Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“DER RING DES NIBELUNGEN”
Sagra scenica in tre giornate e una vigilia
Libretto e Musica di Richard Wagner
3. “SIEGFRIED”
Seconda giornata, in tre atti
Siegfried LANCE RYAN
Mime PETER BRONDER
Der Wanderer TERJE STENSVOLD
Alberich JOHANNES MARTIN KRÄNZLE
Fafner ALEXANDER TSYMBALYUK
Erda ANNA LARSSON
Brünnhilde IRÉNE THEORIN
Stimme des Waldvogels MARI ERIKSMOEN
Danzatori della compagnia di balletto Eastman (Antwerpen)
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Regia e scene Guy Cassiers
Scene e luci Enrico Bagnoli
Costumi Tim Van Steenbergen
Video Arjen Klerkx, Kurt d’Haeseleer
Coreografia Sidi Larbi Cherkaoui
In coproduzione con Staatsoper Unter den Linden, Berlino
In collaborazione con Toneelhuis (Antwerpen)
Milano, 27 giugno 2013
Il tempo della fiaba
Siegfried è opera molto difficile per il direttore d’orchestra che voglia offrire una lettura coerente all’interno del Ring, perché obbliga a conciliare gli avvenimenti eroici tipici della fiaba (il “conseguimento del mezzo magico”, l’uccisione del drago, il superamento del fuoco, la liberazione della “principessa dormiente”) con tutta la vicenda epica e cosmica che precede e che segue. In più, lo stile compositivo wagneriano giunge con la Seconda Giornata al superamento di un valico, collocabile nello specifico tra II e III atto; il lavoro alla Tetralogia fu infatti interrotto per dodici anni, tra 1857 e 1869, perché Wagner si dedicò alla scrittura di Tristan und Isolde e dei Meistersinger von Nürnberg (e l’attacco del III atto di Siegfried sintetizza mirabilmente le nuove conquiste strumentali e armoniche degli anni precedenti).
Come se quanto ricordato non bastasse, Siegfried contiene un’altra particolarità strumentale, poiché la sua musica è decisamente più materica e concreta di quella delle altre giornate: il giovane Siegfried comincia a fare esperienza del mondo a partire dai suoni, che egli stesso forgia grazie a diversi “strumenti”; prima il martello che batte sull’incudine (emulo di Mime, la cui ritmata percussione di fucina apre l’opera), poi lo zufolo scordato che emette soltanto stonature, e infine il corno squillante da cui l’eroe non si separa più. È lo stesso Siegfried a suonare tali strumenti, nella finzione teatrale, durante lo svolgersi degli eventi (il che ha tutt’altro valore drammaturgico-musicale rispetto alla batteria di incudini nibelungiche che risuonava anche in Rheingold, ma da dietro la scena).
In tale eterogeneità di contenuti e di strutture Barenboim si districa con molta coerenza; anzi, forse proprio con il Siegfried riesce a profilare chiaramente la sua concezione interpretativa dell’intero Ring. Sin dall’attacco, molto ponderato nei tempi sempre più rilassati, egli valorizza tutti quei “temi nibelungici” che costituiscono il movente narrativo della saga (e rimandano a quella “fedeltà nel profondo” – «Traulich und treu / ist’s nur in der Tiefe» – vagheggiata dalle figlie del Reno nel finale del Rheingold). Nerbo della direzione di Barenboim non sono i motivi eroici, legati all’esaltazione della forza, ma gli effetti autenticamente drammatici, come il brivido ottenuto dagli archi quando Mime riprende a parlare dopo che il Wanderer ha pronunciato il nome di Wotan, al culmine del duetto centrale del I atto; altro accorgimento drammatico di grande efficacia è nella scena della forgia, perché il direttore imprime ai tempi un’accelerazione inattesa (in particolare nel tema del fuoco), per poi dilatare nuovamente il tempo prima del finale. Anche nel II atto il punto più alto della drammaticità non è tanto nell’uccisione del drago, ma nel duetto di Mime e Alberich: una sorta di “priorità nibelungica” che è tra i caratteri meglio riconoscibili del Ring di Barenboim, perché si tratta della parodia di chi lotta per il potere (o addirittura della parodia del potere tout court). Il direttore insiste molto più sull’origine sotterranea – e perciò non conoscibile – dell’azione, che sulla reazione delle divinità del cielo (in altre parole, importano assai più l’errore e il fatto doloroso rispetto alla volontà impositiva o all’aspirazione eroica). Soprattutto non c’è solennità, neppure quando Siegfried ascolta la narrazione del drago morente, in quanto è già stato presentato l’epilogo tragico dell’intera saga. Il vero trionfo è nel III atto, perché finalmente la vicenda approda all’amore, e risolve quella negazione dell’amore attuata dal nibelungo e poi dai giganti, trasformatasi in negazione dell’esistenza medesima; ecco perché Barenboim supera se stesso nel prodigioso dialogo strumentale che apre il III atto: i temi raggiungono il grado massimo di intreccio e dinamismo armonico, ma il destino corre a precipizio per tenere il passo dello scalpitante Siegfried. Mentre tutto il sistema cosmico si avvia alla rovina (lo certificano le parole di Erda e dello stesso Wotan nella prima scena del III atto) l’esuberanza e la tensione dell’uomo verso la conoscenza creano ancora un’aspettativa di speranza: è in nuce la redenzione d’amore che chiuderà tutto quanto il Ring.
Eroi che uccidono draghi
Il I atto di Siegfried si apre su una scena coperta di rialzi metallici quadrangolari e superfici a griglia di diversa altezza, con spuntoni e speroni in più punti: è la capanna/caverna dove vivono Mime e l’eroe, ma è anche la fucina in cui il nibelungo tenta invano di assemblare i frammenti di Nothung. L’accorgimento teatrale più macchinoso dell’intero allestimento si manifesta in questo atto: dopo che il Wanderer ha disquisito degli dèi del cielo e ha nominato Wotan, producendo conseguenze straordinarie nell’orchestra e spaventando il malaccorto Mime, tutta la superficie orizzontale inizia a piegare verso l’alto, incardinandosi sul lato della platea: a rotazione di 90° avvenuta, il piano di partenza è diventato la parete di fondo della fucina, con scala praticabile e soppalco ove il fabbro forgia il metallo. Tra le griglie di ferro sono innestate molte luci al neon, che rispondono ai colpi di martello di Siegfried e si illuminano istantaneamente per simulare le faville: è un momento di grande effetto, soprattutto se si considera che le griglie lasciano intravvedere schermi video con immagini di distruzione (la guerra del Golfo del 1990) e che Siegfried veste in stile heavy metal, inguainato com’è in pantaloni attillati, stivali e giacca (tutto in pelle nera) con tanto di catena. Cassiers immagina dunque che Siegfried rappresenti un giovane di oggi, alla ricerca di un’identità precisa, dipendente dalla moda e dal costume, disorientato e bisognoso di valori che non ritrova da nessuna parte. «La continua confusione fra organico (natura) e meccanico (tecnologia) è sul piano narrativo uno dei fili rossi di questa messinscena del Ring», scrive Erwin Jans nel saggio del programma di sala (Into the Twilight Zone). Il II atto è una meravigliosa foresta, i cui tronchi d’albero sono realizzati da colonne di fibra ottica, pronte ad assumere tinte differenti a seconda dei valori semantici suggeriti dall’intreccio musicale. Ma, a ben guardare, non si tratta di rappresentazione rassicurante: «La foresta come una raccolta di immagini digitali proiettate significa anche che l’idea di una natura pura è un’illusione romantica», scrive Erwin Jans nel saggio del programma di sala (scenografia lineare e perfetta, comunque, in cui si muove, oltre agli altri personaggi, il drago Fafner: un telone di stoffa nera e leggerissima sorretto e gonfiato dai danzatori ne simula la mole; quando l’eroe lo trafigge il velo cade a terra, e Fafner torna ad assumere la fisionomia umana, come in Rheingold). La scena del III atto è vuota nella prima parte, e poi occupata dallo sperone di roccia su cui dorme la valchiria; ma il rialzo è funzionale all’imporsi dall’alto di Siegfried e Brünnhilde, e soprattutto a mostrare il costume fiabesco, dallo strascico interminabile, della semi-divinità divenuta donna.
I cantanti
La compagnia vocale dell’opera è la stessa dell’ottobre 2012 (fatta eccezione per Brünnhilde e l’uccellino del bosco), e si può dire che sia un buon ensemble di cantanti wagneriani. Mime, prima ancora di cantare, picchietta l’incudine con un suo martelletto, e introduce alla dimensione materica della musica del Siegfried: è Peter Bronder a interpretare l’infido nano, bravissimo a esprimere la cattiveria del suo progetto, la paura per Fafner, la disperazione per l’impasse in cui si trova. La voce non ha nulla di strascicato, di troppo lagnoso; è anzi ferma, ben determinata, perché il Mime di Bronder è pur sempre un personaggio dignitoso. Poi compare il protagonista, la cui voce non è certo così bene impostata come quella del collega tenore; non è il caso di ripetere quanto già scritto a proposito di Lance Ryan nella recensione della Götterdämmerung di maggio; sarà sufficiente dire che l’interprete cerca, volenterosamente, di migliorare la sua prestazione, e di risultare meno pigolante e farsesco del solito. Quando vuole alleggerire il suono o risultare espressivo è sempre un po’ comico, ma nel complesso è più omogeneo e corretto (tranne negli acuti, che restano poco squillanti e leggermente oscillanti). Come personaggio sulla scena, d’altra parte, è semplicemente perfetto, specie quando forgia la spada battendo ritmicamente sull’incudine; dimostra ottima musicalità di percussionista, e trascina il pubblico alla stretta finale dell’atto, in un tripudio di ottoni che cantano l’eroismo spensierato.
Dei tre interpreti di Wotan nel Ring scaligero, Michael Volle, René Pape, Terje Stensvold, è l’ultimo, appunto in Walküre, a riuscire più convincente, più espressivo, più apprezzabile dal punto di vista vocale. Dopo un avvio in cui appare un po’ troppo leggera rispetto alla parte, la voce di Stensvold si riscalda progressivamente e affronta con grande eleganza e sicurezza la doppia terna di quesiti posti da e a Mime. Anche il duetto del II atto, insieme ad Alberich, è un bellissimo momento vocale, perché ritorna in scena il bravissimo Johannes Martin Kränzle: la virulenza di quest’ultimo e la signorilità di Stensvold si appaiano in maniera assai efficace, grazie al colore chiaro della voce del Wanderer. Il Wotan “in incognito” compare da ultimo nel III atto, per affrontare due duetti, con Erda e poi con Siegfried; Anna Larsson e un’Erda, come già rilevato in Rheingold, con pochi armonici, e dunque debole sulle note basse. Ottimo il Fafner di Alexander Tsymbalyuk, sia nelle diaboliche frasi di quando canta fuori scena sia dopo il rapido combattimento con Siegfried, quando è impegnato nella narrazione di tutta la vicenda pregressa. Resta invece un po’ troppo leggera la voce dell’uccellino del bosco, Mari Eriksmoen (nel 2012 era Rinnat Moriah), anche se apprezzabile per la grazia e per la musicalità. Il III atto si conclude con il grande duetto d’amore (in parallelo a quello del I atto di Walküre) tra Siegfried e Brünnhilde, risvegliata dall’eroe. Lance Ryan e Iréne Theorin (nel 2012 era Nina Stemme) cantano a piena voce, ma il soprano fraseggia in piano alcuni passaggi modulati sui Leitmotive amorosi (‘incanto d’amore’, ‘turbamento d’amore’, ‘estasi d’amore’, ‘passione amorosa’), in particolare dalla battuta «Dein – wird’ ich / ewig sein!» (Tua – in eterno / io sarò!), con quell’ispirazione liederistica che caratterizza i momenti migliori della sua interpretazione. Ryan indulge invece un po’ troppo ai portamenti, ma nel complesso risulta corretto, e giunge indenne alla stretta finale e agli acuti che la rendono difficile. Conclusione trionfale, dunque, e grande gioia del pubblico per l’unico dramma della Tetralogia a chiudersi nel segno dell’amore pienamente vissuto; le passions humaines più egoistiche sembrano tacere (tant’è vero che il bassorilievo di Lambeaux in questo finale non compare), sostituite dal nobile sentimento; ma è soltanto fugace apparenza, destinata a essere presto sopraffatta dall’inganno, dal tradimento, dalla morte. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala