Antoni Wit interpreta Beethoven all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antoni Wit
Pianoforte Roberto Cominati
Maestro del coro Ciro Visco
Soprani Mascia Carrera, Anna Maria Berlingerio
Contralto Antonella Capurso
Tenori Antonio Rocchino, Francesco Toma
Basso Andrea D’Amelio
Ludwig van Beethoven: Leonore III, ouverture in do maggiore op. 72a; Fantasia in do minore per pianoforte, coro e orchestra op. 80; Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
Roma 25 novembre 2013   
Non certo lieto posso incominciare a scrivere queste poche righe. Il Maestro Claudio Abbado, astro della musica colta italiana, ha infatti dovuto sospendere il primo dei due attesissimi concerti, in cartellone per questa stagione dell’Accademia di Santa Cecilia: i suoi gravi problemi di salute gli hanno impedito di adempiere agli impegni presi. Ci si augura vivamente recuperi una miglior condizione fisica. In sostituzione del concerto su musica di Mendelssohn previsto da Abbado, l’Accademia chiede gli straordinari al maestro Antoni Wit, che porta il suo programma beethoveniano in questi giorni in cartellone. All’inizio del concerto viene annunciato che il medesimo sarà dedicato alle vittime sarde delle tremende e recenti alluvioni: un pensiero nobilissimo, che manca però della sua giusta appendice, spendere cioè almeno due parole per il maestro Abbado (che non siano le sole due righe sul programma di sala). Certo un periodo non felice per l’Accademia, che ha visto non poche defezioni e spostamenti di programma, tra cui quello relativo al concerto di Maurizio Pollini.
Antoni Wit, allievo di Karajan, esperto di repertorio colto-classico polacco (della sua terra), dirige con energia, anche se con una certa qual disarmonia del gesto: i suoi ‘sbacchettamenti’ compulsivi rendevano spesso inintelligibile il senso agogico di quello che voleva esprimere ‒ per noi spettatori (o per lo meno per me), s’intende, ché gli orchestrali tutti hanno dato un’eccellente performance, come di consueto. Il concerto si apre con l’ouverture Leonore III, il penultimo di quelli scritti per la Fidelio, di cui doveva aprire la revisione del 1806; pagina di amplissimo respiro, se si tiene in considerazione si tratti di un’ouverture. Wit riesce a trovare buonissime soluzioni timbriche (coadiuvato da un’eccellente orchestra, appunto), ma manca di una potente visione d’insieme, strictu sensu coerente. Meglio la direzione della Fantasia op. 80 (Theater an der Wien, 22-12-1808), una composizione straordinaria, sia su un piano estetico, che su uno tecnico: una composizione sui generis, un pezzo che congloba una fantasia per pianoforte, un brano orchestrale e uno per coro. Il pianista Roberto Cominati è all’altezza del ruolo, distinguendosi in particolare nell’assolo iniziale del brano, con quegli arpeggi e delicati arabeschi pianistici, cui conferisce una vigorosa dolcezza. Il coro (Ciro Visco) è come sempre magnifico, e così anche i suoi membri scelti per le parti soliste, e traccia con rigore e passione la parte che Beethoven scrisse sulle parole della poesia di Christoph Kuffner, esaltante temi prettamente romantici come l’amore, la forza, la musica e la parola. Il tutto riesce sublime: «la Fantasia op. 80 fu considerata un prototipo della futura, rivoluzionaria, Nona Sinfonia, che Beethoven compose sedici anni dopo, nel 1824» (Gianluigi Marietti, dal programma di sala). Centro pulsante e conclusione del concerto è l’esecuzione della Settima (Vienna, Sala dell’Università, 8-12-1813), pietra miliare della carriera compositiva di Beethoven ‒ come, del resto, tutte le altre nove sinfonie. La critica ne ha notato l’eccentrica unicità, i suoi debiti con la musica di Mozart e di Haydn, la sconcertante vividezza; Wagner l’associava al ritmo audace della danza: eppure ogni volta che l’ascolto (questa volta, confesso, fino alla commozione), non può non affacciarmisi alla menta che questo tripudiante bacchismo musicale occulti un malessere di vivere estremo, quasi che Beethoven sia l’apostolo di uno pseudo-ottimismo, dopo che un nume ignoto gli ha rubato ciò che di più caro un musicista possa possedere, l’udito. A testimoniare che la Settima sia un vero e proprio monumento all’umanità non basterebbe citare solo alcuni dei suoi interpreti più illustri e celebri, che l’hanno suonata proprio per l’Accademia: Gustav Mahler (1908), Arturo Toscanini (1920), Leopold Stokowski (1923), Pietro Mascagni (1924), Riccardo Zandonai, Vittorio Gui, Wilhelm Furtwängler (tutti nel 1934), Herbert von Karajan (1952), Riccardo Muti (1969), Carlo Maria Giulini (1980), Wolfgang Sawallish (1982) e Claudio Abbado (1996). Antoni Wit risulta un buon esecutore, che manca però di una lettura più personale, di qualche soluzione inusitata; l’eccessivo piglio metronomico, il non voler mai dilatare (semmai tirar via, anzi), alla lunga risultano lievemente plumbei, dove la musica dovrebbe al contrario sfolgorare. Sentiti applausi sugellano una buona (ma non eccezionale) serata di musica.