Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2013: “l’Ambizione delusa” di Leonardo Leo

Martina Franca, XXXIX Festival della Valle d’Itria, Matera, Chiostro Le Monacelle
“L’AMBIZIONE DELUSA”
Commedia pastorale in tre atti, libretto di Domenico Canicà.
Musica di Leonardo Leo
Edizione a cura di Luisa Cosi, dal manoscritto autografo. Prima esecuzione in tempi moderni. Progetto dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti”
Ciaccone GIAMPIERO CICINO
Foresto CANDIDA GUIDA
Delfina FILOMENA DIODATI
Laurina ALESSIA MARTINA
Lupino  RICCARDO GAGLIARDI
Silvio FEDERICA CARNEVALE
Cintia CAROLINA LIPPO
Orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto
Direttore Antonio Greco
Regia Caterina Panti Liberovici
Scene Sergio Mariotti
Costumi Caterina Botticelli
Disegno luci Giuseppe Calabrò
Martina Franca, 22 luglio 2013
La riscoperta dell’operismo settecentesco si staglia tra i meriti del Festival della Valle d’Itria che a partire dalle edizioni degli esordi ha recuperato all’ascolto i lavori più significativi di quella tradizione ‘napoletana’ ancora sepolta e misconosciuta fino a due decenni fa. In tempi recenti alcuni titoli settecenteschi sono stati scelti come palestra formativa per i giovani cantanti dell’Accademia del Belcanto «Rodolfo Celletti» e la loro esecuzione si è spostata dal cortile del palazzo ducale di Martina Franca al chiostro di San Domenico o ad altre sedi parimenti suggestive (il chiostro delle Monacelle di Matera, nel caso dell’opera qui recensita). Siffatta declinazione ‘reservata’ ha di certo giovato all’acustica – anche se nel chiostro martinese, per ragioni legate alle superfici riflettenti, i suoni dei due corni si percepiscono in modo differente l’uno dall’altro – e, in fondo, ha corroborato la convinzione di chi reputa tale repertorio, astratto e stilizzato, più elitario rispetto ad altri e perciò da gustare in ambienti acconci. A farne le spese è stata tuttavia l’azione scenica – nell’opera di Leo d’importanza paritaria alla componente canora – compressa in uno spazio ristretto che ha solleticato, giocoforza, la fantasia del regista, chiamato a trovare soluzioni possibili per inverare il dinamismo intrinseco al libretto e alla partitura. Caterina Panti Liberovici è riuscita a restituire appieno la verve della commedia grazie a un intelligente uso di oggetti simbolici (palloncini, frecce, origami, girandole) e di gesti rarefatti, sfruttando al meglio (anche ‘in verticale’, visto l’utilizzo del secondo piano del chiostro) lo spazio a sua disposizione. Essenziali ma efficaci i costumi di Caterina Botticelli che, in analogia alle scelte registiche, codificavano lo status dei personaggi attraverso singoli dettagli con funzione connotativa: una collarina servile in contrasto con abiti lussuosi per la cameriera, un soprabito troppo lungo per il parvenu, uno stivale cavalleresco per il ‘nobile’ (d’animo) pastore. Ottima la risposta attoriale del giovane (e avvenente) cast, sicuro nella gestione della propria corporeità ma mai invadente, né troppo esuberante. La stessa misura sul fronte canoro per alcuni mancava, per altri era già conquista da esibire. Riccardo Gagliardi è tenore leggerissimo con timbro ancora in formazione e con difetti d’intonazione da risolvere ma nell’ultimo triennio ha saputo ritagliarsi con lucidità un repertorio che presto padroneggerà appieno. Molto scura e a volte povera di volume la voce del contralto Candida Guida cui non giovano gli spazi aperti, inadatti a restituire pregevoli finezze d’emissione che si sono perse. Di bel timbro la voce baritonale di Giampiero Cicino, non proprio a suo agio col dialetto napoletano prescritto dalla sua parte, solo piacevole quella (a tratti un poco nasale) del mezzosoprano Alessia Martino. Ottima la prova della protagonista femminile, l’ambiziosa Cintia, interpretata da Carolina Lippo, come pure quella del soprano Filomena Diodati e del contralto en travesti Federica Carnevale. Le tre giovani cantanti oltre a sciogliere i problemi legati all’emissione, proiezione e passaggi di registro, sono state in grado di dare corpo sonoro ai personaggi con notevole profondità interpretativa, in particolare la Carnevale che nella voce ricordava il colore di Sara Mingardo e nella gestualità ricreava l’intensità espressiva di Monica Bacelli.
In sintesi, fa davvero piacere constatare come questi laboratori estivi, nell’offrire a giovanissimi cantanti un importante banco di prova, permettano al pubblico di riscoprire capolavori sommersi che hanno segnato la storia dell’Opera e che per essere riportati in vita necessitano d’un serio apporto musicologico. Assai complesso infatti è stato il lavoro che Luisa Cosi, a capo del dipartimento di musica antica del Conservatorio di Lecce, ha condotto sulla partitura autografa conservata alla Nazionale di Parigi, una fonte piuttosto tormentata che ha richiesto un dialogo tra la storica della musica (qui autrice di un ottimo saggio nel libro di sala) e il direttore d’orchestra Antonio Greco, pienamente consapevole della spinosità di problemi legati al fraseggio e alla dinamica. Il ridotto ensemble dell’orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto ha risposto con precisione e al tempo stesso con coinvolgimento emotivo, agli stimoli interpretativi di Antonio Greco che ha restituito tutta la ricchezza semantica dell’orchestrazione di Leo. Certo è che gioielli compositivi come questo di Leo andrebbero eseguiti su strumenti antichi al fine di coglierne appieno tutti i ‘colori’ e il fatto che non si sia riusciti a coinvolgere uno dei tanti gruppi di musica antica oggi attivi in Italia è una pecca piuttosto evidente.
Nella serata materana – organizzata in collaborazione col Festival Duni e suggestiva per la scelta del luogo, tra i più incantevoli dei Sassi – è stata proposta una stringata riduzione dell’opera (dieci numeri cantati in circa un’ora, contro i ventisei della versione integrale che, con i recitativi, supera le tre ore di durata) che ha selezionato i brani a più alto tasso di drammaticità, quasi a voler dimostrare la prossimità della commedia di Leo alle atmosfere dei coevi titoli seri e a sfatare così quella rigida separazione che per comodità tassonomica molta critica ha voluto fissare tra i due generi del melodramma settecentesco. Foto Lab.Fotografia © Fondazione Paolo Grassi