Cronache del MITO: Mehta chiude il Festival a Torino

Torino Milano – Festival Internazionale della Musica, VII Edizione – MITO Settembre Musica,Torino, Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto 
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta 
Arnold Schönberg: “Fünf Orchesterstücke” op. 16 (1909); “Kammersymphonie” n. 1 op. 9 (1906)
Igor Stravinskij: Le Sacre du Printemps”, quadri della Russia pagana in due parti (1913)
Torino, 21 settembre 2013 

Si apre con una nota di triste malinconia, la serata conclusiva di MITO a Torino, perché appena salito sul podio Zubin Mehta dà la parola al direttore artistico, Enzo Restagno, il quale annuncia la scomparsa di Roman Vlad, avvenuta poche ore prima a Roma. Oltre al ricordo dell’illustre compositore, pianista, musicologo, e della sua lunga esistenza (Cernăuţi, 29 dicembre 1919 – Roma, 21 settembre 2013) di studio e di dedizione alla musica, si profila subito la consonanza tra le predilezioni di Vlad e il programma del concerto; sia Schönberg sia Stravinskij rappresentano infatti due autori molto amati e studiati: in particolare sul Sacre du Printemps Vlad aveva qualche anno fa pubblicato il saggio Architettura di un capolavoro. Analisi della Sagra della Primavera di Igor Stravinsky (Torino 2005).
L’abbinamento di Schönberg e Stravinskij ha una ragione programmatica molto forte: il 1913 non è soltanto l’anno della prima esecuzione assoluta del Sacre (il 29 maggio, al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, per la direzione di Pierre Monteaux), con lo scandalo che l’accompagnò; poco prima (il 31 marzo) a Vienna erano stati presentati i Cinque pezzi dell’op. 16 di Schönberg, in un clima così teso da passare alla storia delle recensioni musicali come “il concerto dei ceffoni” (mentre quello stravinskijano sarebbe diventato sulla stampa il Massacre du Printemps). In effetti, ascoltare nella stessa serata entrambi i programmi, rapportarsi alle abitudini d’ascolto d’un secolo fa, aggiungere alla musica la provocatoria coreografia dell’allora ventitreenne Vaslav Nijinski, il geniale ballerino e coreografo dei Ballets Russes di Diaghilev, permette di spiegare le perplessità e il rifiuto del pubblico di allora.
L’inversione cronologica (prima i Cinque pezzi del 1909 e poi la Kammersymphonie del 1906) giova a illustrare la complessità dello stile schönberghiano: le particolarità frammentarie della prima serie si coagulano infatti nel periodare dispiegato della Sinfonia da camera, ed è come se tessere di per sé preziose trovassero gradatamente una collocazione opportuna e razionale, in realtà anche piuttosto tradizionale. Il ritmo di marcia martellante del primo Stück (Vorgefühle, Presentimenti), la dolcezza degli accenti in parallelo alla mestizia del disegno melodico nel secondo (Vergangenes, Qualcosa di remoto), la provocazione del grigio indistinto di Farben (Colori, il terzo), il barrito elefantesco del quarto (Peripetie, Peripezia), la sonorità grandiosa di ottoni assertivi e aggressivi dell’ultimo (Das obligate Rezitativ, Il recitativo obbligato), sono le rispettive carature della conduzione di Mehta. Il suo è comunque uno Schönberg assai rassicurante, perché non c’è insistenza sul travaglio della musica nuova né sulla sconcertante novità delle strutture che la veicolano (il linguaggio dodecafonico). E anche nella Kammersymphonie, eseguita nella versione originale per 15 strumenti, il direttore fa emergere tutti gli aspetti più positivi: gli slanci dei fiati, gli squilli dei corni, le riprese degli archi, le pungenti frasi ascendenti del discorso. Forse, alla fine, lo Schönberg di Mehta assomiglia un po’ troppo a Strauss e a Stravinskij, ma come non restare affascinati dalla pura bellezza del suono in sé? Il direttore riesce persino a instillare ironia nella struttura musicale così asciutta e severa, come in alcuni passaggi che hanno per protagonisti il fagotto e il pizzicato degli archi. Nella seconda metà del brano, poi, grazie all’intensità del primo violino tutto cambia, facendosi meditativo, sereno, ma anche più garbato, senza le estrosità espressive dell’avvio. Con gli ottimi strumentisti dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, Mehta può permettersi di valorizzare ancora la bellezza timbrica, unitamente alla cifra linguistica del finale: disegni polifonici in grado di generare un trionfo coloristico.
Dirigendo a memoria il Sacre, Mehta insiste sulla scansione ritmica, com’è ovvio attendersi, e sul protagonismo degli ottoni, sempre in primo piano anche nei momenti di pienezza orchestrale. L’irruenza sonora, d’altra parte, non è mai smisurata: in qualche modo è posto un freno all’eventuale effetto smodato. Ma soprattutto, nel corso della I parte (L’adorazione della terra) è particolarmente significativo l’effetto di “dialettica sonora”, determinato da specifica distribuzione degli strumenti sul palco del Lingotto: non solo gli ottoni e i legni si trovano rispettivamente a sinistra e a destra, risultando divisi al pari degli archi (violini e contrabbassi a sinistra; viole a destra), perché gli stessi ottoni sono ulteriormente redistribuiti: corni a sinistra, trombe e tromboni, con l’aggiunta determinante dei fagotti, a destra (per lo più al centro, invece, gli altri fiati e alcuni legni). Nel dialogo politonale delle sotto-famiglie tale accorgimento esalta il dialogo autenticamente architettonico (e dunque propriamente stravinskijano), e nel corrispondersi interno di frasi, squilli, segnali da una parte e dall’altra, suggerisce un canto ancestrale di lontani richiami nella foresta.
Nella II parte (Il sacrificio) Mehta approfondisce la ricerca sulle sfumature timbriche, soprattutto in parallelo alla sezione dei pizzicati (anche se talvolta i corni accusano qualche cedimento, forse perché stremati dal precedente impegno). Come sempre, il sobrio gesto direttoriale mantiene un’unità molto apprezzabile e un’omogeneità che non vuole concedere spazio a troppi dettagli; e così, anche l’esplosione finale delle percussioni resta perfettamente ordinata. Dopo le grandi acclamazioni del pubblico, Mehta introduce una pagina fuori-programma, senza svelarne l’identità, ma limitandosi a definirla «qualche cosa di completamente tonale». Attacca quindi, reboante e corrusca (di quale altro colore potrebbe essere, dopo il Sacre?) una Danza slava di Dvořak (la n. 1 della seconda serie, op. 72). Il sipario torinese su MITO 2013 si chiude così, nel segno del ritmo rigorosamente tonale, festoso ma non troppo.