Verona, Arena, Festival del Centenario
“MESSA DA REQUIEM”
per soli, coro e orchestra
Musica di Giuseppe Verdi
Orchestre e Cori dell’Arena di Verona e della Fenice di Venezia
Direttore Myung-Whun Chung
Maestri dei Cori Armando Tasso, Claudio Marino Moretti
Soprano Hui He
Mezzosoprano Daniela Barcellona
Tenore Fabio Sartori
Basso Vitalij Kowaljow
Scene Igor Mitoraj
Luci Paolo Mazzon
Verona, 13 luglio 2013
Massimo Mila ha acutamente definito il Requiem verdiano un “dramma, realistico e crudele, della morte”. Perché in fondo di un’opera finale si tratta, con una liturgia cattolica funebre in musica che diventa una sorta di azione scenica sacra con un protagonista, l’uomo, e un antagonista, la morte. Entrambi destinati ad un inesorabile e rassegnato annullamento finale l’uno nell’altra senza lotte esasperate (se non nel “Dies Irae”), tra accenni di consolazione e speranza e una buona dose di pessimismo e nichilismo. Quindi la summa del pensiero di un compositore giunto all’apice della propria maturità artistica – siamo poco dopo l’Aida, nel 1874 – che qui consegna probabilmente le sue pagine musicali più alte (assieme, più tardi, agli straordinari Quattro Pezzi Sacri).
Questo melodramma dell’uomo e per l’uomo in Arena l’altra sera si è confrontato con le scene di Igor Mitoraj. L’artista polacco ha disposto due grandi teste bronzee rovesciate sul palco ai lati dell’orchestra, mentre ha messo ben in risalto al centro della gradinata retrostante un busto muscoloso su cui era letteralmente scavata una croce. Nel complesso una cornice piuttosto tetra (ma poteva essere diversamente?) e ai limiti del kitsch, che se da un lato ha lasciato ammirare la visionaria cifra poetica di Mitoraj, con la sua umanità velata e smembrata affiorante da una classicità spezzata, frammentaria, dolorosa, dall’altro è sembrata fondersi solo parzialmente con la musica di Verdi, già da sola capace di dialogare con lo spazio spoglio e vuoto dei gradoni, esaltati da proiezioni di luci che davano tocchi di suggestivo cromatismo – sotto la responsabilità tecnica e creativa di Paolo Mazzon.
Il capolavoro verdiano mancava dal 2001 dall’anfiteatro veronese e questa volta vedeva riunite le compagini corali e orchestrali dell’Arena e del Teatro La Fenice sotto la bacchetta di Myung-Whun Chung. Il maestro coreano, per la prima volta sul podio areniano, ha offerto un’interpretazione eccellente, dirigendo con gesto essenziale ma sempre con piglio fermo e sicuro, restituendo una lettura ora cupa e dolente ora intensa e trasparente, ma sempre mobile e plastica nei contrasti, tra scatti brucianti e ripiegamenti elegiaci. Chung ha saputo ottenere limpidezza di suono dall’orchestra mantenendo una pregevole chiarezza del discorso musicale, scavato, esaltato o messo a nudo, così da lasciar trasparire la semplicità talora spoglia della melodia verdiana, volta ad una rimeditazione della tradizione polifonica italiana ma al contempo proiettata agli ulteriori e prodigiosi esiti futuri. Determinante, naturalmente, l’apporto delle Orchestre dell’Arena e del Teatro la Fenice, attente e precise in tutte le sezioni, dagli gli archi pieni e pastosi eppure capaci di sfumare nei più impercettibili tremolii, ai legni, puliti e incisivi nelle scale precipitose esplodenti nei fortissimi così come ben in evidenza nelle oasi liriche, fino alla inappuntabili percussioni e alla corposità degli ottoni, poderosi nelle ascese cromatiche come efficaci e “teatrali” nel rispondersi a gruppi fuori e dentro l’orchestra nel “Tuba mirum”.
Sempre molto attesa – e non può essere altrimenti – la prova del Coro, qui al massimo dell’impegno, che ha impressionato per unità, compattezza e vibrante forza espressiva, tanto nel sillabato, correttamente mormorato sottovoce, quanto nelle accensioni apocalittiche dell’insidioso “Dies Irae” così come nello straordinario fugato del “Sanctus”. Tra i solisti è sembrata Daniela Barcellona la voce più in forma della serata, come fu anche nel Requiem del 2001. Da allora ha ulteriormente approfondito e maturato il rapporto con Verdi anche in teatro, ma è soprattutto in questa Messa che la sua vocalità può esprimersi al meglio, e prova se ne è avuta anche in questa interpretazione, intensa e dalla sopraffine resa stilistica – piccolo capolavoro il “Liber scriptus, scandito e scolpito con inesorabile incedere emotivo. Il soprano Hui He è apparso spesso in difficoltà, faticando nel trovare smalto e sicurezza e con più di qualche problema nell’intonazione, pur ottenendo apprezzabile musicalità e buona padronanza nel fraseggio. Fabio Sartori si è imposto con autorevolezza nelle parti d’assieme, fornendo nel complesso una prova convincente e nello specifico considerevole nell’ottenere sfumature liriche, mezzevoci e pianissimi nell’”Ingemisco”. Il basso Vitalij Kowaljow non è riuscito a infondere rotondità di suono alla sua corposa ma duttile voce di basso, rimasta piuttosto spenta e opaca nel colore e spesso sovrastata dall’orchestra. Molti vuoti specie tra le gradinate e al termine applausi calorosi ma frettolosi per l’arrivo di qualche goccia di pioggia, dopo una serata piuttosto tormentata per l’imperversare di lampi vicini e lontani, che non hanno comunque distolto la concentrazione di un pubblico rimasto attento fino alla fine. Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona