“Simon Boccanegra” al Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2013-2014
“SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti. Libretto di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito,dall’omonimo dramma di Antonio García Gutiérrez.
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra  AMBROGIO MAESTRI
Maria Boccanegra (sotto il nome di Amelia Grimaldi)  MARIA JOSÉ SIRI
Jacopo Fiesco   MICHELE PERTUSI
Gabriele Adorno  GIANLUCA TERRANOVA
Paolo Albiani  DEVID CECCONI
Pietro  FABRIZIO BEGGI
Un capitano dei balestrieri  DARIO PROLA
Un’ancella di Amelia  SABRINA BOSCARATO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia, scene e costumi Sylvano Bussotti
Regia ripresa da Vittorio Borrelli
Luci Andrea Anfossi
Direttore dell’allestimento Saverio Santoliquido
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 16 ottobre 2013 

L’opera inaugurale della nuova stagione del Teatro Regio di Torino è Simon Boccanegra: scelta felicissima per più motivi; non soltanto l’anno verdiano e l’assenza del titolo dal 2003, ma anche la ripresa di un allestimento molto bello, risalente all’aprile 1979, curato in regia, scene e costumi da Sylvano Bussotti. Riproporre nel 2013 una mise en scene di 34 anni prima, e per di più come spettacolo d’apertura della stagione, acquisisce anche un valore simbolico: in periodi di depressione e di limitate disponibilità economiche, è davvero buon segno che i teatri italiani scavino nei loro tesori, e riportino alla luce quel che ha funzionato meglio, quel che è stato più apprezzato, quello che ha segnato la storia stessa di un titolo specifico. In effetti, se si pensa al Boccanegra e alla sua rinascita novecentesca in Italia, il primo binomio che viene in mente è di sicuro Strehler-Abbado per La Scala (1971); ma il secondo nome è a buon diritto Bussotti per il Regio di Torino.
Gianandrea Noseda – va detto senza esitazione – è direttore davvero eccellente della complessa partitura verdiana: se in precedenza, nell’accostarsi al melodramma, poteva suscitare qualche perplessità (soprattutto nel rapporto con i cantanti e nella predilezione per il coté sinfonico del teatro in musica), il suo Simon Boccanegra raggiunge in concertazione il livello grandioso del precedente Don Carlo. Il direttore fa di tutto per rilevare le corrispondenze interne e i ricchi disegni melodici dell’opera (sin dal mirabile dialogo corale a mezzo del prologo), sostenendo un suono sobrio ma stagliato con modalità calligrafica; più che l’usuale retorica del lugubre, dell’oscurità e del corrusco, solitamente riferitegli, Noseda valorizza il notturno del Simone. A questo proposito l’attacco del prologo è straordinario, perché nell’aria aleggia la salsedine di Genova immersa nella notte. Ma anche il finale del prologo smentisce la tentazione di Noseda di soverchiare tutti con le sonorità orchestrali, e argomenta bene lo straordinario studio da parte del direttore: la concitazione resta misurata, permettendo di apprezzare il dissidio tra il popolo in festa e le allucinazioni del protagonista: davvero, la tomba e il trono evocati dal doge in pectore e da Paolo, sono lì, affrontati in faccia all’ascoltatore. C’è soltanto un momento in cui il direttore lascia sbrigliato l’impeto orchestrale, occultando in parte le voci dei cantanti, ed è nel finale del duetto del I atto tra padre e figlia; del resto, l’apice drammatico dell’agnizione di Maria giustifica una sonorità eccezionale. Forse il momento più significativo della resa orchestrale è la scena del senato, in cui Noseda collega le assertive frasi degli archi a quelle dei fiati e delle trombe, con ritmo serrato ma sempre perfettamente composto; i colori della frenesia e del tumulto popolare sono affidati agli strumentini e all’ottavino, e quando il popolo irrompe nel senato al grido di vendetta, Noseda rende chiarissima la parentela sinfonico-corale di questa pagina con il Dies irae della Messa da Requiem; è appunto il Verdi del 1880-1881, anno della revisione di Boccanegra e della composizione del II quadro del I atto, su testo di Boito. Nella scena III dell’ultimo atto, allorché Simone contempla per l’ultima volta il mare, con somma nostalgia, l’ascoltatore apprezza quasi il delinearsi di un “tema dell’ondeggiamento marino”, ricavabile dalle molteplici movenze imitative della partitura, e parallelo a quello del wagneriano Ring.
Di rappresentazione in rappresentazione Ambrogio Maestri ha migliorato la sua versione interpretativa del ruolo protagonista, e propone così un Simone autorevole, anche se in alcuni passaggi il fraseggio resta un poco generico. La narrazione del prologo, «Del mar sul lido», è sostenuta da un tempo quasi solenne dell’orchestra, e Maestri la porge con intensità, anche se si compiace di qualche portamento, e non limita del tutto l’inflessione di gola di alcuni suoni. Il volume vocale è impressionante, ancorché penalizzato da un difetto nel passaggio di registro: quando l’emissione vocale deve crescere, lo sforzo scopre una disomogeneità timbrica. Pregevole il duetto del I atto con Amelia-Maria, nel corso del quale il baritono si adopera per riuscire elegante e scrupoloso nel fraseggio. «Plebe, patrizi, popolo» della scena nel senato è scandito con voce sicura, timbro rotondo, ricchezza di mezze voci; l’efficacia è appena scalfita da qualche leggero cedimento dell’intonazione nel finale della petrarchesca perorazione, ma il rispetto della tanto decantata “parola scenica” verdiana, indispensabile qui come non mai, è sicuramente apprezzabile (non si rifletterà mai abbastanza sulla difficoltà, per il baritono, di enunciare in modo autoritario, ma non freddo, partecipe, ma non truculento, l’imperativo a Paolo «E tu ripeti il giuro!», che prelude alla maledizione corale; Maestri sceglie una via di mezzo tra il tono iroso e il gesto inesorabile). Molto convincente anche nella scena finale, in cui la mezza voce è l’accorgimento principale dell’espressività scenica.
Michele Pertusi è impegnato nel ruolo di Jacopo Fiesco (anche più del previsto: la sera precedente ha sostituito l’indisposto Giacomo Prestia, e quindi canta la parte per due giorni consecutivi), e sortisce un risultato di buon livello: come sempre il basso è accurato, stiloso, rispettoso delle indicazioni d’autore; la bellezza della voce valorizza ulteriormente tale aplomb. Il cantabile d’esordio, «Il lacerato spirito», è molto corretto, ma a dire il vero poco emozionante, come distaccato. In più, rispetto alla vocalità del personaggio, Pertusi manifesta qualche debolezza nelle note basse, soprattutto nelle frasi del duetto con Simone, ove si attenderebbe aggressività e potenza (anche in rapporto al furore dell’orchestra di Noseda); il risultato è invece inferiore all’attesa, sebbene nella seconda parte del medesimo duetto – quella in cui l’ira è stemperata nel contegno sdegnoso di Fiesco – l’effetto migliori sensibilmente.
Maria José Siri, nel ruolo di Amelia-Maria Boccanegra, è un soprano dal timbro vocale pastoso e seducente nel registro centrale: attacca bene l’aria «Come in quest’ora bruna», sul meraviglioso ritmo ondeggiante creato da Noseda, ma inficia l’interpretazione con un registro acuto tendente al grido. E purtroppo, nel corso dell’intera rappresentazione, ogni ascesa sfoga nell’urlo lo sforzo e la linea di canto si fa spinta, aguzza, puntuta, scabra, oppure schiacciata anche nei centri. Duettando con Maestri, nel cantabile «Orfanella il tetto umile» del I atto pronuncia ùmile, ma nell’ottonario di Piave l’accentazione corretta è senza dubbio umìle (richiesta dal metro, oltre che rimembranza dantesca di Inf. I 106).
Gianluca Terranova, della seconda compagnia, sostituisce l’indisposto Roberto De Biasio nel ruolo di Gabriele Adorno: anch’egli, come Pertusi, canta quindi la sua parte per due serate consecutive. La voce del tenore risulta sempre un po’ al di sopra delle righe, a causa di un difficile controllo del  volume. Gli va però riconosciuto un netto miglioramento, nell’attenzione allo stile e nello sforzo di fraseggiare,  rispetto alla genericità di un recente passato. I due cantabili del II atto, «Sento avvampar nell’anima» e «Cielo pietoso, rendila», sono animati da questa apprezzabile  buona volontà; certo, il fraseggio è a volte insicuro, il passaggio non sempre ben coperto, gli acuti quasi sempre “muscolari”, da esibire, ma la resa complessiva documenta il progresso di un tenore molto più consapevole del repertorio da affrontare (e delle relative esigenze stilistiche). Questo fa sì che il terzetto finale del II atto, «Perdono, Amelia… indomito» sia il pezzo d’insieme migliore della serata. Devid Cecconi è un Paolo Albiani efficace e convincente; la linea di canto è impostata bene, ma quando vuole rafforzare il volume sonoro, la voce si incrina leggermente. Ottimo il basso Fabrizio Beggi come Pietro; adeguati Dario Prola e Sabrina Boscarato come capitano dei balestrieri e ancella di Amelia. Impeccabile e sempre convincente, anche nei movimenti sulla scena, il coro preparato da Claudio Fenoglio. Grande commozione nel finale, e grandissimo successo per tutti gli interpreti vocali, per il coro, per il direttore d’orchestra.
Ma certamente piace anche l’allestimento “d’altri tempi”. Forse soltanto un regista-musicista come Sylvano Bussotti poteva ritrovare e accentuare una sorta di Leitmotiv musicale, da trasformare in presenza costante del versante scenico: il mare. L’attacco orchestrale del prologo è infatti un placido mare notturno, quello del I atto è un mare indorato al meriggio, quello del III atto è un mare livido e nebbioso, all’alba di un giorno di lutto. Ecco perché in ogni scena di ogni atto il mare è sempre visibile, realizzato sullo sfondo con un effetto tanto semplice e artigianale quanto perfetto (la ricerca degli “effetti speciali”, a volte, è una pretestuosa chimera). Con tale elemento si realizza la più importante simmetria tra direzione d’orchestra e impostazione registica. Per il resto primeggiano il blu cupo, il verde intenso, il nero di quinte architettoniche e di scorci della città dogale, il giallo degli interni, tutti di sfondo a costumi dalle linee certamente datate, ma ancora funzionali. La scena del senato è un trionfo del gotico bizantineggiante, da repubblica marinara che – appunto – ha ottenuto «schiuso l’Eusin alle liguri prore»: guglie e pinnacoli, picche e alabarde (la bipenne per Paolo scorrerà nel finale), pergamene e rescritti senatorî, riflessi d’oro corrusco, «volgo gentilesco e plebeo» a profusione. E i bozzetti originali di Bussotti, della stagione 1978/1979, si ammirano nelle teche del Foyer del Toro: più che semplici bozzetti o sinopie preparatorie, opere d’arte, cartoni sontuosi in tecnica mista, collage di strisce auree, colori freddi e scaglie di cristallo: lo sfarzo intimidatorio del potere, seguito poi dalla mestizia della morte.