte della romanza si concentra, in una scrittura certamente più lirica, il dramma di Santuzza disonorata e tradita perché Lola e Turiddu s’amano. Alla fine Mamma Lucia è profondamente turbata e, mentre si sente in orchestra il tema iniziale del preludio utilizzato per rappresentare la funzione religiosa, Santuzza la implora di pregare Dio per lei che sarebbe rimasta per parlare con Turiddu. Annunciato da un rapido tema in semicrome, Turiddu non tarda ad arrivare per dar vita insieme a Santuzza al duetto centrale dell’opera. L’uomo, inizialmente, vorrebbe evitare il colloquio con Santuzza forse prevedendone l’argomento, ma la donna gli chiede dove sia stato avendo in risposta una menzogna: a Francofonte. Nel successivo Andante, Santuzza, su un semplice accompagnamento accordale che esalta il tono colloquiale del passo, smaschera il suo amante, dicendogli che era stato scorto presso l’uscio di Lola e aggiungendo che lo aveva riferito Alfio. Al nome del suo rivale, Turiddu esplode in uno dei suoi tanti scatti d’ira che caratterizzano questo duetto temendo la vendetta del marito della sua amante e subito dopo, a una nuova domanda di Santuzza, nega la sua relazione con Lola accusandola di essere gelosa. Qui la musica diventa protagonista con una netta contrapposizione tra Turiddu (Bada, Santuzza, schiavo non sono) sempre iracondo e una Santuzza che si esprime con uno struggente lirismo pieno di angoscia. Al centro del duetto si inserisce lo Stornello di Lola, una pagina leggera che rappresenta perfettamente il carattere frivolo della donna che allude al suo amore per Turiddu, senza mai nominarlo, in tono quasi provocatorio. Sembra uno squarcio di luce che solo in apparenza alleggerisce la scena, ma che contribuisce ad accendere da una parte la gelosia di Santuzza e dall’altra la passione di Turiddu. Ciò appare evidente nel successivo recitativo, al quale partecipano Lola, Santuzza e Turiddu, pieno di battute allusive al peccato e all’ipocrisia di Lola che bacia in terra perché sa di non aver peccato. L’ironia di Mascagni qui si esercita attraverso un repentino salto di settima (re bemolle-mi bemolle) e con la sottolineatura della sillaba ter di terra tenuta più a lungo. La rabbiosa e ironica risposta di Santuzza non si fa attendere e l’intervento di Turiddu non serve a placare gli animi. Mentre Lola va via accompagnata dalla ripresa del suo stornello in orchestra, Turiddu, rimasto solo con Santuzza, esplode in un nuovo scatto d’ira nei confronti della donna che, da parte sua, risponde con una nuova appassionata dichiarazione d’amore (No. No, Turiddu) (Es. 5). Nei confronti di Santuzza, che anche in questo duetto giganteggia con il suo accorato appello di donna innamorata e ferita nei suoi sentimenti, ma disposta a perdonare anche il tradimento, Turiddu mostra una meschinità di sentimenti che è resa dalla musica in alcuni passi con l’uso di ribattuti che indulgono al parlato quasi a dimostrare l’impossibilità dell’uomo di competere nel canto con la sua amante. Nonostante i disperati appelli della donna Turiddu la scaccia e ne provoca l’ira che si produce nel famoso urlo A te la mala Pasqua, spergiuro!, mentre l’orchestra riprende il tema con il quale la protagonista era stata presentata all’inizio. Introdotto dall’ironico tema utilizzato per i versi m’aspetta a casa Lola che m’ama e mi consola della sortita di Alfio, entra il carrettiere che è informato da Santuzza della tresca amorosa tra Lola e Turiddu. Inizialmente Alfio sembra non credere, ma alla fine esplode nel celeberrimo Infami loro, mentre la donna, pentita, vorrebbe rimangiarsi ciò che aveva detto prima in un momento di rabbia.
Il celeberrimo Intermezzo, che separa le due parti dell’atto unico e copre, da un punto di vista temporale, il periodo in cui si svolge la cerimonia religiosa, è una brevissima, ma intensa pagina orchestrale nella quale Mascagni rielaborò la musica di una precedente “Ave Maria”. La prima parte dell’Intermezzo, di carattere preludiante, dal punto di vista tematico deriva dal “Regina Coeli” dell’opera ed è caratterizzata dalle sonorità celestiali dei violini che si muovono in un registro acuto, mentre la seconda parte presenta una melodia di grande intensità, intonata sempre dai violini, che Mascagni aveva composto per l’Ave Maria. L’organo, che accompagna questa melodia, dipinge, come in un grande affresco, l’ambientazione del dramma che si svolge nel santo giorno della domenica di Pasqua.
La ripresa del tema iniziale dell’opera sembra riportare la serenità, mentre gli uomini e le donne ritornano a casa dopo la Messa che ha infuso letizia nei loro cuori. Turiddu, nel clima di festa, offre del vino a tutti e intona il celebre Brindisi dalla struttura tripartita, con l’intervento del coro e di Lola nella seconda parte e la ripresa, nella terza parte, dell’orecchiabile tema iniziale da parte del coro, protagonista anche della stretta conclusiva. Il brindisi costituisce l’ultimo raggio di luce all’interno dell’opera che, da questo momento in poi, precipita verso la tragedia annunciata dall’ingresso di Alfio che, con un tono distaccato, quasi aristocratico, rifiuta di bere il vino offertogli da Turiddu che reagisce gettandolo a terra. A questo punto il personaggio di Alfio sembra subire una metamorfosi, in quanto appare piuttosto freddo, spinto dal dovere dettato dall’onore e non da una passione per la moglie che sembra non trasparire in nessun passo dell’opera. Nel frattempo Lola, che ha compreso ciò che sta accadendo, si produce in un inquietante disegno ascendente costruito su un accordo di nona minore che diventerà, in orchestra, il motivo principale di questo passo nel quale le altre donne la invitano ad andar via. Nel recitativo successivo Turiddu sfida a duello Alfio mordendogli l’orecchio e Mascagni non interviene con l’orchestra creando l’illusione di realtà attraverso un serrato scambio di battute quasi da teatro di prosa. Se Alfio mostra, ancora una volta, un atteggiamento distaccato, Turiddu è certamente più loquace; confessa, infatti, il suo torto e afferma che si sarebbe fatto uccidere se non fosse stato impedito dal pensiero che Santuzza sarebbe rimasta sola a causa della sua morte. Turiddu ha il tempo per un toccante addio alla madre che, iniziato su un raggelante e coinvolgente arpeggio degli archi in tremolo, trova un’accorata espansione lirica nella richiesta all’anziana donna di fare da madre a Santa nell’eventualità che non tornasse più. Turiddu dà un ultimo abbraccio alla madre e sul tema, rielaborato dell’introduzione orchestrale di Voi lo sapete, o mamma, Mamma Lucia trova in Santuzza una nuova figlia che le getta le braccia al collo. Dell’esito del duello, che si svolge fuori scena, ci informa una donna che urla Hanno ammazzato compare Turiddu su un accordo di settima diminuita di re bemolle minore, mentre l’orchestra, con un rapido disegno cromatico discendente che conduce ad un tragico accordo di fa minore, conclude l’opera.