Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VII Edizione – MITO Settembre Musica, Torino, Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto
Münchener Kammerorchester
Direttore Alexander Liebreich
Violino Vadim Repin
Franz Josef Haydn: Sinfonia in mi minore Hob. I:44 “Trauersymphonie”
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto n. 3 in sol maggiore per violino e orchestra KV 216
Witold Lutosławski: “Musique funèbre” (Muzyka załobna) per archi
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto n. 5 in la maggiore per violino e orchestra KV 219
Torino, 14 settembre 2013
Un altro concerto sinfonico di MITO (non sarà l’ultimo) si apre con una sinfonia di Haydn, e tra le meno convenzionali, come già accaduto per la serata inaugurale. La conduzione di Alexander Liebreich è un esempio di come il gesto aereo del direttore possa trasmettersi agli strumentisti e sortire l’effetto desiderato. Sulla leggerezza degli archi si appoggia quindi la continua riflessione del corno, dal tono né triste né cupo ma meditativo. In effetti Haydn non vuole comporre una “sinfonia funebre”, intesa come teatrale espressione di un corteo o di una cerimonia, bensì una sequenza sinfonica originale sin dalla disposizione interna dei tempi, e poi aggiornata alle inquietudini del coevo Sturm und Drang; ne sono esempio le sonorità del corno abbinate ai contrabbassi nel Minuetto (Allegretto), dolorose ma assolutamente composte, severe. L’Adagio è preparato dal precedente Scherzo, e costituisce il completamento della qualità funebre (pure in tonalità maggiore), mentre soltanto nel Finale (Presto) il direttore rende percepibile la drammaticità della musica: come se il movimento e la dimensione cinetica, anche tragiche, seguissero un prolungato momento di stasi cogitabonda, in cui la morte è sofferenza, ma non fa paura.
Il pendant della sinfonia haydniana all’interno del concerto è la Musique funèbre di Lutosławski, un brano risalente al 1958 e ispirato alla memoria di Béla Bartók: dato anche il raro ascolto, è la pagina più interessante della serata. Soprattutto per non avere nulla di precostituito sul piano formale e stilistico, nulla di banalmente funèbre. All’ascoltatore reca l’impressione di uno stile a mezza via tra Bartók e Schoenberg (al secondo ammicca il sottotitolo di un segmento, Metamorphosis). Due sono i punti di forza dell’esecuzione: la personalità del primo violino, che realmente guida la piccola compagine con sonorità superiore e riconoscibile, e l’omogeneità dei violoncelli, una pasta sonora densa e compatta di sicura suggestione.
Vadim Repin propone due dei cinque concerti mozartiani per violino e orchestra, alternati nelle due parti del programma ma accomunati dallo strumento, il “Bonjour” di Guarneri del Gesù datato 1743, dal suono meraviglioso. Lo stile esecutivo per l’introduzione orchestrale è scintillante, fiorito, calibrato su tempi giusti (finalmente un Mozart non frenetico o galoppante!). Con l’ingresso del violino solista, però, tutto cambia, perché ogni apparenza di frivolezza scompare, sostituita da increspature drammatiche e suoni scabri (in congiunzione agli squilli del corno nel concerto n. 3, con effetto che ricorda le sonorità “funeree” di Haydn), sottili fino a essere pungenti, caldi e penetranti, ma con continue sprezzature nell’intonazione e nel fraseggio.
È francamente inaspettato il Mozart di Repin, quasi dovesse suggerire anticipazioni espressionistiche, e forse suscita anche imbarazzo nel pubblico (tanto che nel III movimento, tra il finale del Rondò e l’Allegro conclusivo nasce un cenno di applauso fuori luogo). La discontinuità nell’intonazione caratterizza anche il concerto n. 5 (specie nelle cadenze del I movimento, Allegro aperto, e del II, Adagio, allorché il rallentamento del tempo mina la concordanza ritmica con l’orchestra). La lettura di Repin del concerto n. 5 si qualifica soltanto a seconda delle singole sezioni: distese le prime due – e assai meno nervose rispetto a quelle del concerto n. 3 -, di inconsulta accelerazione la terza (con il Tempo di minuetto dopo il Rondò). Ma perché tutto questo? Se è apprezzabile lo sforzo di presentare un Mozart anti-convenzionale, capace di rinnegare lo stile galante (su cui forse in passato si è insistito anche troppo), si vorrebbe però che l’interpretazione fosse condivisa anche dall’orchestra e dal direttore; in troppi momenti, infatti, solista da una parte e complesso dall’altra parevano perseguire finalità espressive differenti, addirittura non comunicanti.
Che il dialogo tra gli artisti non fosse pienamente consolidato, è stato confermato dal bis: una sorta di improvvisazione sul motivo paganiniano “della campanella”, in cui il solista voleva coinvolgere sia gli archi (compiacenti per quanto possibile) sia il direttore d’orchestra (che – a dire il vero – è rimasto un po’ sorpreso, imbarazzato, incerto sul da farsi); comunque – ennesimo paradosso di un concerto ambizioso ma non sufficientemente collaudato – tale bis è risuonato come la pagina più vitale e briosa di tutto il programma. Foto Gianluca Platania