Pesaro, Rossini Opera Festival, XXXIV Edizione, Teatro Rossini
“L’OCCASIONE FA IL LADRO”
Burletta per musica in un atto di Luigi Prividali
Musica di Gioachino Rossini
Don Eusebio GIORGIO MISSERI
Berenice ELENA TSALLAGOVA
Conte Alberto ENEA SCALA
Don Parmenione ROBERTO DE CANDIA
Ernestina VIKTORIA YAROVAYA
Martino PAOLO BORDOGNA
Orchestra Sinfonica “G. Rossini”
Direttore Yi-Chen Lin
Maestro collaboratore responsabile e fortepiano Gianni Fabbrini
Regia, scene e costumi Jean-Pierre Ponnelle
Ripresa della regia Sonja Frisell
Pesaro, 21 agosto – Ultima rappresentazione
Soltanto un ascoltatore distratto, ancora incantato dalla magnificenza del Guillaume Tell, potrebbe considerare da poco la qualità dell’Occasione fa il ladro che il Rossini Opera Festival ripropone quest’anno. L’atto unico si presenta con civettuola umiltà sin dalla didascalia di “burletta per musica” (comunque della durata di un’ora e quaranta minuti, non un intermezzo qualsiasi) e risale al 1812, per il veneziano Teatro di San Moisè (una sorta di attivissimo santuario della farsa teatrale: più di cento lavori originali furono composti per questo teatro tra 1792 e 1818, anno della sua chiusura, come documenta David Bryant in un saggio del programma di sala pesarese). Rossini in parte si adegua alla prolifica tradizione, in parte innova, dilata e inserisce stilemi tutti suoi.
Più che una premessa, questa è una riflessione di chi accosta inevitabilmente il capolavoro assoluto e la burletta, per averli ascoltati in due serate consecutive, secondo i felici meccanismi dell’effemeride pesarese. Perché ci si accorge di quanto il compositore si diverta, per limitarsi a un solo esempio, con la rappresentazione della tempesta: la natura numinosa, prima terribile e poi rasserenata, del Guillaume Tell, ha tra i numerosi precedenti anche il temporale notturno con cui si apre L’occasione fa il ladro: effetto comico della musica è lo spavento prodotto sul servitore Martino, che dalla paura non riesce neppure a mangiare.
Va in scena la ripresa di un allestimento storico, risalente al 1987, quando Jean-Pierre Ponnelle elaborò per l’Auditorium Pedrotti una regia perfettamente funzionale alla complicata trama. Ora la direzione musicale è affidata a Yi-Chen Lin, primo direttore donna a collaborare con il ROF (debuttò a Pesaro nel 2011, dirigendo Il viaggio a Reims dell’Accademia Rossiniana); il suo gesto è molto ampio e ordinato, ma forse troppo rigoroso nel ritmo, poiché la misura d’avvio di ciascun numero musicale resta identica fino al termine. Alcuni snodi drammatici e comici esigerebbero in realtà un abbrivio più marcato, anche per evitare l’effetto di mono-ritmicità (che si percepisce soprattutto nei due terzetti a ridosso del finale). Il gesto stesso del direttore sembra esclusivamente finalizzato a segnalare l’attacco, agli orchestrali come ai cantanti, senza chiedere nulla di più (forse anche per questo le sezioni degli archi producono complessivamente un suono un po’ disomogeneo, e l’intensità non è sempre costante).
Le voci di Roberto De Candia e di Paolo Bordogna si integrano molto bene nell’effetto comico e burlesco loro richiesto; quella di De Candia, ben nota al pubblico rossiniano per tanti anni e tanti ruoli di frequentazione (era stato Don Parmenione già nella ripresa del 1996), è decisamente simpatica, anche se l’emissione appare sempre più alleggerita, non esente da difetti di intonazione, da suoni aperti nelle note acute, dalla discontinuità del timbro nei momenti di sillabato più irto («Non odo i tuoi consigli»). Anche nel duettino con Ernestina («Quel gentil, quel vago oggetto») De Candia risolve con la verve e con l’espressività comica tutte le difficoltà della scrittura rossiniana; ma spesso il fraseggio è trascurato, la dizione un po’ sciatta, e non sempre la bellezza del timbro riesce a compensare del tutto. La voce e lo stile di De Candia sono divenuti assai simili a quelli di Bruno Praticò, il modello ispiratore cui probabilmente l’artista guarda; ma dovrebbe guardarsi dal rischio di concedere troppo spazio alla declamazione anziché al canto vero e proprio. Paolo Bordogna realizza in modo molto appropriato i suoi personaggi comici: Martino è un servo sciocco e impacciato, simile al Germano della Scala di seta che ha reso tanto celebre questo cantante presso il ROF. A volte le sue messe di voce risuonano un po’ fisse, con un effetto non casuale ma prediletto dall’artista, che rende così anche gli acuti e gli accenti marcati (per questo la sua interpretazione dell’aria comica «Il mio padrone è un uomo» costituisce il momento più riconoscibile del suo stile). A lungo andare, però, questo tipo di emissione risulta stucchevole: gli acuti sono aperti, sembrano appartenere a un altro registro (si badi: non perdono di timbro, ma lo modificano), con un suono fisso che può anche far pensare alla stonazione. La prestanza e la spigliatezza sceniche, comunque, fanno sì che il pubblico pesarese gli perdoni tutto, e lo acclami trionfalmente, dalla prima entrata in scena al finale della farsa.
Nel ruolo protagonistico di Berenice c’è Elena Tsallagova (soprano russo che nel 2012 sostenne la parte di Amenaide nel Tancredi in forma di concerto): l’artista ha voce bella, aggraziata, unitamente a un porgere garbato e a una discreta capacità di sfumare e alleggerire i suoni. Nelle agilità dell’aria di sortita («Vicino è il momento / che sposa sarò») si registra qualche piccola incertezza, dovuta appunto alle difficoltà della tessitura, ma il soprano si disimpegna con professionalità. Nei dialoghi e nel concitato duetto «Ah uomo petulante» (con De Candia) ricorre un po’ troppo ai portamenti, mentre nell’aria virtuosistica «Io non soffro quest’oltraggio» si percepisce qualche acerbità nell’emissione degli acuti. Il suo personaggio è comunque reso in maniera convincente, e la sua aria finale («Voi la sposa pretendete») è il numero più applaudito di tutta l’opera.
Il tenore che interpreta Alberto è Enea Scala, altro giovane artista coltivato dal ROF: anch’egli ha voce molto aggraziata, perfettamente adatta sia all’azzimato personaggio sia a duettare con la Berenice della Tsallagova: l’armonia sonora dell’intreccio è molto apprezzabile sin dal primo duetto («Se non m’inganna il core»). La cavata del tenore è interessante, anche se il cantante indulge a volte a un’emissione un po’ ricercata; anziché elegante per naturalezza, vuole riuscire sempre elegante. Ma non è certo un difetto che un personaggio di burletta mantenga caratteristiche un poco da poseur (anche perché Scala sa poi esprimere il languore elegiaco dell’amante in ambasce). «D’ogni più sacro impegno» è un’aria difficile, estesa sia in alto sia in basso nella tessitura: negli acuti si sente qualche leggera inflessione di gola, anche se il volume è ragguardevole e la sonorità adeguata; nelle note basse la sicurezza non è totale, ma l’esito complessivo è positivo.
Molto corretto il Don Eusebio di Giorgio Misseri, mentre l’Ernestina di Viktoria Yarovaya ha voce un po’ piagnucolosa, piuttosto secca e priva di armonici, insoddisfacente soprattutto nei passaggi di agilità degli ensembles. A proposito dei numeri d’insieme: delizioso il quintetto «Che strana sorpresa, / che caso inaudito!», in cui tutte le voci (tranne quella di Martino) si radunano per la prima volta, e l’ascoltatore apprezza il cumulo delle parti, in cui tutti gli interpreti sono a loro agio. Ma il numero più riuscito dell’intera opera è certamente il duettino finale «Oh quanto son grate / le pene d’amore» di Berenice e Alberto, per la grazia, la musicalità che le voci sanno infondere ai semplici versi e all’estatica scrittura rossiniana. Nel finale cantanti e direttore sono tutti applauditissimi.
Sonja Frisell riprende la regia di Ponnelle, aggiungendovi qualche trovata e avvalendosi delle acrobatiche capacità di Bordogna e delle doti attoriali degli altri; resta centrale l’idea originaria, di una valigia posta al centro della scena vuota, dal cui interno fuoriesce tutto quello che serve a produrre l’opera: gli artisti, gli oggetti scenici, le quinte. E l’assenza del coro è sopperita – sempre per intuizione del geniale Ponnelle – dalle maestranze tecniche, che agguantano tutte le masserizie scaturite dalla gigantesca borsa per montare “in diretta” la scena, con tele dipinte e interni stilizzati. Alla fine, in corrispondenza del doppio matrimonio che risolve la burletta, tutto è nuovamente smontato, e pezzo per pezzo ritorna dentro la valigia. Non per suggerire la totale, squisita surrealtà di quanto visto e ascoltato, ma più probabilmente per additare che le debolezze e le velleità pericolose (le occasioni che, appunto, rendono disonesti) ci accompagnano sempre, come una borsa che si tiene tra le mani. Foto Amati & Bacciardi