“Non sono più molti, che possano dire d’aver visto Verdi. Per averlo veduto, e ricordarsene, bisogna avere oggi almeno cinquant’anni. Ogni età ha suoi propri privilegi e qualche sua propria ricchezza. Io l’ho visto: una volta sola, sì, ma lo vidi, tre mesi prima che morisse. Fu il 20 ottobre del 1900. Per festeggiare l’ottantasettesimo compleanno di lui, caduto il 10 ottobre di quello stesso mese, il Direttore del Conservatorio di Musica di Parma, che era il Tebaldini, volle condurre l’orchestra degli alunni a dare un concerto di musiche verdiane nel Teatro di Busseto. Altrove ho raccontato di quella giornata: e della sosta che facemmo alle Roncole, per visitare la casa natale del Maestro e poi la chiesa dove egli, da ragazzo, sonava l’organo; e della visita che il Direttore del Conservatorio e il Sindaco di Parma andarono a fare a Verdi a Sant’Agata, e di come alcuni miei compagni ed io li seguimmo ed entrammo nel giardino della villa con la speranza di vederlo, il Maestro; e di quando, al sommo di una breve scalinata nel vano di una porta a vetri, egli apparve: alto, diritto, bianco e nero (candidi i capelli e la barba, nero il vestito), maestoso come un Re, aureolato d’oro come un Santo. Dovrei ricordare anche la sua voce, poiché so che alcune parole egli disse a certi miei compagni che non erano distanti da me più di pochi passi, e udirla dunque potevo, e forse l’udii […]. Lui rivedo dinanzi ai miei occhi, nella luce dorata di quel tepido tramonto d’autunno, come se intorno non ci fosse nessun altro: e intorno silenzio. Se mai, come riflesso in un magico specchio, posso rivedere dinanzi a lui me stesso, me quasi senza respiro, immobile, col cappello in mano, gli occhi attoniti incantati. Non altro. Ma tanto basta, ancora oggi, per commuovermi; e mi pare, quello, uno dei momenti belli e alti che la sorte mi ha donato, e ricordarlo mi è sempre come sentire il pregio e la soavità di una di quelle grazie che ci aiutano a voler essere migliori” (I. Pizzetti, La grandezza di Verdi, in La musica italiana dell’Ottocento, Edizioni Palatine, Torino 1946, pp. 243-244.)
Con queste parole il compositore Ildebrando Pizzetti ricordò, in un suo saggio intitolato La grandezza di Verdi, pubblicato sulla rivista «La lettura» nel numero del mese di gennaio del 1941 e ripreso nel volume miscellaneo del 1946 La musica italiana dell’Ottocento, il suo unico incontro con Giuseppe Verdi avvenuto il 20 ottobre del 1900, 10 giorni dopo l’ottantasettesimo e ultimo compleanno del maestro di Busseto e pochi mesi prima della morte che lo avrebbe colto il 27 gennaio 1901 a Milano. In questo suo saggio Pizzetti, oltre a mostrare, a distanza di quarant’anni, la sua ammirazione nei confronti di un compositore la cui vasta produzione operistica in quel lungo lasso di tempo non solo non è stata avvolta dall’oblio come accaduto per altri compositori, ma resta viva, potente, grande, oggi come ieri, anzi più che mai (Ivi, p. 245), si interroga su una questione di capitale importanza: quali siano le ragioni della grandezza del genio di Busseto: Ma quale è dunque la grandezza di Verdi, in che cosa consiste e come può essere dimostrata? (ivi, p. 246).
A distanza di 200 anni dalla nascita del grande compositore di Busseto e ad oltre settanta da quando furono pronunciate queste parole, la domanda posta da Pizzetti appare di un’attualità sconvolgente, soprattutto se si considerano non solo le imponenti celebrazioni verdiane in occasione di questa importante ricorrenza anche in nazioni, come quelle asiatiche, non di grande tradizione operistica, ma anche la popolarità del genio di Busseto dimostrata dal fatto che non esiste un teatro al mondo nel quale non si rappresenti ogni anno almeno una sua opera. Oggi, come allora, rispondere a questa domanda non è per nulla semplice, in quanto essa riguarda l’essenza dell’opera verdiana e, quindi, la motivazione ad essa intrinseca che rende la sua musica così popolare e amata, anche se la risposta di Pizzetti, nonostante alcune incrostazioni dell’estetica crociana imperante nel periodo in cui il compositore di Parma scrisse, appare certamente valida. Con il suo solito metodo, nel quale a una pars destruens Pizzetti fa seguire una pars costruens, in un primo tempo il compositore, qui nelle vesti di musicologo, elenca le possibili risposte che possono essere date a questa sua domanda. Sembra, infatti, che per Pizzetti non si possa dare ad essa una risposta univoca sia da parte dei semplici melomani sia da parte di giornalisti esperti: “Ma se noi domandassimo a dieci persone prese a caso fra il popolo, contadini e operai, uomini o donne, perché esse amano la musica di Verdi, ci sentiremmo da ognuna di esse rispondere: perché mi commuove. La quale risposta è certo quella che può essere dall’artista più ambita e può essergli la più cara; ma essa è, appunto, una testimonianza di gratitudine e di amore, non è un giudizio” (Ivi, p. 247).
Per Pizzetti, quindi, anche il pubblico meno colto, a prescindere dal ceto sociale di appartenenza, intuisce la grandezza della musica verdiana, ma se gli si chiedesse perché ammira e ama le opere di Verdi, ci si sentirebbe rispondere che la musica del grande compositore è l’unica a suscitare forti emozioni. Ciò spiega perché vi siano persone che, nostalgici del Romanticismo, esaltano le opere più melodrammatiche, come Nabucco, Ernani, Trovatore, altri che, spinti da esigenze estetiche, esaltano il Falstaff ed altri ancora, soprattutto i musicologi, che considerano grandi capolavori le opere meno popolari come il Macbeth, la Luisa Miller, i Vespri siciliani, aggiungendo alla fine. Pizzetti non ritiene questi giudizi sufficienti a giustificare la grandezza di Verdi e non concorda nemmeno con le affermazioni di coloro che considerano grande il musicista di Busseto perché ha creato melodie di stupenda incisività e di maschia rudezza o con quelle di coloro che lo definiscono un costruttore. Ai primi ribatte che le melodie delle opere verdiane sono molto belle ma non possono essere considerate rudi e maschie, come è dimostrato da quelle di Violetta, di Gilda, di Aida, di Leonora che, sebbene appassionate, sono intrise di soavità e tenerezza. Inoltre la grandezza di Verdi non può farsi consistere nelle melodie perché esistono melodie ancora più belle e compiute tanto da poter essere cantate in concerto. Basti pensare a Ah non credea mirarti della Sonnambula, a Casta diva della Norma o a Selva opaca del Guglielmo Tell. Per quanto riguarda la definizione di costruttore, Pizzetti riconosce che Verdi ebbe una straordinaria capacità nel taglio scenico delle sue opere, ma non fu l’unico grande architetto della musica perché i suoi brani contrappuntistici, come la grande fuga finale della Messa e quella del Falstaff, pur essendo pregevoli, possono essere uguagliati o addirittura superati da pezzi contrappuntistici e fugati di compositori considerati meno famosi. Ancora Pizzetti non accetta l’ipotesi di coloro che attribuiscono alla grandezza di Verdi un significato nazionale pur riconoscendo il forte carattere italiano della sua musica accusata ingiustamente, nell’ultimo periodo, di wagnerismo per la modernità e stupenda ricchezza e raffinatezza di linguaggio che caratterizzano le sue ultime due opere Otello e Falstaff; non accetta nemmeno il giudizio su Verdi di Cantore del Risorgimento Italiano – il Maestro della rivoluzione perché, se Verdi nelle sue prime opere e soprattutto nei cori del Nabucco, dell’Ernani, dei Lombardi alla prima crociata e della Battaglia di Legnano manifestò il suo amor di patria che andò sempre più maturando e che consistette in: un amore spirituale e carnale insieme: amore della terra che ha dato a un uomo la sua materia e dà a lui e al popolo del quale egli è parte un proprio modo di sentire e di pensare; amore della nazione e della famiglia; amore della propria civiltà e delle glorie di essa – da porlo al sommo dei suoi affetti più puri (Ivi, p. 253), non ebbe, tuttavia “la intenzione e la volontà di dare al popolo italiano col Nabucco e coi Lombardi, con l’Ernani o con l’Attila, la musica della sua rivoluzione, la musica della sua santa guerra (Ibid.)”, ma diede molto di più. Egli fu, infatti, l’unico che diede agli uomini la coscienza di se stessi rivelandone la propria anima e diede anche il senso della Speranza, dell’Amore, del Dolore e la consapevolezza delle capacità insite nella natura umana. Per Pizzetti aveva colto nel segno D’Annunzio quando, scrivendo che Verdi: “congiunto – in terra avea con la virtù dei suoni – tutti gli spirti per la santa guerra. Egli trasse i suoi cori dall’imo gorgo dell’ansante folla. – diede una voce alle speranze e ai lutti. – pianse e pregò per tutti” (ivi, p. 254), mise in evidenza come il compositore di Busseto sia stato l’unico musicista a rivelare agli uomini la coscienza della loro forza e l’unico a dare una voce alle speranze e ai dolori. “Ora: se creatore di melodie potenti e bellissime e immortali Verdi fu ma non così da superare il merito di altri musicisti del suo tempo, i quali anzi, in quanto creatori di melodie, talvolta lo superano; se in quanto costruttore, contrappuntista, creatore di complessi organismi musicali, fu grande, si, ma non più di altri maestri che pur non ci verrebbe neppure in mente di metterli al fianco; se la schietta purissima italianità di spiriti e di forme di tutta la sua opera e il suo ardentissimo sentimento patrio son qualità e meriti che non a lui solo, fra gli artisti dell’Ottocento italiano, possono essere attribuiti e che, in ogni modo, non bastano ancora a dar ragione del senso che noi abbiamo della sua grandezza e del grande amore che portiamo alla sua opera; donde viene dunque che noi sentiamo essere Verdi uno dei più grandi geni che l’Italia abbia mai espresso, e il massimo genio del nostro grande Ottocento musicale?” (Ivi, p. 255)