Melodramma in un prologo e tre atti, libretto di Francesco Maria Piave rivisto da Arrigo Boito, tratto dal dramma Simón Bocanegra (1843) di Antonio García Gutiérrez. Thomas Hampson (Simon Boccanegra), Joseph Calleja (Gabriele Adorno), Kristine Opolais (Amelia/Maria Boccanegra), Carlo Colombara (Jacopo Fiesco), Luca Pisaroni (Paolo Albiani), Igor Bakan (Pietro), Andrew Owens (Un Capitano dei balestrieri), Gaia Petrone (Un’ ancella di Amelia).Wiener Symphoniker & Wiener Singakademie, direttore: Massimo Zanetti (registrazione: Wiener Konzerthaus, 12-18 aprile 2013), 2 CD Decca 2013, DDD DHO2.
Ben ventiquattro anni separano la storica prima edizione Decca (1989) della Simon Boccanegra dalla seconda, recentissima (16 settembre 2013): qualitativamente parlando, non si può certo parlare di un miglioramento. Fermo restando un pudico e igienico riserbo che ogni interprete s’accinga a incidere il Boccanegra dovrebbe provare d’innanzi all’edizione (1977), quella sì realmente monumentale, della Deutsche Grammophon − dove uno strepitoso Claudio Abbado dirigeva un cast altrettanto entusiasmante comprendente monumenti al canto del calibro di Piero Cappuccilli, Mirella Freni, José Carreras e Nicolai Ghiaurov −, l’edizione Decca 2013 aggiunge poco o nulla all’interpretazione complessiva della partitura, classificandosi al più come una (qua e là) buona esecuzione, inferiore, come detto, alla Decca 1989, dove si stagliavano distintamente Leo Nucci e Kiri Te Kanawa, due ottimi interpreti dei rispettivi ruoli.
Come da copione si presceglie la seconda versione del Boccanegra: eppure non gioverebbe più approfondire l’esegesi della prima, troppo a lungo bistrattata? Esistono – com’è noto − due versioni dell’opera. Il Simon Boccanegra I (su libretto di Francesco Maria Piave) è nello stile pieno del Verdi di mezzo, quello di Rigoletto, Trovatore e Traviata; fu dato alle scene il 12-03-1857 al Teatro La Fenice, che bocciò Verdi nuovamente (qualche anno prima successe alla première della Traviata). Dopo più di vent’anni dalla prima versione e dieci di silenzio operistico (l’ultima opera composta era stata Aida nel 1871), Verdi volle riprendere quella partitura che nelle sue lettere aveva definito “il figlio gobbo” o il “tavolo zoppo” e affidò a Arrigo Boito, librettista di fiducia dei suoi ultimi anni, il rifacimento di buona parte del libretto (era stato tratto dal dramma dello spagnolo Antonio García Gutierrez, Simón Bocanegra): il suo rinnovato gusto, attento allo svolgersi ininterrotto della tensione drammatica, e l’affinamento della conoscenza dei suoi mezzi espressivi più pieni, fecero in modo che la partitura (Simon Boccanegra II: Teatro alla Scala, 24-03-1881) venisse profondamente trasformata, snellita, rimodellata, rendendo il linguaggio drammatico consono a quella tinta scura, cupa (marca sostanziale dell’opera), venata però dei suoni evocanti le brine e le onde marine, caratterizzati dai ritmi ternari che ricordano raffinate barcarole. Il gusto di Verdi si fa sempre più mitteleuropeo: lo splendido preludioall’aria di Amelia del dell’atto I, un diamante raffinatissimo, vero monumento del genio del compositore, anticipa l’eterea leggerezza dell’espressionismo francese, di cui eccelso esempio è il Debussy del Prélude à l’après-midi d’un faune. Lo stesso rifacimento del preludio iniziale del prologo è sotto l’egida del gusto di Schumann; un Verdi cosmopolita, affascinato dall’universo musicale che risuonava delle melodie di Chopin, di Berlioz. Ma Verdi guarda anche al recente passato operistico italiano: l’attacco del cantabile del duetto Simone-Fiesco del III (“Piango perché mi parla”) presenta quell’esposizione della «melodia lunga, lunga, lunga» (Verdi su Bellini in una lettera del 2-05-1898) tipica dello stile belliniano. L’accompagnamento vaporoso degli archi alle parole di Simone “Oh refrigerio!… la marina brezza!… Il mare!” (III atto, scena 2) palesa un’attenzione drammatica nuovissima, magnifica. Ma ora si scenda nei particolari di quest’edizione. Massimo Zanetti incomincia bene con la direzione del preludio del prologo; l’orchestra è pronta a rispondere, soprattutto gli archi alti che suonano con una smaltata sinuosità marina: per tutto il prologo Zanetti sceglie una direzione concitata, lesta ma a cui manca l’elemento imprescindibile della tetraggine. Sembra perfettamente a suo agio nella direzione bozzettistica, del particolare; magnifica la resa del preludio all’atto I: prima i trilli degli archi in tremulo, poi i legni (il clarinetto accompagnato dal vapore degli archi in crescendo: sontuosamente etereo, celeste, divino), sono quanto di più bello sia mai stato scritto in musica per descrivere un marino albeggiare, di certo la migliore alba di Verdi. Ma Zanetti non mi pare senta perfettamente le scene di massa; teste ne è la mano troppo leggera che impiega nella direzione della scena del tumulto (atto I, scene 10-11). L’interprete di Simone è il baritono statunitense Thomas Hampson: dotato di una voce chiara ma non molto espressiva, non eccelle né in fraseggio (qualche suono cade), poco intenso, né in dizione, che risulta poco sgranata. Sospetto sia carente dell’allure adatto a un ruolo come Simone; ma nel primo duetto con Fiesco (“Suona ogni labbro il mio nome. – O Maria”, scena 6 del prologo), a scapito di una direzione incalzante, tumultuosa e di qualche ingenuità espressiva nel tempo d’attacco, Hampson risulta languido nel cantabile (“Del mar sul lido fra gente ostile”), dove palesa qualche sfaccettatura della sua voce, e assai intenso su quel magnifico mi 3 sulla prima sillaba di “morta!”. Non si distingue nel successivo recitativo “Oh de’ Fieschi implacata, orrida razza!”, come nel finale del prologo, dove esagera su quei versi scultorei “Paolo… Ah!… una tomba”. Nel I atto non migliora la situazione: eccetto una memorabile esecuzione dello stupendo fa 3 filato in morendo, dolcissimo, (sulle parole “Figlia”) alla fine del suo duetto con Amelia, tutta la scena del consiglio, con quel monumentale monologo “Plebe! Patrizi! Popolo”, vede il baritono carente della necessaria estrema nobiltà senile del ruolo, anche se il canto c’è, pur querulo, soprattutto nella sezione “Piango su voi, sul placido”, dove il fraseggiare è più limpido; Hampson risulta poco titanico, inoltre, nella scena della maledizione di Paolo, dov’è inascoltabile sulla frase “e tu ripeti il giuro”, fagocitandosela tutta in suoni indistinti. Il II è forse l’atto in cui canta meglio, con un intenso recitativo e un accento magnifico su “Perfin l’acqua del fonte è amara al labbro / dell’uom che regna” – la scena dell’addormentamento è ben diretta e resa −; termina bene nello stupendo terzetto-finale II (“Perdono, Amelia – indomito”), dove il tutto funziona. Nel III si difende dignitosamente. Tenero e sconsolato il recitativo del delirio per l’ingerimento del veleno (“M’ardon le tempia… un’atra vampa sento”), riesce bene nel secondo duetto con Fiesco (“Delle faci festanti al barlume”), con uno struggente cantabile, e termina bene, morente Doge, nel lacrimevole finale III. Fiesco è cantato dal basso Carlo Colombara, una voce chiara, cantabile, ma non proprio imponente; nella sua cavatina, “A te l’estremo addio, palagio altero”, tira via sul sublime recitativo, con eccessiva semplicità e pur cantando bene, complice una direzione troppo meccanica, la profondità dell’aria viene indubbiamente sacrificata: qualche pianissimo è pregevole (bellissimo il fa 1 diesis finale, che non tiene ad libitum rispettando la scrittura verdiana). Dopo una buona performance nel primo duetto con Simone, esegue al meglio sia il I che il III atto. Nel suo duetto con Adorno (I atto: “Vieni a me, ti benedico”) è smagliante, sia nel recitativo che nel cantabile dalla sacrale atmosfera, con le voci perfettamente avvolte e una adeguata direzione. Nel suo secondo duetto con Simone dà il meglio, ieratico, fosco e implacabile nella frase “Simone, / i morti ti salutano!”; prosegue ben concludendo nel finale III e nel triste annuncio della morte del Doge. Kristine Opolais canta Amelia, dotata di voce non molto potente né piena, seppur squillante: non proprio l’ideale per sorreggere il ruolo di Amelia. La sublime aria di sortita, “Come in quest’ora bruna” (I atto), capolavoro di composizione del cigno di Busseto, complessivamente risulta buona, ma con riserva: sorvolando su un ingresso distintamente in ritardo, il fraseggio non nobilissimo e qualche riserva rendono l’esecuzione non esaltante, come tale autentico pezzo di bravura si meriterebbe. Il successivo duetto Amelia-Adorno (“Anima mia!” – “Vieni a mirar la cerula”) è notevole, con il suo lirico cantabile esaltato e una cabaletta gagliarda. Del pari gradevole, come suddetto, il duetto Amelia-Simone (“Favella il Doge / ad Amelia Grimaldi?”) che, seppur funestato da una direzione un po’ troppo galoppante – apprezzabile, però la linea sinuosa degli archi – presenta bei momenti: elegiaco il cantabile del racconto di Amelia, sentito il momento del riconoscimento, buona la cabaletta. Il suo arioso-racconto (scena del consiglio, I atto) “Nell’ora fugace che all’estasi invita” la vede empatica e ben cantante: Zanetti scopre tutta l’impressionante varietà ritmica che Verdi usa per descrivere il tumulto di sentimenti nel cuore di Amelia. Nel secondo duetto Amelia-Adorno (atto II: “Tu qui? – Amelia! – Chi il varco t’apria”) tutt’e due gli interpreti mostrano un intenso recitativo, poi s’ascolta disperato l’Adorno e delicata Amelia. Adorno che è cantato dal maltese Joseph Calleja, di certo il migliore del cast: una scelta particolare, un tenore contraltino non certo in linea con la tradizione interpretativa del ruolo – per quanto, filologicamente, perfettamente accettabile −, un’emissione chiarissima, ma lievemente nasalizzata, una voce dalla fibra molto lirica, da lunghe canore arcate legate, benché non sia proprio incisivo. Incomincia benissimo con la sua canzone retroscenica del I atto (“Cielo di stelle orbato”), è elegiaco nel seguente duetto con Fiesco e termina intensamente l’atto – un tonante “Pel cielo! Uom possente sei tu!” nella scena del consiglio. Stupenda l’esecuzione della sua aria (II atto: “Oh inferno! Amelia qui! L’ama il vegliardo!”), strutturalmente una delle più insolite della produzione verdiana: a un’iniziale vocalità irosa e commossa – con un grido disperato su “pietà, gran Dio”! –, segue un tempo più disteso, una performance vibrata, infiammante e sensuale, con saldi acuti. Veramente notevole anche l’esecuzione del terzetto con Amelia e Simone. Un ottimo Paolo interpreta Luca Pisaroni, buona corda baritonale, forse troppo pulita per l’allure del personaggio, cui sopperisce con un fraseggio guardingo, losco, quasi sottovoce: un’eccellente dizione e mimica vocale rendono notevole la sua performance, come dimostra l’esecuzione del suo monologo (prologo: “L’atra magion vedete?… de’ Fieschi”), dove ben inarca il canto, tutto sul fraseggio legato, serpeggiando assieme al coro, creando un’atmosfera nebbiosa, evocativa. Nel I atto caratterizza ancor meglio il personaggio nel recitativo con Pietro (“Che disse? − A me negolla.”), accompagnato da una direzione celere e guardinga; all’inizio del II è livido nel suo recitativo, all’incipit del III, nell’arioso “Il mio demonio mi cacciò fra l’armi”, tenebroso, viperino − bella la messa di voce sul re 3 di “morte”. I comprimari lasciano tutti un po’ a desiderare, a cominciare dal Pietro di Igor Bakan basso poco espressivo, dalla dizione imbarazzante, nessuna chiarezza nella voce, peraltro tendente all’ingolamento; opaca Gaia Petrone (Un’ ancella di Amelia). Unica eccezione è il discreto Capitano dei balestrieri di Andrew Owens. I cori fanno (quasi sempre) il loro dovere: se risultano un po’ smorti nell’acclamazione tumultuosa del finale del prologo, si riprendono nella scena della rivolta del I atto, creando inoltre bene quell’effetto d’ovattata felicità, lontana, nell’imeneo per le nozze di Amelia e Adorno (“Dal sommo delle sfere”, atto III). Un’edizione, adunque, non spregevole, ma ben lungi dall’essere memorabile.