Da Bach a Mozart, dal mottetto al Requiem

Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”, I Concerti del Lingotto 2013-2014
Kammerorchester Basel
Estonian Philharmonic Chamber Choir
Direttore Paul McCreesh
Soprano Kaia Urb
Contralto Iris Oja
Tenore Oliver Kuusik
Basso Uku Joller
Johann Sebastian Bach : «Komm, Jesu, komm» BWV 229
Felix Mendelssohn Bartholdy : «Mitten wir im Leben sind» op. 23 n. 3
Charles Parry : «Lord, let me know mine End», da “Songs of Farewell”
Wolfgang Amadeus Mozart : “Requiem” in re minore per soli, coro e orchestra KV 626 (ed. R. D. Levin)
Torino, 29 ottobre 2013

Può essere significativo notare come, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, due importanti rassegne musicali, MITO e i “Concerti del Lingotto”, presentino nell’annata 2013 un avvio dedicato alla musica sacra, e alla tradizione liturgica di origine medioevale, con il mottetto. Era già accaduto al Teatro alla Scala di Milano e al Teatro Regio di Torino per le due serate inaugurali di “Settembre Musica”, e accade ora per il secondo dei “Concerti del Lingotto” (dopo il primo interamente mahleriano), che apre nel nome di Bach, splendidamente eseguito a cappella dall’Estonian Philharmonic Chamber Choir (fondato nel 1981), diretto da Paul McCreesh (celebre ideatore e direttore del Gabrieli Consort & Players). La nota è significativa, si diceva, perché testimonia la crescita del pubblico italiano, ormai disposto a confrontarsi con un repertorio fino a qualche anno fa ritenuto incongruo (tranne un esiguo mannello di titoli) alle sale da concerto e ai festival di musica sinfonica. Ancora una volta, poi, la spazialità del Lingotto e la sua allure acustica stupiscono per la restituzione perfetta delle variegate sonorità vocali bachiane (che, a dispetto della probabile occasione d’origine del mottetto BWV 229, non hanno nulla di funereo). Il timbro sopranile è la tinta dominante del brano d’inizio, mentre nel mottetto successivo, di Mendelssohn, l’effetto di contrasto è offerto dalla continua alternanza dei registri e delle prominenze di categorie vocali diverse (in apertura, quelle maschili). Il «Kyrie eleison» con cui il mottetto si spegne è un meraviglioso modulo bachiano, che permette di riconoscere il valore d’un’intera tradizione musicale. La triade di mottetti si chiude in un ambiente inglese d’età vittoriana, grazie a uno dei sei Songs of Farewell (1916-1918) di Charles Parry: un brano d’impianto classico, aderentissimo alle parole del salmo intonato (39, 5-15), la cui recenziorità musicale è tradita forse soltanto dagli ampi intervalli armonici; per il resto si respira un’aura tipicamente britannica da Coronation Anthems, ma naturalmente più austera. Nella grande suggestione del finale, tutto a mezza voce, il coro nella sua compattezza eguaglia sonorità organistiche, ma di un organo le cui canne siano intrecciate di rose e di viole della tradizione biblica riformata.
Nella seconda parte del concerto, per il Requiem di Mozart fa il suo ingresso la Kammerorchester Basel (complesso nato nel 1984, ispirato alla storica Basler Kammerorchester di Paul Sacher). L’attacco dell’Introitus, con un tempo leggermente trattenuto che conferisce un inaspettato ritmo, quasi danzante, è davvero sorprendente, e prelude alla cura minuziosa di ogni particolare coloristico e ritmico nella componente strumentale. Il coro, che passa dal canto tedesco a quello latino, non si preoccupa di operare alcun accorgimento fonetico, e quindi non palatalizza i suoni, ma neppure adotta la filologica pronuncia restituta; soprattutto legge «lux perpetua luzeat eis» (con z sorda, che corrisponderebbe appunto all’analoga c tedesca).
Purtroppo, come quasi sempre accade nei concerti vocali di musica sacra, i solisti si rivelano per lo più inadeguati al compito che dovrebbero sostenere; la mancanza di una collocazione specifica nella compagine degli esecutori è un primo segno della deliberata mancanza di attenzione da parte del direttore d’orchestra. I quattro cantanti sono infatti confusi con il resto del coro, e se ne distaccano soltanto in occasione di numeri musicali che li richiedano protagonisti (restando comunque a metà tra coro e orchestra; in uno spazio vasto quanto quello del Lingotto, considerato anche il peso specifico delle singole voci, essi avrebbero dovuto essere schierati davanti l’orchestra). Il basso, Uku Joller, ha voce troppo chiara e non bene appoggiata; il tenore, Oliver Kuusik, ha voce dal timbro gradevole, ma gravata da difetti di respirazione che compromettono tutta la linea di canto; il contralto, Iris Oja, ha voce vibrante, ma non sempre perfettamente a fuoco (ed è forse la più corretta del gruppo); il soprano, Kaia Urb, è caratterizzato da un’emissione molto leggera, insufficiente nelle note acute. Il quartetto dell’«Ingemisco, tamquam reus» è il momento d’insieme più bello, ma permette di intuire come ciascuna delle quattro voci abbia un’autonomia fortemente limitata. Al «Benedictus», infatti, il quartetto sembra reduce da un terremoto alle pieghe vocali, perché nessuno è capace di sostenere la propria parte con voce adeguata per più di qualche battuta, se non con una linea di canto sfocata, troppo tenue, insufficiente.
Molto pregevole è invece il «Lacrimosa», al vertice dell’esecuzione, con un’orchestra che va crescendo, dalle trame sottili degli archi alle sonorità di fiati e timpani, e con un coro perfetto nell’omogeneità delle voci (imperfetta, forse quale conseguenza al termine del “pezzo di bravura” più impegnativo, è invece la resa dei soprani nel successivo «Amen»). Nell’ultimo brano (il «Lux aeterna» della Communio) è un abbrivio leggero, più che giustificato dalla ripresa del tema fugato già ascoltato in precedenza. Mirabili gli inseguimenti tra gruppi vocali e singoli strumenti (in particolare i fiati), che suggellano l’opera nel segno della più schietta polifonia. Il pubblico apprezza entrambe le parti del concerto, con lunghissimi applausi, rivolti soprattutto all’insieme corale. E non importa se non è proprio tutto di Mozart, nella seconda parte del Requiem, perché lo spirito di pagine come il «Lacrimosa» soffia così intensamente da raggiungere anche le propaggini apocrife della partitura. Foto Pasquale Juzzolino