München, Bayerische Staatsoper, Münchner Opernfestspiele 2013
“DIE WALKÜRE” (La Valchiria)
Prima giornata della sagra scenica Der Ring des Nibelungen, in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner
Siegmund SIMON O’NEILL
Hunding HANS-PETER KÖNIG
Wotan BRYN TERFEL
Sieglinde PETRA LANG
Brünnhilde KATARINA DALAYMAN
Fricka SOPHIE KOCH
Helmwige SUSAN FOSTER
Gerhilde KAREN FOSTER
Ortlinde GOLDA SCHULTZ
Waltraute HEIKE GRÖTZINGER
Grimgerde OKKA VON DER DAMERAU
Siegrune ROSWITHA C. MÜLLER
Roßweiße ALEXANDRA PETERSAMER
Schwertleite ANJA JUNG
Bayerisches Staatsorchester
Statisterie der Bayerischen Staatsoper
Direttore Kent Nagano
Regia Andreas Kriegenburg
Scene Harald B. Thor
Costumi Andrea Schraad
Luci Stefan Bolliger
Coreografia Zenta Haerter
Monaco, 14 luglio 2013
Delle quattro opere che compongono la tetralogia, Die Walküre è notoriamente la più apprezzata dal pubblico italiano, secondo una tradizione più che centenaria. Accanto a svariate considerazioni relative a circostanze e specificità di ricezione, non è fuori luogo ipotizzare che uno dei motivi della fortuna dell’opera nel Bel Paese sia il serpeggiare di una poetica delle piccole cose di matrice pucciniana, una drammaturgia fatta di intensi sguardi, di gesti brevi, di intimità nascoste, del ‘non detto’. Il momento in cui ciò avviene è il primo atto dell’opera, l’incontro fra Siegmund e Sieglinde che va identificato come lo snodo più importante dell’intero ciclo. In questo atto, come nel resto del dramma, il dettaglio deve avere la meglio rispetto alla monumentalità di insieme, all’imponenza sonora travolgente e impetuosa, che pure non manca in Die Walküre. Detto questo, fa piacere osservare come Kent Nagano – che ci aveva lasciato alla fine di Das Rheingold con una visione di gigantismo orchestrale da togliere il fiato – nella prima giornata abbia innanzitutto rimodulato la sua conduzione all’insegna di un lirismo struggente, di una morbidezza di tocco che trovava piena rispondenza nella sezione degli archi, sempre protesi verso l’ascoltatore, o nei fiati, misurati con perfetto equilibrio. Di conseguenza sul palcoscenico i due innamorati si lasciavano trascinare dal supporto ondeggiante e avvolgente dell’orchestra, senza che ne venissero mai invasi: un discorso melodico messo a fuoco nella giusta maniera, adagiato su tempi sì rilassati, ma non per questo tediosi o penalizzanti.
Movimentando con pari intelligenza l’architettura scenica, Andreas Kriegenburg e Harald B. Thor hanno costruito la battaglia di Siegmund sullo sfondo di una sconfinata foresta, seguita dal subitaneo abbassamento di un piano sopraelevato e dall’apparizione della casa di Hunding. Un teatro desolatamente bellico: al centro il frassino ferito, non tanto per la spada che in esso è conficcata, ma per i corpi inerti che penzolano dai suoi rami. Siegmund e Sieglinde non osano avvicinarsi, né toccarsi: la loro interazione è mediata e ammorbidita da uno stuolo di candide fanciulle, animate da profonda pietas, sia nei confronti dell’infelice Wehwalt, sia verso i soldati morti (o quasi) che giacciono su letti e barelle, nello sfondo. Si tratta, dunque, di un vero e proprio ospedale da campo con al centro una lunga tavola, drappeggiata da tessuti pesanti e arabescati, di lì a poco fattore distanziante e invalicabile fra i due nemici. Insomma, un pot-pourri di elementi eterogenei e disparati, che apparentemente hanno ben poco a che fare l’uno con l’altro, ma che tutto sommato riescono a funzionare nel significato drammaturgico che il regista intende affidargli. Kriegenburg, infatti, mira innanzitutto a creare un’atmosfera intrisa di tenerezza e di sofferenza, alla quale i due fratelli/amanti aderiscono con risultati alterni: Simon O’Neill è un Siegmund pulito e convincente nelle doti di interprete, dal fraseggio articolato e abbastanza sicuro nell’intonazione, ma distante dall’idea di Heldentenor che è possibile farsi ascoltando le prove di altri cantanti nello stesso ruolo; Petra Lang come Sieglinde è certamente brava nel rendere le palpitazioni del personaggio (soprattutto nell’invocazione alla primavera, “Du bist der Lenz”), ma il suo canto è eccessivamente scoperto, per nulla appoggiato negli acuti e disomogeneo in numerosi punti. Quello che la linea canora dovrebbe unire e che registicamente risulta separato subisce, dunque, una separazione ancora più netta, alla quale offre il colpo di grazia Hans-Peter König (Hunding), voce tonante e presenza ancor più minacciosa (la sua ombra compare per prima, sul fondo, non appena entra in scena), esemplificata da una violenza di gesti di cui fa le spese un’innocente anguria.
La suggestione del primo atto è prevalentemente dovuta al gioco di ombre creato da Stefan Bolliger e all’idea di coinvolgere le comparse per illuminare con piccoli fari i momenti più significativi della partitura – l’innamoramento incestuoso dei due fratelli, la preparazione del sonnifero, la rivelazione della spada ad opera di Wotan – sviluppandosi in perfetta sintonia con la musica. Ribaltamento necessario quello che si verifica nel secondo atto, ambientato in un primo momento nel Walhalla, qui concepito come una dimora elegante e fredda, sulla parete un dipinto raffigurante una natura tetra e ombrosa (dagli stilemi tipicamente Romantik), sotto di esso la lancia appesa e sullo sfondo la scrivania di Wotan, attorniata da ossequiosi servitori in livrea. Nel suo impervio esordio Katarina Dalayman (Brünnhilde) combina più di un pasticcio, emettendo acuti striduli e sfocati, ai quali il pubblico sembra essere quasi rassegnato. Durante il dialogo con Siegmund, la cantante riesce a recuperare un certo spessore nella zona intermedia, pur mancando di quelle doti di soprano drammatico che si richiedono al personaggio. La scena riesce in ogni caso a calamitare l’attenzione grazie all’effetto di apertura orizzontale, determinato dall’estrema essenzialità degli elementi in gioco: sfondo blu, piano di profondità, corpi confusi ammucchiati per terra, luci puntate sui tre protagonisti. La scena finale si distingue pure per originalità ed essenzialità: il confronto fra Hunding e Siegmund viene spostato in lontananza e anche questo si configura inizialmente come un combattimento fra ombre. Di conseguenza la nostra attenzione è tutta focalizzata sullo strazio di Sieglinde, che culmina nelle grida disperate emesse alla morte dell’amante. Un atto interamente costruito sull’opposizione tra figure dalla volontà ferrea e monumentale, come lo è Siegmund di fronte a Brünnhilde, o ancora Brünnhilde di fronte a Wotan. Nessuno soccombe realmente, anche quando perde la vita o la propria condizione di immortalità. Paradossalmente l’unico sconfitto, colui che rimane irrimediabilmente invischiato nelle proprie contraddizioni, è Wotan, detentore di un potere che non riesce mai ad esercitare a proprio vantaggio. Difficilissimo rendere un personaggio tanto complesso: Bryn Terfel ci riesce in modo magistrale. Tormentato e schiacciato (anche concretamente) dalla gabbia che egli stesso si è costruito, Terfel esibisce un declamato scultoreo e avvincente, che rimane tale in tutti i momenti del dramma. Nonostante questo Sophie Koch (Fricka) gli tiene testa in modo imperioso, sfoderando qualità vocali insperate, mentre il gallese restituisce colpo su colpo. Sentendo cantare Terfel viene naturale pensare: è così che deve essere.
Nel terzo atto la direzione di Nagano diventa ancor più infuocata nei momenti dinamici, riuscendo però a placarsi e ammorbidirsi durante la terza scena, nel momento in cui va a ritrarre l’ultimo abbraccio che un padre, annientato dal dolore, rivolge alla propria figlia. Purtroppo ogni cesto di frutta ha la sua mela marcia, e questa Walküre – che pure si distingue per una veste musicale di alto livello, con vette vocali e interpretative (vedi Bryn Terfel), e per una regia ben condotta – collassa nel suo momento più famoso, la celeberrima Cavalcata. Qui Kriegenburg ha la “splendida” idea di inserire, prima dell’atto, un’azione coreografica di donne imbizzarrite e scalpitanti, in vesti argentate e stivaletti, allusive agli smaniosi destrieri delle vergini guerriere. Le contestazioni del pubblico non tardano a farsi sentire, forse non tanto per l’idea in sé, quanto per l’incomprensibile (ed eccessiva) durata, mescolandosi agli applausi di un’altra parte della sala. Personalmente non apprezziamo né idea, né durata, ed è una tortura che la conformazione della platea del Nationaltheater non consenta una fuga strategica e salvifica. Probabilmente sarebbe stato meglio spostare tutto quanto alla scena vera e propria, rendendo l’azione meno rumorosa e soppiantando quella ridicola farsa delle redini nella quale è difficile ravvisare una qualsiasi forma di raziocinio (sia sul piano drammaturgico, per la fissità della scena, sia su quello sonoro, per il fastidio dei colpi). Purtroppo anche le interpreti femminili hanno incontrato qualche difficoltà nell’accordarsi vocalmente, così come nelle parti a solo, ad eccezione del buon attacco di Karen Foster, interprete di Gerhilde, della ripresa di Susan Foster nel ruolo di Helmwige e di Okka von der Damerau, Ondina in Das Rheingold, Grimgerde in questa prima giornata. L’opera si chiude con il consueto dilemma della realizzazione dell’incantesimo del fuoco, sospeso fra tradizione – la proiezione di fiamme sulle quinte – e timida novità: ricompare, infatti, il serpente infuocato che nel Prologo rappresentava una delle trasformazioni di Alberich. Questo elemento costituisce, di fatto, l’unico legame con la precedente opera, gettando un’ulteriore ombra di inquietudine: Loge, figura che nel Prologo era stata presentata in modo ambiguo (è lui a nascondere un pugnale nel proprio bastone, ed è ancora lui a porgerlo a Fafner per giustiziare il fratello), in qualche modo ruba idea e identità ad Alberich. Ma in definitiva è proprio quest’ultimo che avvolge nelle sue spire il sonno di Brünnhilde, rammentando in modo indiretto una presenza che si è dissipata solo in apparenza e che tornerà, tremenda e minacciosa, nelle successive due giornate. Foto Wilfried Hösl © Bayersiche Staatsoper