Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VII Edizione – MITO Settembre Musica; Torino, Teatro Regio
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Goffredo Petrassi: Coro di morti
Gustav Mahler: Sesta Sinfonia in la minore “Tragica”
Torino, 19 settembre 2013
Tre pianoforti affiancati, quattro contrabbassi, un nutrito gruppo di ottoni e di percussioni: è l’organico strumentale che accompagna il Coro di morti, composto da Goffredo Petrassi tra 1940 e 1941 sul celebre testo leopardiano, Coro di morti nello studio di Federico Ruysch (dalle Operette morali). Ed è il primo brano – di raro ascolto – di un programma molto apprezzato dal pubblico di MITO per coerenza di stile, splendore sonoro, rigore esecutivo. L’ascoltatore, del resto, è subito affascinato dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, specialmente dall’intonazione di versi come «Profonda notte / nella confusa mente / il pensier grave oscura; […] Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro, tale / qual de’ vivi al pensiero / l’ignota morte appar». Noseda è perfettamente a suo agio con la musica di Petrassi, come documentano il ritmo inesorabile e le sonorità nitide, adattissime alla lapidea monumentalità della pagina. Sull’equilibrato pedale degli archi e dei pianoforti, per esempio, si innestano squilli e brevi fanfare degli ottoni, a sostegno degli interventi corali; soprattutto i tenori forniscono un’ottima prova nel breve canto. Bellissimo e inquietante l’effetto dialogico di timpano, tamburo militare e grancassa nel finale che si spegne come un sinistro presagio di guerra.
L’orchestra del Teatro Regio si schiera poi al gran completo per la Sesta Sinfonia di Gustav Mahler, che riporta indietro agli anni 1903-1905: anche se composta in periodo di pace, l’opera esercita un effetto ancor più angosciante, a partire dal martellante e marziale incedere dell’avvio. Non a caso essa fu salutata nel primo Novecento (per esempio da Arnold Schönberg) come La Sesta per eccellenza, antitetica rispetto a quella beethoveniana (la cui “pastoralità” è pesantemente annullata), e di molte lunghezze più avanti rispetto ai paralleli di Schubert, Bruckner, Čajkovskij. Nel I movimento (Allegro energico, ma non troppo) la debolezza degli ottoni e dei fiati è compensata dagli archi e dal loro suono intenso e pieno; anziché la trasparenza, il direttore persegue in Mahler la fluidità lirica del discorso condotto da violini, viole e violoncelli. Se nei momenti di pienezza orchestrale si percepiscono sonorità un po’ fuori controllo da parte dei fiati, il particolare meglio riuscito è il ritmo funebre/militare molto vigoroso, impresso a tutta la sequenza. Ugualmente di grande effetto (ritmico) è l’attacco del II movimento (Scherzo. Wuchtig), che Noseda genera praticamente senza alcuna cesura rispetto al precedente finale I. A volte, però, i contrasti ritmici non riescono persuasivi, a causa della tentazione tipica cui il direttore cede, l’accelerazione. E in effetti questo Mahler corre un po’ troppo, dà un’idea di inseguimento anche quando i tempi non sono per nulla vorticosi; ma che cosa insegue? Forse l’accumularsi di colori e di timbri, cui è dedicata buona attenzione, unitamente al senso teatrale e drammatico (garantito dalle accurate pause durante i pizzicati). Con il III movimento (Andante moderato) la qualità esecutiva migliora sensibilmente: molto pregevoli il respiro lirico di tutta l’orchestra e l’emissione dei fiati, controllata meglio rispetto ai precedenti movimenti. Quando gli archi campeggiano in primo piano, e poi lasciano spazio alle frasi del primo violino, è il momento più intenso di tutta l’esecuzione. Con l’inizio del IV movimento (Finale. Allegro moderato – Allegro energico) l’ascoltatore si rende conto senza dubbi di come Noseda accentui la suddivisione della sinfonia in due blocchi: i primi due tempi da un lato, intesi come trionfo di ritmo percussivo e di violenza sonora; i secondi due dall’altro, come territori sconfinati in cui cercare luoghi distesi e coloristici, con frasi melodiche e momenti di raccoglimento, ben presto sepolti da nuove sonorità rutilanti. L’alternanza di fragore drammatico e di risoluzione pacata suscita l’aspettativa di strutture che conducano a una quiete idilliaca, che però non si manifesta mai. Soltanto nelle ultime fanfare si assiste a una sorta di resa di fronte all’ineluttabilità del male: l’esecuzione è tanto più convincente quanto più il suono orchestrale diventa omogeneo, prima che il clamoroso congegno sinfonico si avvii all’autodistruzione con gli accordi finali. L’estremo dialogo tra primo violino e fiati profila appena un sorriso di gioia nell’aria, subissato però dal crollo definitivo della musica su sé stessa. «O Madonna!», sussurra angosciata la signora nella fila dietro, dopo l’accordo finale, per dar sfogo ingenuamente al proprio sconcerto; e ha ragione a esprimerlo, anche così, perché la deflagrazione con cui la Sesta si chiude è il trionfo del buio sulla luce, del male sul bene, della pesantezza dell’esistenza che schiaccia con violenza non soltanto l’eroe, ma l’uomo in generale. Senza accorgersene, l’ascoltatore ripensa ai versi leopardiani scelti da Petrassi, «però ch’esser beato / nega a’ mortali e nega a’ morti il fato». Fotografie Gianluca Platania