“Soirée russa” al Teatro La Fenice

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2012-2013
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Dimitrij Kitajenko
Violino Sergej Krylov
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35
Igor Stravinskij: “Le sacre du printemps” nel centenario della prima assoluta al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi
Venezia, 1 giugno 2013   

La Fenice, continuando il percorso russo, in particolare ciaikovskiano di questa stagione di concerti, ha proposto uno dei lavori più noti ed amati dell’autore, uno dei capolavori della letteratura violinistica ottocentesca, di cui rappresenta, pur con tratti originali, una sintesi sublime: il Concerto in re maggiore per violino e orchestra, eseguito nella stessa serata insieme a Le sacre du printemps, di cui ricorre il centenario della prima assoluta, un’opera anch’essa tra le più famose del repertorio russo, ma dai caratteri diametralmente opposti, totalmente proiettata verso il futuro, punto di svolta fondamentale nella storia della musica. Eppure questo abbinamento non è poi così disparato, visto il particolare rapporto che lega l’autore del Sacre al suo illustre conterraneo. Stravinskij – che, non a caso, dopo la fase più innovativa, legata ai Ballets russes e a Djagilev, in cui nacquero Petruška e, appunto, il Sacre, sarebbe divenuto il paladino del ritorno all’ordine neoclassico – non nascose in più di un’occasione l’interesse e l’ammirazione che nutriva verso Čajkovskij:  in una lettera aperta a Djagilev  (Times 18-10-1921) nota che “Čajkovskij possedeva il dono della melodia, centro di gravità in ogni sua composizione sinfonica, in ogni sua opera o balletto”, oltre a metterne in rilievo la natura “profondamente russa”. Analogamente in un’intervista al quotidiano spagnolo ABC di qualche anno dopo (25 marzo 1925) affermerà, sfatando  ancora una volta il luogo comune del carattere prevalentemente “occidentale” del compositore:  “Čajkovskij è molto facile e per questo motivo è stato considerato comune. In realtà, egli è il compositore più russo di tutti i musicisti del mio paese.”
Questa serata, dunque, trova il suo comun denominatore nell’anima russa, ancorché diversamente stilizzata e variamente dissimulata in questi due capolavori. Forse anche l’ostilità con cui, per varie ragioni, essi vennero accolti alla loro prima esecuzione è un tratto che li accomuna: il primo fu stroncato dalla critica e non entusiasmò il pubblico; il secondo suscitò uno dei più noti scandali della storia della musica.
Il concerto in re maggiore per violino e orchestra op.35 fu composto nel marzo del 1878 a Clarens, nei pressi del lago di Ginevra, dove l’autore si era rifugiato, con il sostegno dell’amica mecenate Nadežda von Meck e del giovane violinista Iosif Kotek, per riaversi dal tremendo collasso nervoso, subito in seguito al fallimento del suo matrimonio con  Antonina Miljukova, che avrebbe dovuto fugare le voci riguardanti le sue tendenze omosessuali. La partitura fu ultimata in poche settimane, probabilmente anche sull’onda dei sentimenti personali che l’autore provava verso il giovane Iosif, che collaborò alla stesura. La prima esecuzione ufficiale sarebbe dovuta avvenire a cura del primo dedicatario del concerto, il famoso solista Leopold Auer, che però rifiutò ritenendo il lavoro irto di difficoltà tecniche e poco adatto al violino. La prima esecuzione assoluta avvenne nel 1879 negli Stati Uniti, a New York, sotto la direzione di Leopold Damrosh. Solo due anni dopo il concerto fu eseguito anche in Europa, il 4 dicembre 1881 a Vienna, ad opera di un giovane violinista, Adolf  Brodski. Se il pubblico viennese si mostrò freddo, la critica fu unanimemente ostile, uniformandosi alla stroncatura colossale di Hanslick, che parlò apertamente di rozzezza e antimusicalità, sentendo nel Finale addirittura “il puzzo di scadente acquavite di un’orgia russa”. “Stinkende Musik(musica puzzolente) per i gusti raffinati dell’arcigno critico.
Di fatto è una delle pagine di più straordinario virtuosismo che siano mai state scritte per il violino , e soprattutto nel primo e nell’ultimo tempo al solista sono affidati compiti veramente trascendentali, rispetto ai quali Sergej Krylov si è dimostrato perfettamente all’altezza, affrontandoli con assoluta padronanza dello strumento, e imprimendo, in particolare, al finale un’agogica serrata veramente da brivido senza mai perdere concentrazione e  intonazione, assecondato da un’orchestra sapientemente guidata da Kitajenko, che ha saputo essere estremamente delicato e sognante nel secondo movimento, la Canzonetta, basata su una struggente melodia dal carattere squisitamente slavo, che peraltro pervade molte pagine di questo concerto. La tecnica trascendentale del solista ha completamente conquistato il pubblico, che lo ha applaudito con reiterata convinzione meritandosi due bis paganiniani: il capriccio n. 24, dalle innumerevoli variazioni, e il n. 13, basato su bicordi di sesta in successione cromatica. Entrambi eseguiti con assoluta precisione e spavalderia. Donde nuovamente ovazioni del pubblico e anche degli orchestrali.
Quanto al secondo titolo, è inutile ricordare che Le sacre du printemps – a dispetto della bagarre suscitata tra i pubblico del Théâtre des Champs-Elysées il 29 maggio 1913 in occasioine della prima assoluta – è da tempo considerato un’opera-chiave della nuova musica, da qualunque punto di vista la si esamini: armonico, ritmico, timbrico, formale. Secondo l’autorevole giudizio di Pierre Boulez, Stravinskij grazie ad essa ha posto una pietra miliare lungo la strada che porta al nuovo, ben più del “conservatore” Schönberg, come si legge in un suo famoso saggio del 1951: Schönberg è morto; Stravinskij rimane, dove contraddice le argomentazioni di Adorno, che era giunto ad opposte conclusioni. “Con il Sacre – sono sempre parole di Boulez – può dirsi definitivamente morto e sepolto il concetto di bello dell’epoca classico-romantica”. In effetti, Stravinskij ricerca in questa monumentale partitura le dissonanze più crude e le combinazioni ritmiche più asimmetriche. La  grandezza del Sacre – un arcaico rito sacrificale della Russia pagana, nel quale una vergine viene scelta perché danzi fino alla morte a propiziare la benevolenza degli in vista della nuova stagione – sta proprio nello sconvolgimento delle forme tradizionali, ottenuto anche attraverso un impiego assolutamente nuovo del ritmo. Ne risulta spesso un susseguirsi di blocchi sonori ossessivamente ripetuti senza alcuna valenza discorsiva, senza alcuna variazione o sviluppo tematico, in base a pulsioni ritmiche asimmetriche, che diventano il principio di base della costruzione. Ma anche la ricerca timbrica per creare le dissonanze più aspre o esplorare le potenzialità coloristiche  più inattese degli strumenti – come testimonia lo spunto iniziale del fagotto, che si inerpica in uno spazio siderale – è determinante in questo lavoro, che alterna algide, rarefatte atmosfere a momenti di tellurica deflagrazione. Un’opera, anche questa, a suo modo profondamente russa, che propone con una forza espressiva fauve materiali folclorici – come le antiche danze uraliche –  pur stilizzati e ridotti alle linee essenziali. Anche in questo caso l’autorevole bacchetta di Dimitrij Kitajenko ha saputo guidare il colossale organico strumentale previsto dall’autore (che si aggira intorno ai cento elementi) con grande autorevolezza, attraverso una partitura, che a causa dei continui cambiamenti del ritmo, della complessità dell’armonia, dell’uso della politonalità, nonché delle prestazioni talora estreme richieste agli strumentisti è una tra le più ardue da eseguire. Sempre nitido il suono dell’orchestra ad evocare con barbarica, aspra veemenza la primavera che prorompe dalle viscere della terra, scandire parossistici ritmi di danza, esprimere il sottile fascino sonoro di certe pagine come l’apertura, caratterizzata dal vitreo registro sovracuto del fagotto, cui si è già fatto cenno, o l’Introduzione, che dà avvio alla seconda parte, dalle sonorità glaciali da notte polare. Festeggiatissimo Kitajenko sia dal pubblico che dagli stessi orchestrali.