Pesaro, Rossini Opera Festival, XXXIV Edizione – Auditorium Pedrotti, Concerti di belcanto
Tenore, Yijie Shi
Pianoforte, Hana Lee
Gioachino Rossini: “La promessa” (da Soirées musicales)
Wolfgang Amadeus Mozart: «Dies Bildnis ist bezaubernd schön» (da Die Zauberflöte); «Un’aura amorosa» (da Così fan tutte) Gioachino Rossini: «Que les destins prospères» (da Le Comte Ory); «Sì, ritrovarla io giuro» (da La Cenerentola)
Francesco Cilea: «È la solita storia del pastore» (da L’Arlesiana)
Charles Gounod: «Salut! demeure chaste et pure» (da Faust)
Franz Lehár: «Dein ist mein ganzes Herz…» (da Das Land des Lächelns)
Gaetano Donizetti: «Spirto gentil» (da La Favorita)
Pesaro, 21 agosto 2013
Uno dei principali meriti del Rossini Opera Festival in ambito vocale è la coltivazione di un vivaio di giovani talenti, che solitamente approdano ai palcoscenici prestigiosi del Teatro Rossini e dell’Adriatic Arena dopo essere passati al vaglio dell’Accademia Rossiniana e dell’annuale esecuzione del Viaggio a Reims: è il caso del tenore cinese Yijie Shi, nato a Shangai nel 1982, debuttante al ROF nel 2008 (Cavalier Belfiore, appunto nel Viaggio a Reims) e da allora assidua presenza a Pesaro. Il ruolo più importante affidatogli in passato è stato quello di protagonista del Comte Ory nell’edizione del 2009; da allora il cantante è molto cresciuto, ha studiato moltissimo il fraseggio dell’italiano e del melodramma (non soltanto rossiniano), come dimostrano la prova del concerto di canto e la contemporanea gestione del ruolo di Lindoro nell’Italiana in Algeri.
Una compitezza che è prima di tutto esteriore (Shi si presenta in elegante abito nero, con cravatta seriosissima e pochette perlacea, e dà una lezione di stile a molti suoi colleghi assai più sciatti) diventa la cifra del porgere del tenore. Nel Rossini della “Promessa” sono interessanti la cura, la gamma di sfumature e di colori che il cantante cerca di manifestare, e ancor più la pronuncia correttissima dell’italiano, segno dello studio certamente capillare della fonazione occidentale applicata alla nostra lingua. Nelle arie mozartiane si apprezza una voce lirica e aggraziata, dotata di buona tecnica; Shi è solito esordire con un suono tenue, che rinforza progressivamente per mezzo del fiato, riuscendo così a conservare abbastanza bene gli armonici (peraltro non abbondanti) delle note centrali. A stupire è appunto l’abilità del tenore nel “portare” il volume del suono, aumentandolo e diminuendolo con sicurezza e naturalezza. Il profilo vocale non ha tratti specifici o riconoscibili, né di bellezza né di timbro, ma sono rimarchevoli la correttezza di lettura (intesa come rispetto della scrittura musicale) e una discreta musicalità.
Rivestendo i panni del Comte Ory, l’artista rientra sul palcoscenico dell’Auditorium Pedrotti sorridente e sicuro; al confronto dell’esecuzione del 2009 non pare neppure lo stesso cantante. Gli elementi interpretativi potrebbero essere definiti “di maniera”, ma risultano sempre di buon gusto; purtroppo le note delle agilità non sono sgranate alla perfezione, e questa componente del canto resta un po’ penalizzata. L’acuto finale è invece corposo e sufficientemente timbrato.
Nel concitato brano della Cenerentola (in cui la pianista martella la tastiera in modo assai pesante) Shi ritaglia uno spazio di grazia con la sezione ariosa «Pegno adorato e caro», a riprova definitiva che con un’ottima tecnica è possibile sopperire anche a una voce non particolarmente bella, né molto originale o ricca di armonici.
L’ampio intervallo che separa Rossini da Cilea non crea alcuno stridore, perché Shi individua nella dizione accurata del testo italiano un possibile trait d’union rispetto al repertorio di primo Ottocento. Il celebre lamento di Federico (eseguito nella stessa sala tre giorni prima da Celso Albelo) è cantato a fior di labbra nella prima parte, mentre convince di meno nella seconda, allorché il tenore vuole offrire una prova di forza e “fa la voce grossa” (anch’egli cade nella solita tentazione da concerto); ovviamente il pubblico apprezza moltissimo, e i sobri applausi riservati ai brani iniziali si fanno sempre più calorosi e prolungati. Il programma raggiunge il culmine dell’impegno con la grande aria di Faust, eseguita bene, con acuti dalla buona ampiezza e con puntatura finale molto solida; però Shi non ha ancora raggiunto quella maturità interpretativa per affrontare un personaggio come Faust (e si percepisce come la voce debba forzare alquanto la fibra muscolare per eseguire tutto quanto richiesto da Gounod).
Molto divertente l’aria leháriana da Das Land des Lächelns: Shi è coraggioso nel cantarla in tedesco (che non domina bene come l’italiano e il francese), e riesce a porgerla con un trasporto ingenuo, con una simpatia naïf, che lo fa assomigliare a un tenore tedesco quando si compiace di cantare una canzone napoletana. L’effetto, del resto, è garantito, visto che il brano di operetta diventa il più applaudito dell’intero concerto. A questo punto è un po’ straniante il ritorno al Donizetti tragico della Favorita, anche perché il tenore lo affronta con la stessa tipologia di páthos che applica a Cilea e a Lehár; si può dunque riscontrare una certa omologazione interpretativa, ma per quanto riguarda respirazione, accenti, acuti, tutto è rigoroso (la nuance di grazia con cui conclude la pagina riscatta anzi qualche precedente genericità). Shi è un artista intelligente e quant’altri mai volenteroso; sorge però il dubbio – ascoltata la recita dell’Italiana in Algeri successiva al recital – che proporre un concerto così impegnativo (e dispendioso di energie vocali) il giorno prima di una rappresentazione in teatro sia un gesto alquanto incauto: ne risente soprattutto l’emissione delle già discutibili fioriture e agilità.
Terminato il programma ufficiale, Shi compie un’ottima scelta per regalare al pubblico qualche pagina in più, introducendo due canzoni cinesi, su testo poetico antichissimo (ma di gusto musicale evidentemente influenzato dal romanticismo occidentale), e riassumendone i contenuti: la “Canzone del fagiolo rosso” (simbolo dell’amore nella Cina di trecento anni fa) e “Io abito all’inizio del fiume Yangtze” (storia di due amanti che vivono uno alla fonte, l’altro alla foce dell’interminabile corso d’acqua; non si vedono mai, ma ogni giorno vedono almeno scorrere la stessa acqua). Il cantante parla un discreto italiano, ed è interessante ascoltare la sua voce non in maschera: posata, gentile, sembra quella di un garbato adolescente. L’apprezzamento da parte del pubblico per i due brani orientali induce Shi a un autentico fuori programma, perché torna sulla scena con uno spartito che appoggia sul leggio (mentre tutto quanto precede è eseguito a memoria); ultimo omaggio all’Italia e alla sua tradizione liederistica, con «Non t’amo più» di Francesco Paolo Tosti. Un bel tragitto, dall’iniziale e sornione Rossini delle Soirées musicales, quasi quello del fiume cinese degli antichi amanti; ma l’approdo è raggiunto felicemente. Foto Amati & Bacciardi