Pietro Mascagni (1863-1945): “I Rantzau” (1892)

Il successo di Cavalleria Rusticana, rappresentata per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890, aveva regalato una straordinaria e inattesa notorietà a Pietro Mascagni che, a distanza di due giorni dalla prima, non riusciva a trattenere l’emozione in una lettera indirizzata il 19 maggio al padre: “Babbo mio, la commozione intensa mi impedisce di scriverti dettagliatamente sulla serata di ieri l’altro che è stata addirittura sbalorditiva. Io non mi sono ancora rimesso dall’emozione e dalla confusione. Mai mi sarei immaginato un entusiasmo simile, tutti applaudivano in platea, nelle poltrone erano tutti in piedi, tutta l’orchestra pure in piedi mi fece una dimostrazione colossale. Tutte le signore, compresa la regina, applaudivano. È stato un successo colossale, come non si è mai veduto. Già l’avrete constatato dai giornali che parlano tutti all’unanimità. È una cosa che commuove. L’impressione grandissima, qua a Roma, continua e cresce”.
Dopo questo grande, quanto inatteso, successo, Mascagni, divenuto ormai l’operista del momento, fu sommerso da proposte editoriali e librettistiche. Un periodo di febbrile lavoro si annunciava per il compositore livornese il quale, dopo Cavalleria, scrisse, su libretto di P. Suardon, pseudonimo di N. Daspuro,  L’amico Fritz che andò in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 31 ottobre 1891 con grande successo. Prima di accingersi alla composizione dell’Amico Fritz, Mascagni aveva maturato il progetto di scrivere I Rantzau su libretto della collaudata coppia Targioni-Tozzetti e Menasci, attratto dal mondo della commedia piccolo-borghese di Les deux frères, ma soltanto dal mese di gennaio 1892 poté dedicarsi alla realizzazione di questo suo progetto in modo sistematico nella pace della sua casa a Cerignola, come lo stesso compositore affermò in una lettera indirizzata alla moglie che in quel periodo risiedeva a Livorno: “Eccomi qua nella nostra casetta che ha tanti dolci ricordi, nella nostra casetta testimone dei nostri dolori e delle nostre gioie […]. Ma è bene che ti parli dei Rantzau. Ti dirò che non ho perduto tempo. Questa Cerignola è per me una vena feconda di ispirazione […]. Non ho mai avuto un periodo di ispirazione come in questi giorni”.
La prima rappresentazione, avvenuta il 10 novembre 1892 sotto la direzione di Rodolfo Ferrari con un cast d’eccezione di cui fecero parte il grande baritono Mattia Battistini nelle vesti di Gianni Rantzau, Hariclea Darclée (Luisa), Anna Berti-Cecchini (Giulia), Fernando De Lucia (Giorgio Rantzau), Giovanni Paroli (Lebel), Edoardo Sottolana (Fiorenzo), Luigi Broglio (Giacomo Rantzau), si risolse in un successo, anche se più tiepido rispetto a quello tributato alla Cavalleria e all’Amico Fritz. Lo stesso Mascagni se ne rese conto affermando a proposito di questa sua creatura: “Mi sono studiato di fare una cosa nuova, di sottrarmi quanto più possibile dalle vecchie tradizioni […] il pubblico non è preparato ancora a questa modernità […]. Prima che il pubblico penetri veramente nello spirito dei miei Rantzau, occorreranno parecchi anni”.

Argomento e Musica – Preludio e atto primo
L’opera è introdotta da un preludio che ha trovato posto nel repertorio sinfonico sia per la raffinata orchestrazione sia per la sua struttura melodica costituita dai temi principali dell’opera tratti soprattutto dal primo atto. La scena, che si apre sulla piazza di un villaggio affollata di uomini e donne che inneggiano alla primavera, sembra ripetere quella iniziale della Cavalleria, ma con risultati artisticamente inferiori nonostante la piacevole introduzione orchestrale in 6/8 di carattere spensierato. Un po’ farraginosa e involuta appare invece la struttura melodica caratterizzata da frequenti cambi di ritmo che la rendono frastagliata, mentre il coro è di ottima fattura contrappuntistica. Un tema brillante in 9/16 introduce l’ingresso del maestro Fiorenzo, la cui funzione, in questo punto, è quella di rivelare al pubblico sul palcoscenico (il coro) e al pubblico in sala la causa scatenante della contesa che oppone i due fratelli Rantzau: Giacomo, che è anche il sindaco del villaggio, e Gianni, ricco possidente. Già in lite perenne per ragioni di eredità, da quando è morto il loro padre, i due fratelli adesso si contendono un podere che divide le loro proprietà e che era stato messo all’asta. Subito dopo appaiono sulla scena i contendenti Giacomo e Gianni accompagnati dai rispettivi figli Giorgio, che si presenta con uno slancio da tenore eroico su un tremolo degli archi, e Luisa che si impone immediatamente per un puro lirismo reso ancor più celestiale dal timbro degli archi (Es. 1).
Allontanatisi i contendenti, sulla scena resta Luisa in compagnia di Giulia, figlia di Fiorenzo e sua confidente, che le fa notare l’atteggiamento interessato del cugino Giorgio nei suoi confronti, mentre parlava con Lebel al quale il padre Gianni l’aveva promessa in sposa. Luisa si produce, allora, in una romanza di acceso lirismo (Fa che i pensier non tornino) nella quale, ricordando i felici e innocenti momenti vissuti con il cugino Giorgio, si lamenta dell’odio che oppone i due fratelli e che rende impossibile il matrimonio fra i due giovani. Dal punto di vista musicale la romanza sfrutta elementi tematici già uditi nel preludio e si dispiega in una melodia di ampie volute. Un tema concitato in orchestra introduce l’ingresso di Fiorenzo che ha assistito poco prima alla lite tra i due fratelli a causa del podere che, secondo i partigiani di Giacomo, Gianni si sarebbe aggiudicato con un inganno. Subito dopo giungono i due fratelli caratterizzati magistralmente in modo diverso, in quanto a Gianni, che si presenta piuttosto grossolano sin dal suo primo intervento in scena, quando comunica, in una scrittura vocalica che indulge quasi al parlato grazie ai ribattuti, la sua vittoria alla figlia, si contrappone Giacomo che si distingue per un afflato lirico nel quale sono riconoscibili alcuni temi già uditi nel preludio. Questo passo dà il via al concertato conclusivo, all’interno del quale si distinguono la voce di Giorgio che, nonostante la sconfitta subita, contempla Luisa e  quella della giovane che si lamenta della sua sorte e soprattutto dell’odio che divide i due fratelli non più memori della cara età passata. Dopo un nuovo intervento di Gianni che, su un rullo di timpani, invita gli astanti a casa sua, si conclude l’atto.
Atto secondo
Anche il secondo atto è introdotto da un breve preludio dalla struttura formale piuttosto insolita, dal momento che incastona al suo interno la romanza di Luisa, C’era una volta un re, nella quale la donna, impegnata a ricamare, si identifica nella figlia di un re, protagonista di una vecchia ballata, il quale, spinto dalla sete di potere, muove guerra e alla fine resta solo rendendo infelice anche la propria figlia. La romanza, che presenta una struttura formale tripartita A-B-A1, si conclude con la ripresa di uno dei temi del preludio e presenta elementi tematici che ricorrono all’interno dell’atto creando una struttura sinfonica. Entra in scena Gianni che, come nell’atto precedente, non riesce a prodursi in momenti lirici particolarmente definiti; il suo dialogo con la figlia Luisa, da lui invitata a prepararsi per festeggiare la vittoria nell’asta per il podere, è tutto condotto su un classico recitativo accompagnato che solo raramente si libra in brevi momenti di arioso. Poco dopo giunge Fiorenzo che, in seguito alle ripetute richieste di Gianni, si mette a suonare all’organo un Kyrie il cui carattere religioso stona con quello della festa. Questo Kyrie è un autentico brano polifonico sacro dalla struttura tripartita con la prima parte in stile omoritmico-accordale, eccezion fatta per qualche breve vocalizzo del soprano, la seconda, corrispondente al Christe in stile fugato, e la terza, che è una ripresa della prima, ancora una volta in stile omoritmico. Un coro disturba l’esecuzione del Kyrie, ma Gianni, un po’ volgarmente, ordina di cantare ancora più forte per non farsi sopraffare dalle voci che vengono dall’esterno. Alla fine sulla scena rimane solo Fiorenzo che si era assunto l’ingrato compito di comunicare a Luisa la decisione del padre di darla in sposa a Lebel, dando vita, subito dopo, ad un duetto con Luisa nel quale l’uomo svela le crudeli mire matrimoniali del padre suscitando nella ragazza il desiderio di rifugiarsi nello stesso monastero dove era stata educata da ragazza. Il duetto, musicalmente, si distingue per un afflato lirico e per toni patetici ottenuti grazie anche a una scrittura cromatica. Alla fine, in un nuovo recitativo, Luisa chiede a Fiorenzo di dire al padre che non avrebbe mai assecondato i suoi disegni matrimoniali; le sue parole sono ascoltate da Gianni che si infuria con il pauroso Fiorenzo, reo di non esser riuscito a convincere la figlia. Alla fine, adirato, intima a Fiorenzo di lasciarlo solo con la figlia, mentre la musica si ferma su un’enigmatica settima di terza specie di mi minore che non risolve. L’uomo, deluso da Luisa, si abbandona a uno dei rari momenti lirici della sua parte (Io che sognavo), nel quale egli cerca di mostrare tutto il suo affetto per la figlia. Con un tono minaccioso, rappresentato da un ritorno alla scrittura con ribattuti che indulge al parlato, Gianni, il quale aveva scoperto l’amore di Luisa per Giorgio, ribadisce alla figlia la sua volontà di darla in sposa a Lebel, ma, di fronte all’atteggiamento risoluto della figlia, esplode in un’ira ancor più feroce e riesce a stento a trattenersi dal non uccidere Giorgio la cui sagoma era ben visibile dalla finestra.
Atto terzo
All’inizio del terzo atto, che si apre sulla piazza del villaggio del primo atto, alcune donne, mentre vanno ad attingere l’acqua, intonano un coro piuttosto convenzionale nel quale esprimono le loro cure amorose. Certamente più vivo è il successivo Cicaleccio, il cui carattere pettegolo è rappresentato icasticamente da un tema di rapidi suoni staccati in un insinuante pianissimo. Mentre le donne chiedono a Giulia notizie di Luisa, sopraggiunge Fiorenzo che, lungi dal far cessare il Cicaleccio, diventa oggetto di nuove domande alle quali non risponde suscitando la delusione delle donne che si allontanano. Rimasto solo, l’uomo si produce in una puntatina misogina contro le donne ciarliere e proprio in quel momento giunge Giacomo con una duplice notizia: l’annuncio pubblico delle imminenti nozze di Luisa con Lebel e il dissidio sorto con il figlio a causa dell’amore di quest’ultimo per la figlia del fratello, suo acerrimo nemico. Poco dopo fa la sua apparizione Giorgio che dichiara con veemenza e in un moto di espansione lirica il suo amore per Luisa (Es. 2), acuendo così il suo dissidio con il padre che alla fine afferma perentoriamente: ma d’ora innanzi come due stranieri vivremo. Giacomo, in presenza del figlio, si abbandona ad un triste sfogo (Lo vedete Fiorenzo) che prende le forme di una melodia ricca di pathos costituita, nella parte iniziale, da un disegno tratto dal preludio all’atto primo e, nella seconda parte, da un movimento cromatico discendente già sentito all’inizio di questo terzo atto. Preso atto dell’insanabile dissidio con il figlio, Giacomo vorrebbe addirittura morire sentendosi solo e alla fine rientra in casa, lasciando sul proscenio Giorgio con Fiorenzo al quale il giovane narra la storia del suo tormentato amore in un cantabile (Quando volevano) di commosso lirismo il cui materiale tematico è già stato sentito nel preludio dell’atto primo. Dopo aver ribadito il suo amore per Luisa, Giorgio incontra il suo rivale Lebel sfidandolo a duello in un drammatico recitativo alla cui conclusione una dolorosa scala cromatica, quasi come una pugnalata, introduce la ripresa di uno dei temi lirici maggiormente utilizzati in questo terzo atto. I rintocchi della campana indicano che l’ora è tarda e che la notte sta per avvolgere tutto nel suo mistero foriero di dolore. Un coro interno di uomini si ode in lontananza, mentre Fiorenzo cerca di far desistere Gianni dal suo proposito di dare la figlia, quasi moribonda, in moglie a Lebel. Gianni, commosso non solo dalle parole di Fiorenzo ma anche dalla situazione dolorosa in cui versa la figlia, si abbandona ad uno dei rari momenti di lirismo (Dicea stamane) della sua parte e, deciso a fare il bene della sua Luisa, va dal fratello, mentre una nuova enfatica espansione lirica orchestrale conclude l’atto.
Atto Quarto 
L’orchestra ritorna protagonista nel successivo intermezzo, nel quale, in mezzo agli echi di qualche situazione armonico-timbrica della Cavalleria e a qualche espansione lirica per la verità un po’ retorica, emerge un tema che ritorna alla fine dell’opera anticipando lo scioglimento finale. L’atto quarto, invece, è aperto dallo stesso tema che aveva concluso il terzo atto, marcando un’ideale continuazione con l’atto precedente. Sulla scena appaiono in successione Fiorenzo, il quale fa intendere che finalmente i due giovani possono coronare il loro sogno d’amore, e Luisa che canta la romanza, Non gridate, nella quale dichiara di essere guarita dalla sua pena d’amore. Questa fragile serenità è turbata, per un breve attimo, da Giulia la quale informa i presenti del duetto tra Lebel e Giorgio che, al suo apparire, fugando ogni preoccupazione, dà vita con Luisa ad uno dei duetti più vibranti di passione dell’opera (Pel nostro amore) grazie ad una melodia che supera l’ottava e che, dopo aver insistito sulle note gravi del registro del soprano, si libra verso territori più acuti nei momenti di passione. Alla fine del duetto Fiorenzo manifesta la sua gioia, insidiata dalla preoccupazione che il contratto di nozze da lui stesso preparato possa compromettere i futuri sponsali. Giunge prima Gianni il quale, senza nemmeno leggere il contratto, per amore della figlia, firma accettando condizioni durissime, tra cui quella di non rivedere più Luisa. Giorgio, a sua volta, strappato il contratto dalla mano di Fiorenzo, con slancio rifiuta quelle condizioni e si produce in un accorato appello alla pace che si conclude con la ripresa del tema dell’intermezzo. In allegato il libretto dell’opera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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