Stagione di Danza e il Festival Aperto dei Teatri, Teatro Valli
ATERBALLETTO in
“Workwithinwork”
Coreografia, scenografia e luci William Forsythe
Musica Luciano Berio, Duetti per due violini, vol. 1 (1979-83)
Costumi Stephen Galloway
Messa in scena Francesca Caroti, Allison Brown
“Rain Dogs”
prima nazionale
Coreografia, scene e costumi Johan Inger
Musica Tom Waits
Luci Peter Lundin
riallestimento per Aterballetto
Reggio Emilia, 12 ottobre 2013
Ci viene aperto lo sguardo sulla teletta, vuota e nera, dentro alla quale muovono i loro passi i ballerini e sulla quale cadono le note di violino. Tutto scivola in un insieme eterogeneo di figure che lascia il tempo di cogliere le singole personalità di chi si muove, e te le fa riconoscere. E’ il flusso di coscienza di quel “pensiero danzante” che per Laban significava emancipare la danza dal codice classico-accademico. Quel che sembra (che è) l’esecuzione di un passo di danza, la sua esaltazione in un virtuosismo tecnico, è altresì il suggerimento di una storia, di un dramma; così come la fabula sa diventare intreccio quando la racconti.
In workwithinwork Forsythe appare riflessivo, dunque, perché intreccia (grazie ad Aterballetto) quelle che sono idee di racconto citando qualcosa che sta sul vago, come dissolto nella nebbia che rimane sovrana sul palco per tutto lo spettacolo. Si tratta di un lavoro-dentro-a-un-lavoro. E’, in vero, la concezione di una coreografia, quest’opera del 1998 del più filosofo tra i coreografi.
Sapendo, quindi, che lo spettatore vuole assistere a qualcosa che lo coinvolga emotivamente, non conveniamo con Forsythe quando rilascia che è meglio entrare a teatro senza sapere niente, per uscirvi sapendo ancor meno (dal libretto di sala). Certo, dello spettacolo, non siamo lì a pretendere che vengano esaudite, con la materializzazione scenica, le nostre pregresse conoscenze erudite. Vogliamo ad ogni modo goderne, ma qui, ciò che ci rimane è quel “fastidioso” suono stridulo dei duetti di violino di Berio che poco assonano coi port de bras.
Comunque, letto e capito come un attualismo, cioè quel lavoro introspettivo che materializza i pensieri di un coreografo nell’atto di creazione di una coreografia, allora sciogliamo le riserve e commentiamo, anzi definiamo, workwithinwork come un luogo mentale. Quel luogo in cui si scrive il pensiero creativo (dell’artista), quell’antro buio dove e s’incontrano gesti e suoni in una “consoDanza” e in una “dissoDanza”, che, insieme al principio della “tonicità” (del corpo di ballo), rappresentano la base della teoria (armonica) coreutica di Forsythe. Ci troviamo nell’ambito della “dissonanza cognitiva” (Festinger, 1957), dove non esiste soddisfazione emotiva (consonanza cognitiva), ma il contrario; si è messi in difficoltà elaborativa per effetto della contrapposizione e divergenza tra la rappresentazione visiva e ciò che vogliamo (cerchiamo / vogliamo) riconoscervi. Alla fine godiamo solo degli impeccabili allongé e delle arabesque (la quarta), alternate alle croise (di gambe) e all’épaulement (di spalle). In workwithinwork gioiamo dell’Ethos (dell’apparire) mentre ha luogo il Logos (il raccontare), senza arrivare al Pathos (ad emozionarci).
Altro discorso, ma almeno dall’esito un po’ più spettacolare, merita Rain Dogs di Jhoan Inger (allestimento del 2011), dall’omonimo concept album di Tom Waits (pubblicato nel 1985), ossia la prima nazionale del suo riallestimento. Qui i quadri scenici, già voluti dal Basel Ballet, avrebbero potuto benissimo sciogliere la tensione fin lì accumulata, quindi giocare sulle sagaci e ironiche liriche delle canzoni di Waits, ma siamo ancora avvolti nella nebbia (che poi un cane di pelusche viene dato alle fiamme), nell’ineluttabilità degli eventi. L’occhio di bue definisce il primo personaggio “da strada” col suo ghetto blaster, quella mega radio portatile simbolo degli hip hoppers. Questi si muove che sembra reggere guinzagli che poi gli sfuggono; ma egli cerca: “C’è qualcuno?” e di fretta ammette: “Arrivo… sto arrivando” (chissà dove). Si accendono le luci spioventi su una fila di altri ballerini (9, la metà dello spettacolo di prima), ben allineati, l’uno dietro l’altro, coperti. Chi sono questi personaggi, qual è la loro storia non viene dato desumere dai loro atteggiamenti; forse sbandati, puttane o semplici malcapitati. Tutti, tra un mood e l’altro, tra un jazz-blues e un rock-folk, si affrontano in “duelli da marciapiede” alternandosi due donne e un uomo e poi una donna e due uomini. Tutto ha il sapore della sfida per la sopravvivenza. Tutto è ancora freddo e fatale, ed è un vero peccato che invece non si sia trovato il modo per colorare qualsivoglia ipotetico racconto ironizzando movenze e intenti sulle parole di “The Piano Has Been Drinking” (“Il pianoforte ha bevuto / La mia cravatta è addormentata / […] / Il juke box deve pisciare / […] / Il tecnico luci è cieco da un occhio / […] / E non trovi una cameriera neanche con un contatore Geiger / […] Il pianoforte è sbronzo / Non io, non io, non io, non io, non io”).
Alla fine, tuttavia, arriva il riscatto per lo spettatore (tanto da farlo applaudire per 5 minuti a luci accese). I ballerini, coinvolti tutti assieme in un’unica coreografia (rara a vedersi per l’intera ora e mezza di spettacolo), scappano letteralmente dal palco per tornare a farsi scoprire (complice il gioco di luci) con gli abiti di un altro o di un’altra. I ragazzi con i leggeri e variopinti abiti femminili e le ragazze con i scuri completi maschili. Ma rieccoli di nuovo a sfidarsi, a perpetrare la natura umana al cospetto delle regole della vita da strada. E la strada è quella che verrà percorsa dalla coppia che si commiata come nel finale di Tempi Moderni: lì ammiccando (un sorriso) e avviandosi verso l’orizzonte, qui prendendosi per mano per andare, saltellando alternativamente, al cospetto di un totem “stereofonico”. Foto Anceschi