Verdi e Rossini “eccentrici” a Stresa

Stresa, Palazzo dei Congressi, Settimane Musicali di Stresa e del Lago Maggiore – LII Edizione, Stresafestival2013
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Soprano Maria Agresta
Mezzosoprano Angela Brower
Tenore Gregory Kunde
Basso Mirco Palazzi
Giuseppe Verdi: Quartetto per archi in mi minore (trascrizione per orchestra d’archi)
Gioachino Rossini: Stabat Mater per soli, coro a quattro voci miste e orchestra
Stresa, 1. settembre 2013

“Tra terra e cielo” è il titolo di una rassegna musicale che, insieme alle “Meditazioni in Musica”, sostanzia il programma di Stresafestival2013. Il direttore artistico, Gianandrea Noseda, propone al centro del ricco programma un concerto dedicato a due composizioni eccentriche rispetto alla produzione melodrammatica di Verdi e di Rossini: il Quartetto per archi del primo e lo Stabat Mater del secondo. Alla terra apparterebbe il “laico” quartetto, e al cielo la pagina sacra? È certamente divenuto luogo comune, in ogni occasione esecutiva, affermare che entrambe le opere tradiscano un po’ il genere di appartenenza per avvicinarsi allo stile di scrittura più congeniale ai loro autori, ossia il teatro musicale; e un luogo comune non necessariamente deve essere inteso come falso. Al contrario, nel caso della versione offerta dallo stesso Noseda il Quartetto verdiano – dilatato nelle proporzioni fino a richiedere un’intera orchestra d’archi – permette di riscontrare come le armonie di Aida si possano applicare anche alla musica da camera di gusto neoclassico (il lavoro risale al marzo 1873, quando Verdi si trovava a Napoli appunto per le prove di Aida). Lo Stabat Mater rossiniano, poi, sempre per come lo intende Noseda, si presenta quasi anticipatore del Verdi più tumultuoso e apocalittico, quello della Messa di Requiem o di Otello. Del resto, per suggerire l’origine di certi tópoi critici, varrà bene citare un critico musicale della capacità intuitiva di Gabriele D’Annunzio, che sulla composizione di Rossini scriveva nel 1885: «nulla v’è di più genialmente teatrale e melodrammatico che questo Stabat ecclesiastico».
Nonostante il mistero sulla responsabilità della trascrizione e l’aggiunta della sezione dei contrabbassi, Noseda dirige il brano da camera con grande cura per le indicazioni agogiche. Indubbiamente, la natura originaria del quartetto per archi è del tutto snaturata, specialmente in quelle inflessioni haydniane a cui Verdi teneva molto. Le sonorità delle viole nell’Allegro iniziale appaiono a volte come annacquate, stemperate in un discorso complessivo che ricorda più certe serenate čajkovskiane, che non musica strumentale verdiana. L’Andantino, di per sé così elegante e salottiero, è staccato con fretta eccessiva e con sonorità un po’ pesanti; e poi Noseda non sfrutta abbastanza le pause all’interno del movimento, che potrebbero conferire grande senso teatrale. Il direttore preferisce piuttosto inserire una pausa – francamente inopportuna e distraente – tra Andantino e Prestissimo, per dire qualcosa a proposito dell’eccezionalità del Quartetto nella scrittura verdiana. Ma perché non parlare al pubblico prima dell’esecuzione musicale? Una così generica didascalia a metà dell’opera sembra una dichiarazione di sconfitta: come a dire, poiché la musica è ritenuta tanto eccentrica e anomala, conviene attutirne l’impatto con qualche frase propedeutica. Verdi non meritava proprio questo piccolo, involontario affronto. Il merito principale della direzione di Noseda è nel tempo finale (Scherzo-Fuga. Allegro assai mosso), perché il direttore fa emergere bene le tendenze armoniche e l’allure compositiva che apparentano il Quartetto alla partitura di Aida: ad ascoltare con attenzione, il brano da camera non è affatto un capriccio nell’ispirazione verdiana, ma una conferma di maestria totale e di scrittura sicurissima.
Prima di dare l’attacco d’apertura allo Stabat Mater il direttore riprende la parola, ma questa volta a proposito, e per un nobile intento: dedicare l’esecuzione alla memoria di Chiara Lazzari, soprano del Coro del Teatro Regio di Torino recentemente scomparso. Le voci, corali e soliste, sono infatti protagoniste dello Stabat Mater, in un dialogo che va ben oltre rispetto ai declamati, ai recitativi e ai concertati del melodramma: basti ricordare che al termine del lavoro, nel 1841, sono già trascorsi dodici anni dall’ultimo titolo teatrale del catalogo rossiniano, Guillaume Tell.
Nel «Cujus animam» Gregory Kunde sfoggia un registro acuto splendido come sempre; in alcune note basse si perde qualche armonico, forse perché il cantante è messo in difficoltà dal tempo troppo rapido (il primo incorreggibile vizio) staccato da Noseda. La voce del tenore diventa addirittura debordante nel quartetto «Sancta Mater, istud agas», quando ci si accorge che la sua sola equivale in volume e squillo a quella degli altri tre cantanti messi insieme. Ma al di là della preponderanza di Kunde, il brano diviene il più bello dell’esecuzione, anche grazie ai colori degli archi e alle dinamiche orchestrali esaltati da Noseda.
Il duetto di soprano e mezzosoprano «Quis est homo» è introdotto da un breve preludio, in cui i corni dell’Orchestra del Regio accusano qualche incertezza (come accade anche nelle analoghe battute del «Fac ut portem»), ma poi interviene la voce di Maria Agresta a risolvere tutto: il soprano ha voce ottima per bellezza del timbro, rotondità dell’emissione, omogeneità della linea di canto. Grande intensità nell’«Inflammatus et accensus», anche se il direttore lo trasforma quasi nel «Dies irae» della Messa di Requiem di Verdi, per sonorità strepitose e ritmo incalzante; la voce della Agresta sembra adeguarsi alle scelte direttoriali, cogliendo così l’occasione rossiniana per sottolineare una vocalità autenticamente verdiana. Meno buona la prestazione congiunta del mezzosoprano, perché la voce di Angela Brower sembra un po’ leggera, oltre a risuonare più chiara rispetto a quella della Agresta nel primo duetto. Rende meglio quando canta da sola nell’Andante grazioso del «Fac ut portem».
Il basso Mirco Palazzi esibisce una cavata omogenea, una voce timbrata e un’emissione corretta; in talune note basse il fiato non è sempre bene appoggiato, ma l’artista deve contrastare un volume orchestrale che Noseda si compiace di mantenere sempre alquanto forte (il secondo incorreggibile vizio); la voce si apprezza meglio nel «Fac, ut ardeat cor meum». Ottimo il Coro preparato da Claudio Fenoglio, e impeccabile nei difficili momenti a cappella; la compagine delle voci asseconda sempre le richieste di Noseda, e l’«Amen, in sempiterna saecula» conclusivo è bellissimo per l’armonia di voci e di strumenti: quando finalmente le scelte ritmiche divengono equilibrate, la resa analitica degli archi (in particolare dei violini) costituisce il miglior pedale della stretta per l’ultimo l’intervento del Coro. Non la dolcezza, ma il vigore; non la meditazione assorta, ma il gesto netto e concreto: queste le carature della direzione di Noseda per entrambi i brani del programma, che escono certamente irrobustiti e, per così dire, armonizzati tra di loro. Il pubblico di Stresa risponde con un clamoroso e prolungato applauso, rivolto a tutti gli artisti, ma in particolare al direttore-demiurgo del Festival sul Lago Maggiore.