“Macbeth” di Verdi al Teatro Coccia di Novara

Novara, Teatro Coccia – Stagione Lirica 2013-2014
“MACBETH”
Melodramma in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave, dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth  GIUSEPPE ALTOMARE
Banco  GIORGIO GIUSEPPINI
Lady Macbeth  DIMITRA THEODOSSIOU
Dama di Lady Macbeth  VALERIA SEPE
Macduff  DARIO DI VIETRI
Malcolm  ERNESTO PETTI
Medico  RADU PINTILLIE
Sicario  PIERO CEFFA
Streghe (mimi)  ALESSANDRA BORDINO, BEATRICE BOSSO, CHIARA SILVESTRI
Orchestra Filarmonica del Piemonte
Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore Giuseppe Sabbatini
Maestro del coro Mauro Rolfi
Regia Dario Argento
Luci e Scene Angelo Linzalata
Costumi Elena Bianchini
Effetti speciali David Bracci
Coproduzione Fondazione Teatro Coccia di Novara e Fondazione Teatro Verdi di Pisa
Novara 4 ottobre 2013
«Spiegherò cosa vuol dire prendere il potere con il sangue». Sarebbe stato difficile individuare un titolo più appropriato del Macbeth di Verdi per il debutto operistico del regista Dario Argento; il titolo era in qualche modo connaturato alle sue frequentazioni melodrammatiche, a partire dal film Opera (1987, che prevedeva al suo interno appunto un allestimento del Macbeth) fino a Il fantasma dell’opera (1998). Il Teatro Coccia di Novara ha così voluto inaugurare la nuova stagione con un titolo verdiano, nell’anno celebrativo, e con più nomi di grande richiamo artistico, affidando la regia a un outsider del genere, come già accaduto l’anno scorso per Il matrimonio segreto di Cimarosa curato da Morgan.
La direzione orchestrale di Giuseppe Sabbatini è forse la componente più interessante dell’allestimento: da ottimo musicista, già contrabbassista e poi soprattutto indimenticabile tenore, Sabbatini dirige con veemenza, insiste sugli accenti per presentare i tratti più marcati della musica di Macbeth, alternando tempi di vertiginosa accelerazione (a partire dai cori del I atto) a pagine molto più meditative e decisamente rallentate rispetto al solito (tutte le romanze della Lady, per esempio). L’Orchestra Filarmonica del Piemonte è un buon complesso, che della partitura del Macbeth fornisce una resa squadrata, ritagliata soprattutto sugli elementi-guida del ritmo e dell’accompagnamento; il direttore, del resto, tende a mantenere in primo piano gli ottoni e i legni (che forniscono un’ottima prova), mentre gli archi restano in sordina. Forse perché forte dell’esperienza vocale, Sabbatini si picca di “accompagnare” costantemente le voci, e quindi dà gli attacchi prima ai cantanti e poi all’orchestra. Tale attenzione a volte si trasforma, però, in rischio per la sincronia di strumentisti e coro rispetto ai solisti. La cifra del suono orchestrale è quella di un artigianato di alto livello, costretto a misurare i costi dove possibile: la «musica villereccia» che accompagna l’arrivo di Duncano nel I atto, e che richiederebbe la banda dietro il palco, è registrata, e la sua amplificazione crea un effetto sonoro un po’ spiacevole. Giuseppe Altomare è un cantante molto preparato, di grande correttezza e professionalità, che nel corso degli anni si è cimentato con un repertorio amplissimo; il suo Macbeth è studiato nei dettagli del fraseggio, dell’espressività, dell’efficacia attoriale. La voce, purtroppo, non sempre corrisponde all’impegno, perché è povera di armonici, specie nel registro medio-alto, e accusa inflessioni di gola. Molto belli, invece, fraseggio e mezzi toni nel duetto del I atto, allorché il confronto vocale con il soprano fa emergere una dizione chiara e sempre comprensibile da parte del baritono (mentre lo stesso non può dirsi dell’artista che lo affianca). Disinvolto ed efficace nei numeri d’insieme, Altomare offre la miglior pagina solistica con «Pietà, rispetto, amore» nel IV atto.
Dimitra Theodossiou ha debuttato nel ruolo di Lady Macbeth nel maggio 2007 a Lisbona; a Novara la cantante è certamente a suo agio, ma la tessitura non le è sempre agevole. Se il personaggio è profilato in modo apprezzabile (a partire dalla lettura della lettera iniziale, sobria, asciutta, priva di qualunque tentazione filodrammatica cui troppo spesso i soprani indulgono), la voce non soddisfa appieno, per mancanza di omogeneità: debole nel registro basso, con acuti in parte stimbrati e in parte striduli. S’intenda: il canto non è scorretto, ma da un’artista come la Theodossiou ci si dovrebbe aspettare altro. Sul piano interpretativo-attoriale è invece una Lady Macbeth molto credibile: maliosa, insinuante, ghermitrice; «Mai non ci rechi il sole un tal domani» è una delle sue frasi più icastiche, grazie al tono diabolico e seducente al tempo stesso. «La luce langue», al contrario, è affrontata in modo piuttosto discutibile: la cantante sceglie di evidenziare l’espressività del testo ricorrendo a mezzi toni e a emissioni in pianissimo (e questo sarebbe positivo), a discapito della costanza nell’intonazione. Certamente con un effetto voluto, la frase conclusiva «Ai trapassati regnar non cale» è enunciata al di là dell’ambito tonale, perché dovrebbe anche simulare l’effetto ottundente di un orgasmo sessuale raggiunto da Lady Macbeth al termine di un coito con il marito, al centro del palcoscenico; e neppure l’acuto che segue convince, perché piuttosto sgraziato. “Sesso e potere” sarebbe una chiave di lettura registica opportuna, se non si traducesse in disprezzo per l’intonazione musicale. Anche nella scena del sonnambulismo la Theodossiou tenta di risolvere tutto abusando in pianissimi (sempre suggestivi in un teatro piccino come il Coccia); la seconda parte di «Una macchia è qui tuttora» riesce meglio della prima, anche se il tempo nuovamente lentissimo dell’esecuzione pregiudica l’effetto complessivo (non di questo parere il pubblico del teatro, che al termine della scena tributa al soprano l’applauso più prolungato dell’intera serata).
Non soltanto per la Theodossiou, ma per lo spettacolo in generale, merita riguardo la grandiosa scena del brindisi «Si colmi il calice / di vino eletto». Tutto il quadro è improntato su di un tempo assai rilassato (che favorisce lo scandire delle strofi sopranili, ma solo entro certi limiti), fino al concertato finale II, «Sangue a me quell’ombra chiede». Anziché l’azione del dramma, nell’impostazione direttoriale prevale il compiacimento analitico di suoni e di effetti timbrici: Sabbatini sostiene bene i tempi lenti e potenzia il colorismo (animato soprattutto dal flauto); anche la regia dà il meglio, non con pozzanghere di sangue, ma presentando i due protagonisti soli, abbracciati al centro della scena, lontani da tutti, disperatamente aggrappati l’uno all’altra, mentre si accarezzano e si baciano per incoraggiarsi al male. E così i rintocchi del timpano sembrano scandire il tempo di un valzer di morte che avvolge i due sciagurati; molto espressivo il loro canto, nel momento più drammatico di attesa e incertezza, esattamente al centro dell’opera. 
Giorgio Giuseppini è un Banco di gran classe, a partire dal duetto iniziale con Macbeth fino al solenne, funereo annuncio della morte di Duncano nel finale I; «Come dal ciel precipita» del II atto è cantato con voce piena, sicura, dolente: dignità ed eleganza sono le carature della sua linea vocale. Dario Di Vietri, tenore che interpreta Macduff, ha un’emissione impostata molto bene, che lotta contro i limiti di una voce dalle risonanze leggermente vetrose; la sua prova è decisamente buona, soprattutto in «Ah, la paterna mano» che segue il grande coro «Patria oppressa! il dolce nome». A proposito, è buona la prova del coro (a parte qualche disomogeneità timbrica nella parte femminile), così come l’apporto delle voci bianche della Schola Cantorum San Gregorio Magno per la scena delle apparizioni. Di buon livello gli altri interpreti: Valeria Sepe (Dama), Ernesto Petti (Malcom), Radu Pintillie (Medico), Piero Ceffa (un sicario), come dimostrano anche i prolungati applausi alla fine nell’opera, per tutti quanti gli artisti.
A dispetto delle dichiarazioni durante le prove (pubblicate dalla «Stampa» di Torino: «Il mio Macbeth vi scandalizzerà […] aspettatevi qualcosa di strano»), lo spettacolo di Dario Argento è quanto mai tradizionale; prima dell’inizio del Preludio un manipolo di soldati della Prima Guerra Mondiale incontra Macbeth, e lo acclama vincitore; quando il sipario si apre lo spettatore vede un piano inclinato con fantocci di cadavere, un cavallo stramazzato, due impiccati sullo sfondo, il coro femminile in vesti di massaie di campagna, gli uomini in divisa militare. Le streghe sono affidate a tre fanciulle dalla chioma e dall’atteggiamento leonini, più rispondenti al ruolo di femme fatale da romanzo d’appendice che non a quello di entità diaboliche (agiscono sul palcoscenico completamente nude). Ci si attendeva un Macbeth in versione horror, ma questo non è neppure noir; le videoproiezioni sono limitate ad alcune immagini di guerra in bianco e nero durante il Preludio, e poi scompaiono del tutto. Naturalmente ciascuno attende al varco Argento per il primo assassinio che si consuma nell’opera, quello di Duncano: il re trafitto da Macbeth si protende alto sulla finestra visibile della sua stanza, si appoggia al vetro e vi riversa dall’interno una congrua quantità di sangue. Dalla camicia bianca di Banco, addossato a un tronco d’albero nel momento dell’agguato del II atto, zampilla qualche altro litro di sangue allorché i sicari lo feriscono. Nel finale dell’opera Macbeth viene ucciso seduto in poltrona da un capannello di soldati armati di pugnale; giunge Macduff, e con un colpo di spada gli spicca dal collo la testa, che rotola sul palcoscenico (tra le risatine, ahimè, del pubblico di platea …). Eppure, al di là delle facili ironie sulla presenza prevedibile, pervasiva e greve del sangue, va riconosciuto come Argento abbia ragione a insistervi, poiché è prima di tutto il libretto di Piave a presentare l’ossessione ematica, con ben quindici occorrenze lessicali del termine e dei suoi derivati (Atto I: «Pensier di sangue», «ministri infernali, / che al sangue incorate», «solco sanguigno», «le sue guardie insanguinate»; II: «Forz’è che scorra un altro sangue, o donna!», «la notte or regni / scellerata, insanguinata», «Tu di sangue hai brutto il volto», «Quel sangue fumante», «Sangue a me quell’ombra chiede»; III: «Tu, sangue di scimmia», «Esser puoi sanguinario, feroce», «Tutto il sangue si sperda a noi nemico», «col sangue si inaugurò»; IV: «Chi poteva in quel vegliardo / tanto sangue immaginar?», «Di sangue umano / sa qui sempre»). E comunque lo spettacolo sortisce un grande successo (al “color rosso”, verrebbe da dire). Resta soltanto un dubbio: aderire in modo così didascalico al dettato stilistico del libretto non finisce per essere un omaggio ingenuo (un poco tardivo, da spettacolo Anni Ottanta) al linguaggio allusivo, stilizzato e al tempo stesso retorico, del melodramma verdiano? Foto Finotti