Milano, Teatro alla Scala – Recital di canto 2012/2013
Mezzosoprano, Joyce DiDonato
Pianoforte, David Zobel
Antonio Vivaldi: «Onde chiare che sussurrate», «Amato ben» (da Ercole su ’l Termodonte)
Gabriel Fauré: Cinq Mélodies op. 58, De Venise
Gioachino Rossini: La regata veneziana (da “Péchés de vieillesse”, vol. I, nn. 8-10); «Assisa al piè d’un salice» (da Otello)
Michael Dewar Head: “Three Songs of Venice”
Reynaldo Hahn:” Venezia”
Milano, 9 giugno 2013 .
Dopo la trionfale Donna del lago dell’ottobre 2011, Joyce DiDonato torna alla Scala per un concerto vocale dai contenuti e dalle ispirazioni tutti veneziani (su cui si diffonde anche nell’effervescente intervista realizzata da William V. Madison per «GBopera» del 7 giugno). L’unico autore propriamente veneziano è il primo del programma, Vivaldi, mentre gli altri sono compositori affascinati dalla luce lagunare, dalle acque, dalle tradizioni veneziane, sintetizzate all’interno di piccoli cicli tematici, in un percorso che va dal Rossini tardo, ormai Maître Gourmet, dell’Album Italiano, al 1891 della raccolta di Fauré e al 1901 di quella di Hahn, fino al 1974 della piccola trilogia di Head. Al centro del programma è collocata l’unica pagina tratta dal melodramma rossiniano, fulcro del repertorio della cantante: la scena della “Canzone del salice” dall’Otello (appunto di ambientazione veneziana), che riporta l’ascoltatore al 1816, e dunque al belcanto di età preromantica.
L’esordio vivaldiano di «Onde chiare che sussurrate» avviene con un tono trattenuto, in linea con il tocco delicatissimo, quasi soffuso, del pianoforte di David Zobel. La voce è sin da subito perfettamente impostata e vigorosa, accompagnata dal senso drammatico che la pagina richiede. Nella micro-cadenza dell’aria sono molto suggestivi i trilli, che sostituiscono i virtuosismi ordinari, per di più in pianissimo. L’aria «Amato ben», dal III atto della stessa opera, Ercole su ’l Termodonte, è una dichiarazione d’amore mesta ed elegiaca, cui la voce calda e screziata della DiDonato si adatta perfettamente. Prima del “da capo”, un altro trillo risuona magnifico, perlaceo, autentica prodezza di vocalità barocca.
Prima di porgere le Cinq Mélodies “De Venise” di Fauré, la cantante, in fiammante abito rosso scarlatto, illustra al pubblico il programma, elaborato in seguito a una selezione di titoli protrattasi per molti anni. Come già dalle parole della citata intervista, anche dall’intervento alla Scala emergono l’intelligenza e la consapevolezza artistica di Joyce DiDonato, specie quando giustifica i motivi del suo interesse: in Fauré, per esempio, la musica tenta di rappresentare la luce veneziana, che sempre cambia. Cantando dunque Mandoline, En sourdine, Green, À Clymène, C’est l’extase, il mezzosoprano cerca soprattutto di differenziare i colori e le sfumature luministiche; e ci riesce grazie alla straordinaria musicalità, indispensabile a rendere il carattere gaio e mondano della prima mélodie, quello meditativo della seconda, il tono sognante della terza, i languidi cromatismi della quarta, l’ispirazione estatica dell’ultima (che forse è la più bella dell’intero ciclo). Nelle “messe di voce”, la DiDonato a volte rafforza il suono in maniera tale da farlo apparire fisso; in realtà è un effetto voluto, per conferire vigore all’emissione stessa e per far risaltare la ricchezza di armonici di ciascuna nota, senza ricorso a quel vibrato stretto che pure caratterizza la voce del mezzosoprano.
A una Venezia più autenticamente italica, imparentata alle maschere del Carnevale e della commedia dell’arte, rimandano le tre liriche di Francesco Maria Piave musicate da Gioachino Rossini: La regata veneziana è in effetti uno dei numeri vocali più celebri della raccolta Péchés de vieillesse, reso ancor più arguto dalla lingua veneziana di Anzoleta che sprona l’amato Momolo a vincere la gara. Nel cantare il prediletto Rossini, la voce della DiDonato pare addirittura esplodere di armonici e di vibrazioni; se anche la lingua non ha tutta la precisione fonetica del caso, si staglia perfettamente tutta la preziosa musicalità del “gondoliere da salotto” del ciclo. Nel secondo dei tre momenti, poi, la cantante è anche perfetta interprete e attrice, poiché esprime l’affanno, il fiato sempre più convulso del rematore nel ritmo frenetico della regata (Anzoleta co passa la regata). E tanto più risalta una nuova vocalità, entusiasta, sospirosa e generosa, dopo la regata, con la gioia della fanciulla che abbraccia l’amato vincitore (Anzoleta dopo la regata).
Alla celebre pagina dell’Otello rossiniano, «Assisa al piè d’un salice», spetta il compito di aprire la seconda parte del concerto; e in vista di tale cimento il mezzosoprano sembra aver articolato la prima parte con pagine certamente impegnative, ma non sfibranti nei confronti della voce, tanto che il porgere è per lo più caratterizzato da sonorità tenui (quanto meno a paragone della cavata naturale che la cantante possiede). Dunque la DiDonato torna in scena con un abito accollato, policromo, dai riflessi verde smeraldo; ed è subito una Desdemona dalla voce robusta e vigorosa, la cui canzone non ha alcun lenocinio fiabesco. Anzi, il carattere principale dell’interpretazione è sicuramente la fermezza: non c’è nemmeno un attimo di cedimento, perché tutto è sorretto dall’intenso dolore del personaggio vocale. Il momento meraviglioso della scena dell’Otello è incrinato, sugli ultimi accordi del pianoforte, dallo squillo di un telefono cellulare in sala … Ma l’imbarazzo stizzito del pubblico è stemperato dallo charme della cantante, che rientrando tra gli applausi chiede sorridendo: «Era Rossini a chiamare?»
Seguono nel programma Three Songs of Venice, un altro breve ciclo (The Gondolier, St Mark’s Square, Rain Storm) del compositore britannico Michael Head, punto di partenza della fascinazione musicale della DiDonato: proprio da queste liriche, confessa ella stessa, ha preso avvio la costruzione di un recital interamente dedicato alla rappresentazione musicale di Venezia. Scritti nel 1974 per Janet Baker, i Lieder di Head hanno uno stile musicale che forse sarebbe risultato un poco antiquato già nel 1874 (a parte il primo, che unisce ad armonie spagnoleggianti qualche venatura jazzistica), con cromatismi e arpeggi a profusione; la linea vocale è trattata con molto garbo, senza acuti, piuttosto insistente sulle note basse: una tessitura che la DiDonato affronta senza alcun problema.
Molto più raffinati, e – in prospettiva cronologica – decisamente più moderni, i Lieder che il poliedrico Reynaldo Hahn ha raccolto sotto il titolo Venezia. La biondina in gondoleta (il programma del concerto ne contempla cinque su sei), sulla scorta della celebre canzone di Mayr, e su testo di poeti veneziani. La DiDonato accentua le componenti espressive di ciascuna pagina, per differenziarle in base ad almeno una peculiarità: il languore di Sopra l’acqua indormenzada (poesia di Pietro Pagello), le smorzature degli arabeschi antifonali tra le strofi di La barcheta (poesia di Pietro Buratti), il ritmo turbinoso e incalzante di L’avvertimento (sempre di Buratti; la cantante è molto abile a “portare” il suono con eleganza, anche se a causa del ritmo è obbligata a schiacciare un po’ alcune note basse), i portamenti discendenti e gli accenti gravi di Che pecà! (versi di Francesco dall’Ongaro; con grande capacità mimetica, la DiDonato conferisce una crassa popolarità ai suoi personaggi vocali, anche quando in realtà sono un po’ più fini), gli acuti nel finale di La primavera (poesia di Alvise Cicogna, un quadretto di maniera sui fiori in veneziano).
Al termine del concerto ci si accorge dell’esemplarità del pianista, il giovane David Zobel, un modello di accompagnatore, poiché non appare mai in primo piano, così come non sbaglia mai un tempo o una sonorità. Non a caso la cantante lo ha più volte scelto quale collaboratore, nel corso di diverse tappe della sua carriera. Prima di soddisfare le richieste di bis da parte del pubblico, la DiDonato ricorda con emozione la sua Cenerentola scaligera del 2001, ma anche la scomparsa del M° Bruno Bartoletti, cui dedica una canzone di Alberto Ginastera tutta sorretta da dal soffio della Vitalidad. Il momento più virtuosistico dell’intera serata è raggiunto con il secondo dei brani fuori programma, il finale della Donna del lago («Tanti affetti in tal momento»), ormai una sorta di rôle fétiche per la DiDonato, che canta il rondò tutto a mezza voce, con due prodigiosi trilli nella cadenza centrale. Le note basse non sono mai caricate o accentuate in modo eccessivo (come invece faceva – ma giustamente – nelle precedenti parti giocose). Scale, volate, cadenze, puntature: tutto è affrontato con grande sicurezza; Rossini instaura insomma quell’aura musicale nella quale la cantante riesce a porgere il meglio di sé e della sua verve. Un ultimo “regalo” per la Scala, che è insieme un omaggio alle sue origini americane, la canzone Somewhere Over the Rainbow, di Harold Arlen (cantata per la prima volta nel 1939 dalla piccola Judy Garland nel film Il mago di Oz di Victor Fleming). Il belcanto trionfa, ma tutte le precedenti suggestioni si condensano in una caligine appena illuminata sulle acque lagunari, pronta nella sua immobilità ad accogliere l’intonazione musicale più disparata, alla ricerca di quel che, in fin dei conti, non è rappresentabile se non parzialmente: l’unicità di Venezia. Il programma elaborato dalla cantante raggiunge così l’obbiettivo. Foto Marco Brescia © Teatro alla Scala