Arena di Verona, Verona, Festival del Centenario dell’Arena di Verona
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Daniel Harding
Maestro del Coro Armando Tasso
Giuseppe Verdi, brani da: “La Forza del destino”, “Don Carlo”, “Macbeth”, “Nabucco”, “I Lombardi alla prima crociata”, “Simon Boccanegra”.
Richard Wagner, brani da : “Tannhäuser”, “Tristan und Isolde”, “Parsifal”, “Götterdämmerung”, “Die Walküre”.
Soprani Susanna Branchini, Evelyn Herlitzius, Violeta Urmana
Tenori Placido Domingo, Francesco Meli
Baritono Davit Babayants
Bassi Vitalij Kowaljow, Gianluca Breda
Verona, 15 agosto 2013
Con la seconda serata di Gala in programma per il Festival del centenario dell’Arena di Verona anche il tempio lirico scaligero rende infine omaggio al genio tedesco di Richard Wagner, con un programma che vede alternarsi estratti dalle opere della maturità di Giuseppe Verdi ad alcuni dei passi più significativi della vasta opera del padre del Wor-Ton-Drama. Impreziosiscono l’appuntamento (seppur non avvicinandosi nemmeno lontanamente al tutto esaurito) la bacchetta del giovane inglese Daniel Harding e la presenza sul palco del direttore artistico onorario del Festival Placido Domingo. Accanto a loro i solisti Violeta Urmana, Susanna Branchini, Francesco Meli, Evelyn Herlitzius e Vitalij Kowalijow hanno portato a termine le rispettive performance in modo piuttosto convincente.
Dal punto di vista organizzativo è risultata però piuttosto evidente la quasi totale assenza di prove: non poco tempo ci è voluto, durante le prime pagine verdiane, perché l’orchestra s’assestasse sul gesto di Harding e riuscisse a rispondere adeguatamente alle sue -talvolta personalissime- scelte musicali invece che rimanere in quella modalità di “pilota automatico” purtroppo comune ad una compagine orchestrale che più di ogni altra ha eseguito e rieseguito il repertorio verdiano. Nelle successive pagine wagneriane l’orchestra –di certo molto meno avvezza a questo repertorio- appare più concentrata e riesce progressivamente a trovare la compattezza necessaria a rendere in modo adeguato le pagine proposte. Daniel Harding dirige con grande carisma dimostrando una sempre costante attenzione ai dettagli dinamici della partitura, non priva di notevole sensibilità nel porgere in modo chiarissimo all’orecchio dello spettatore le differenti attitudini al lirismo dei due “festeggiati bicentenari”. Il suo Verdi, talvolta poco tradizionale ma sempre cristallino nell’esposizione delle linee melodiche, brilla di freschezza nuova e convince il pubblico areniano. Il giovane pupillo di Claudio Abbado non tradisce dunque la sua fama e si mostra inoltre sempre scrupoloso e attento alle esigenze del canto, entrando con i solisti in quella comunione di respiro -di kleiberiana memoria- che contraddistingue i grandi interpreti. Prova complessivamente buona del coro che, nonostante qualche imprecisione negli attacchi, convince e riceve pieno consenso del pubblico al termine dei tre interventi.
Violeta Urmana, prima solista a salire sul palco, offre spunti di raffinatezza nei panni di Eboli come nei panni di Isolde e di Sieglinde. Vocalità di proporzioni generalmente non imponenti, in “O Don Fatale” sfodera una voce di bella intensità capace di acuti incisivi e di una buona capacità di fraseggio; l’emissione rimane molto morbida e controllata, la dizione chiara e intellegibile. Nel Liebestod di Isolde accusa qualche segno di stanchezza e insicurezza nella gestione del volume ma con eleganza ed esperienza risolve il ruolo in modo più che adeguato. Al suo ultimo intervento, “Der Männer Sippe” da Die Walküre, la Urmana ritrova l’iniziale vocalità brillante e pastosa e rende un’interpretazione intensa e partecipata che viene salutata dai calorosi applausi del pubblico.
Susanna Branchini, dotata di una vocalità considerevole e confacente agli spazi dell’anfiteatro, restituisce un’interpretazione di “Tu che le vanità” che –sebbene abbastanza precisa sul piano dell’intonazione e del fraseggio- non convince in toto a causa di un’emissione troppo spesso forzata che impedisce una resa efficace del carattere intimistico della pagina.
Evelyn Herlitzius regala all’uditorio due pagine wagneriane di grande intensità. In “Allmächt’ge Jungfrau” canta con la convinzione e l’intensità di chi è sicuro e cosciente dei propri mezzi vocali: l’emissione è sicura così come disinvolte le salite in acuto. La bravura della Herlitzius è risaltata ancor più per la sua capacità di mantenere alta la tensione drammatica, nel rendere in modo struggente la rassegnata disperazione del suo personaggio prossimo a sacrificarsi per la redenzione dell’amato Tannhäuser. Ancora con maggior tempra e trasporto interpreta “Starke Scheite schichtet mir dort”: l’immedesimazione nel personaggio di Brünhilde è totale ed ottima è l’intesa con Harding. Piccole defaillance a causa della stanchezza nel finale sono ampiamente perdonate da un pubblico che premia il grande carisma di quest’interprete con molti e calorosi applausi.
Buona prova anche per Francesco Meli: il tenore genovese colpisce per la morbidezza dell’emissione in relazione all’ottima proiezione della voce, per la facilità nelle salite in acuto e per la grande eleganza conferita al suo Macduff impegnato in “Ah, la paterna mano”. La seconda parte del concerto vede Meli alle prese con la più complessa “Sento avvampar nell’anima” dal Simon Boccanegra, in cui conferma le sue qualità di tenore verdiano. Il fraseggio chiaro e disinvolto, la voce calda e intensa su tutta la gamma, il timbro sempre squillante e la grande partecipazione emotiva tratteggiano un Gabriele Adorno energico e molto convincente. Applausi e ovazioni di pubblico per il tenore.
Non è da meno il basso Vitalij Kowalijow che interpreta con eleganza la pagina “Leb wohl” in conclusione a Die Walküre. Il timbro è ruvido ma non privo di un certo calore, il piglio austero ma coinvolto nell’addio a Brünhilde, la linea di canto elegante e fraseggiata propriamente.
Prima di accostarsi alla performance di Placido Domingo sono opportune alcune precisazioni. Sebbene le scelte di repertorio del tenore spagnolo possano essere opinabili nonché irrinunciabile oggetto di infinite speculazioni nel buon tempo dei critici e melomani più agguerriti, non bisogna dimenticare –se nell’approccio critico si ha il buon senso di voler adottare un’ottica costruttiva- che Domingo è e rimane un tenore; un tenore che in un preciso momento della sua carriera decide di approfondire le proprie inflessioni baritonali ma che un baritono non è e non vuol essere. Il colore vocale non ha perso e non rinuncia a quella brillantezza prettamente tenorile anche nell’accostarsi al repertorio baritonale. A questo punto divengono forse ancora più inutili le discettazioni su quanto sia lecita la sua operazione: più interessante è forse indagarne gli esiti. Domingo, in questa nuova veste, non fa che confermarsi musicista a tutto tondo e innamorato della musica a tal punto da mettersi nuovamente in gioco anche se giunto all’apice di una carriera ai massimi livelli, mantenendo intatta quella capacità di cesellatura nei colori e nel fraseggio che l’hanno reso uno dei supremi interpreti del repertorio tenorile. Il maestro ha cantato le due brevi pagine wagneriane che ha scelto di riservarsi come solista con l’intensità di chi, a maggior ragione perché a fine carriera, realizza che in quel canto è condensata un’intera vita e che a quello stesso canto è ancorata la propria identità. Toccante (e forse non in tonalità originale?) il “Winterstürme” da Die Walküre e altrettanto carico di trasporto il “Nur eine Waffe taugt” dal Parisfal: cantanti senza risparmiarsi un istante e con una proiezione vocale non inferiore a quella del tenore Meli nonostante i quarant’anni di differenza.
Chiudono la serata le pregiate pagine tratte ancora una volta dal Simon Boccanegra “Plebe! Patrizi! Popolo dalla feroce storia” e “M’ardon le tempia…” in cui Domingo ancora senza risparmiarsi risolve il ruolo del titolo in modo preciso, vivido e vibrante, accompagnato con puntualità e altrettanta precisione da Branchini, Meli, Kowalijow (e dagli appropriati Davit Babayants e Gianluca Breda): il risultato di indiscutibile qualità passa certamente anche attraverso l’ottima concertazione di Harding.
Siparietto finale con “Vedi le fosche notturne spoglie” attaccato dal giovane direttore, che si vede poi sottrarre la bacchetta da Domingo e decide quindi di rifarsi rubando a sua volta il posto a un professore d’orchestra tra le fila delle viole. Pubblico in estasi saluta gli artisti con dieci minuti di calorosissimi applausi. Foto Ennevi per Fondazione Arena