Roma, Auditorium Conciliazione, Romaeuropa Festival 2013
“The Goldlandbergs”
Coreografia Emanuel Gat
creata in collaborazione con ed eseguita da: Hervé Chaussard, Aurore Di Bianco, Michael Lorh, Pansun Kim, Philippe Mesia, Geneviève Osborne, François Przybylski, Milena Twiehaus.
Sottofondo sonoro“The Quiet in The Land” scritto e realizzato daGlenn Gould
MusicheJohann Sebastian Bach “The Goldberg Variation” PianoGlenn Gould
Sound design creato in collaborazione con Frédéric Duru
Scene e disegno luci creato in collaborazione con Samson Millicent
ProduzioneEmanuel Gat dance
Roma, 25 settembre 2013
Una scatola nera, vuota. Un grosso tappeto di linoleum bianco a delimitare il palco. Non ci sono quinte, né fondale, niente sipario, nessuna scenografia. I danzatori, cinque uomini e tre donne, entrano in scena mentre le luci in sala sono ancora accese. Sono tutti in biancheria intima, quasi come fossero stati sorpresi nel momento del risveglio.
Rumori di sottofondo, voci, canti. La colonna sonora del lavoro di Emanuel Gat è “The Quiet in The Land”, documentario audio scritto e realizzato dal pianista canadese Glenn Gould su una comunità mennonita, intervallata dalle note asciutte che escono dal pianoforte dello stesso Gould, interprete delle “Variazioni Goldberg” di Bach.
“The Goldlandbergs” è la storia di una famiglia, quasi un documentario nel documentario. L’intento di Emanuel Gat – israeliano di nascita, residente con la compagnia di cui è fondatore a Montpellier, Francia – è quello di regalare allo spettatore, attraverso la danza, uno sguardo sulla complessità delle relazioni umane, un’analisi metaforica delle spinte emozionali, fisiche, psichiche, che regolano l’agire dell’uomo.
I danzatori si relazionano tra di loro attraverso una serie di dialoghi muti. In due, in tre, in gruppo. Si guardano, respirano, aspettano. Si incontrano, creano strutture uno sull’altro, si spingono e respingono. I movimenti sono lenti e fluidi, a tratti minimi, impercettibili gesti delle mani, della testa. Poi il ritmo incalza, la velocità di azione aumenta, gli spostamenti diventano più ampi, quasi ginnici, i lift si fanno audaci. Si fermano tutti insieme, riprendono a muoversi all’unisono, ognuno con un proprio segno, tutti animati da un respiro comune, un unico grande polmone che si dilata e si restringe. Tutto ciò che avviene è sottile e raffinato, un succedersi di soluzioni che riescono ad incantare e stupire nonostante la marcata semplicità. Ci vengono proposte e riproposte sistematicamente le stesse sequenze di movimenti, piccoli rituali atti a caratterizzare uno ad uno gli otto protagonisti che popolano la scena. Situazioni che si ripetono in angolazioni ogni volta differenti così che, pur riconoscendo un momento già osservato, è possibile scoprire nuovi incastri, spinte sfuggite alla prima vista. I danzatori non escono mai dal campo visivo dello spettatore, anche quando si allontanano dal quadrato bianco del palco restano sui lati o sullo sfondo, così anche il riposo, il detergere il sudore, diventano parte integrante dello spettacolo.
Le luci scendono dall’alto, disegnano geometrie sui corpi seminudi. A volte si muovono con loro, altre volte sembrano voler essere protagoniste, tanto che i danzatori sono costretti a compiere le loro evoluzioni nella penombra, mentre lo spazio illuminato rimane vuoto, in attesa. Lo spettacolo dura un’ora, sessanta minuti che volano via in un battito di ciglia. La fine arriva quasi troppo presto, lasciandoci addosso l’inaspettata eppure deliziosa sensazione di non averne avuto abbastanza.