Strasburgo, Opera National du Rhin:”Da una casa di morti”

Strasburgo, Opera National du Rhin, Stagione 2013-2014
“Z MRTVÉHO DOMU” (“Da una casa di morti”)
Opera in tre atti, libretto e musica di Leoš Janáček
Dal romanzo “Memorie di una casa di morti” di Fiodor Dostoїevski.
Edizione critica di Sir Charles Mackerras e John Tyrrell.
Filka Morozov (Luka Kuzmich) PETER STRAKA
Il detenuto grande ADRIAN THOMPSON
Il detenuto piccolo ENRIC MARTINEZ CASTIGNANI
Il comandante PATRICK BOLLEIRE
Alexandr Petrovitch Gorjantchikov NICOLAS CAVALLIER
Una guardia SUNGGOO LEE
Il forzato vecchissimo REMY CORAZZA
Skuratov ANDREAS JÄGGI
Aljeja PASCAL CHARBONNEAU
Una voce GIJS VAN DER LINDEN
Il cuoco JENS KIERTZNER
Il prete MARTIN BÁRTA
Tchekunov PETER LONGAUER
Un forzato ubriaco HERVÉ HUYGHUES DESPOINTES
Chapkine GUY DE MEY
Il fabbro MARIO BRAZITZOV
Kedril GIJS VAN DER LINDEN
Un forzato (Don Giovanni) JEAN-GABRIEL SAINT-MARTIN
Chichkov MARTIN BÁRTA
Tcherevin PHILIP SHEFFIELD
Orchestra Filarmonica di Strasburgo
Coro de l’Opera National du Rhin
Direttore Marko Letonja
Regia Robert Carsen
Scene Radu Boruzescu
Costumi Miruna Boruzescu
Luci Robert Carsen, Peter Van Praet
Coreografia Philippe Giraudeau
Drammaturgia Ian Burton
Strasburgo, 27 settembre 2013
Emozionante inaugurazione della stagione 2013-2014 dell’Opera National du Rhin di Strasburgo con “Z Mrtvého Domu” (“Da una casa di morti”) di Leoš Janáček. Il teatro di Strasburgo ha portato a compimento il ciclo Janáček, mettendo in scena l’ultima opera del compositore e affidandola anche in questa occasione al grande regista canadese Robert Carsen. La serata è riuscita particolarmente felice grazie alla perfetta fusione tra la parte musicale, magistralmente interpretata dal Maestro Marko Letonjae la parte visiva, di rara suggestione, nata dalla collaborazione del regista con il drammaturgo Ian Burton e con  Radu Boruzescu  e Miruna Boruzescu, rispettivamente per le scene ed i costumi.  Il capolavoro postumo di Leoš Janáček, rappresentato per la prima volta a Brno il 12 aprile 1930, è un’opera del tutto particolare, ispirata alle “Memorie di una casa di morti” di Dostoїevski. Non c’è un protagonista: solo la popolazione maschile di un duro carcere siberiano. Janáček, che aveva vissuto intensamente la nascita della nazione cecoslovacca, dopo la fine del primo conflitto mondiale, non immaginava probabilmente quello che sarebbe accaduto nel suo paese neanche dieci anni dopo, con l’occupazione nazista e, successivamente con la caduta sotto la sfera di influenza sovietica. Sarebbe facile quindi interpretare l’opera con allusioni a lager nazisti o gulag siberiani, eppure Robert Carsen non si è ispirato, nel suo allestimento, a situazioni riconoscibili nella realtà storica, ma crea una collettività reclusa, in uno stato di profonda miseria umana, riconducibile ad una espressione della sofferenza di carattere universale. All’inizio dello spettacolo, durante l’introduzione musicale, una parete insormontabile con due classiche porte da penitenziario impedisce la vista dell’interno; quindi ci appare il mondo degli ultimi, i detenuti, con la loro ombra che si proietta sul muro, confinati tra pareti di mattoni grigi. Il colore dello spettacolo è sempre grigio scuro, come i costumi dei forzati, l’unica nota di colore diverso è il verde militare dei loro oppressori. In questa indifferenziata massa umana è però possibile scorgere le varie individualità e, d’altronde, Janáček come Dostoїevski, hanno sempre creduto che “in ogni essere umano c’è una scintilla di Dio”. E quindi vengono alla ribalta, anche se per brevi istanti, ad uno ad uno, i protagonisti del dramma con la loro violenza che affonda nella loro storia personale. Sono degli assassini, ma nei loro racconti emerge sempre la grave sofferenza che li ha indotti a commettere il crimine. E da vittime diventano carnefici. Così ad esempio Filka Morozov (nel campo sotto il nome di Luka Kuzmich), il quale nel primo atto racconta di essere finito nel campo per aver ucciso un comandante che lo aveva umiliato, nel terzo atto muore di stenti, dopo aver udito la triste storia di Chichkov: in questa viene narrata l’infelice sorte della giovane Akulina, promessa sposa di Chichkov e disonorata da Filka, con la drammatica uccisione finale della ragazza per mano dello stesso Chichkov. E Filka appare comunque sempre un violento: duro con Skuratov, il folle che ha ucciso il fidanzato della sua promessa sposa Louiza, durissimo con Aljeja, il giovane ragazzo apostrofato con disprezzo e gettato a terra. Alla fine mentre Carsen ci mostra uno Chichkov che getta con disprezzo un secchio di escrementi sul cadavere di Filka, un detenuto molto vecchio esclama: “Anche lui è nato da una madre”. La pietas janacekiana è sconvolgente. In questo abisso di abiezione, violenza e follia c’è posto ancora per dei sentimenti: così il legame che si instaura tra il giovane Aljeja, solo, proveniente dal lontano Daghestan, con il prigioniero politico Alexander Gorjantchikov, è bellissimo. Questi gli insegna a scrivere, lo assiste nell’infermeria, e il dolore che prova il giovane Aljeja, alla notizia della liberazione di Gorjantchikov, è sconvolgente. Non è possibile citare tutti i momenti dello spettacolo ma occorre dire che Robert Carsen riesce a cogliere in modo sublime quell’atmosfera opprimente di promiscuità forzata che si trova in ogni carcere duro. Così con una realizzazione quasi didascalica, il regista riesce a creare momenti di vera poesia. C’è anche l’aquila dei prigionieri, che alla fine vola sopra il pubblico, con notevole suggestione e impressione dello stesso. La scena è sempre al buio, o quasi: la condizione inumana dei detenuti è sottolineata da brutalità raccontate o mostrate, come la terribile apparizione di Gorjantchikov alla fine del primo atto, con la schiena massacrata dalle frustate. Nel grigio anonimato un momento di divertimento è rappresentato dalle due pantomime del secondo atto, Don Giovanni e La bella mugnaia, dove la volgarità delle allusioni sessuali mostrate in scena è resa con una certa eleganza, grazie ad una tenda che fa da paravento e su cui si proiettano le ombre dei cantanti. Ovviamente anche qui i protagonisti sono i detenuti e in questa edizione è stato eliminato anche l’unico personaggio femminile, una prostituta,che praticamente ha solo due battute, ma farla scomparire del tutto evidenzia ancora di più la claustrofobia di un mondo solo maschile. Così anche nel terzo atto la promiscuità è il maggiore indice di abbrutimento e di spoliazione della dignità umana, i detenuti ammassati l’uno vicino all’altro, per terra, con solo delle coperte militari. Durante il racconto Chichkov è costretto ad urinare in un angolo, la sua storia agghiacciante raggiunge il massimo degrado in una notte di colore livido. Ancora una denuncia di una condizione che potrebbe appartenere a qualunque carcere moderno. Non c’è speranza per nessuno in questo penitenziario, alla fine, dopo la liberazione di Gorjantchikov  e la sua ulteriore umiliazione da parte del comandante ubriaco, i detenuti sono costretti nuovamente a marciare in circolo senza alcuna possibilità di vedere il giorno.

La parte musicale dello spettacolo è stata altrettanto emozionante. Il direttore d’orchestra Marko Letonja ci ha offerto una conduzione stupefacente. Ha tratteggiato musicalmente una livida notte continua, in cui, sporadicamente, emergono momenti più leggeri. Già nell’introduzione, la direzione del Maestro è stata essenziale, asciutta, con inquietanti trapassi nelle variazioni dei temi. La crudezza dei momenti scenici è stata realizzata con una precisione in orchestra tale da far sentire allo spettatore il brivido delle catene forzate, delle frustate e di tutti i momenti più intensi come il lancio della teiera sul volto del giovane Aljeja. Bellissimo l’accompagnamento durante il racconto di Filka nel primo atto. Esasperate le dissonanze armoniche sparse qua e là nella partitura ma rese più agghiaccianti nel discorso allucinato di Skuratov, quasi a rappresentare musicalmente la sua mente malata. Così come il drammatico racconto di Chichkov accompagnato da sonorità ora più dense ora più sinistre. L’Orchestra Filarmonica di Strasburgo ha assecondato virtuosisticamente i gesti appassionati del Direttore, facendo scaturire dei suoni di particolare bellezza che hanno riempito il teatro di sinistre melodie alternate a squarci lirici di rara poesia musicale.
I protagonisti vocali dell’opera hanno tutti contribuito alla riuscita dello spettacolo, grazie a una ottima capacità attoriale unita a un totale coinvolgimento emotivo e a doti vocali di un livello qualitativo molto buono. In particolare Martin Bárta ha donato a Chichkov un timbro scuro, di notevole caratura drammatica e ha reso molto appassionato il racconto del terzo atto. Lo stesso cantante ha dato voce anche al pope del secondo atto. Di insolita potenza tenorile per il ruolo, si è mostrato l’Aljeja di Pascal Charbonneau, che alla figura scenica del ragazzo del Daghestan ha regalato una efficace rappresentazione (e va notato come in passato questo ruolo fosse eseguito da voci femminili, a sottolinearne la giovinezza). Molto bravo anche il basso Nicolas Cavallier nel ruolo di Gorjantchikov, di cui ha offerto un ritratto nobile grazie al bel timbro e alla calorosa passionalità. Di grande esperienza scenica il tenore Peter Straka ha prestato la sua voce al “perfido” Filka Morozov, di cui ha delineato anche i momenti più angoscianti alla fine. Il ruolo del folle Skuratov è stato reso con grande partecipazione emotiva dal tenore Andreas Jäggi. Un delizioso cammeo il Forzato vecchissimo interpretato dal veterano Remy Corazza. Alla fine dello spettacolo, della durata complessivamente di circa un ora e quaranta, senza intervallo,  il pubblico ha calorosamente salutato gli interpreti dopo un secondo di smarrito silenzio per la tensione quasi cinematografica determinata da questa come da tutte le opere di Janáček presentate dall’Opera National du Rhin in questi ultimi anni. Foto Godard © Opera National du Rhin