L’anti-eroe attuale: ancora su “Evgenij Onegin” a Torino (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“EVGENIJ ONEGIN”
Scene liriche in tre atti (e sette quadri)
Libretto di Pëtr Il’ič Čajkovskij e Konstantin Šilovskij, dall’omonimo poema di Aleksandr Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Evgenij Onegin  VLADISLAV SULIMSKIJ
Tat’jana, figlia di Larina  RADOSTINA NIKOLAEVA
Vladimir Lenskij  ALEKSEY TATARINTSEV
Ol’ga, figlia di Larina  IRYNA ZHYTYNSKA
Il principe Gremin  ALEKSANDR VINOGRADOV
La vedova Larina  MARIE MCLAUGHLIN
Triquet  CARLO BOSI
La njanja Filipp’evna  ELENA SOMMER
Zareckij  SCOTT JOHNSON
Un capitano della guardia  VLADIMIR JURLIN
Guillot  (mimo) ANDREA FRISANO
La giovane Tat’jana  (mimo) VERONICA MORELLO
Il giovane Onegin  (mimo) GIUSEPPE CANNIZZO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Kasper Holten
Scene Mia Stensgaard
Costumi Katrina Lindsay
ripresi da Elena Cicorella
Luci Wolfgang Göbbel
riprese da John Charlton
Coreografia Signe Fabricius
ripresa da Toniah Pedersen
Video Leo Warner e Lawrence Watson per 59 Productions
ripresi da Benjamin Pierce
Nuovo allestimento in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden, Londra e Opera Australia
Torino, 23 maggio 2013

L’inettitudine di Onegin e le sue inappagate brame lo rendono un personaggio letterario e musicale modernissimo: non solo potrebbe essere il corrispondente di un protagonista dei classici romanzi di Italo Svevo (specie l’Emilio Brentani di Senilità) o di Robert Musil, ma esprime anche le inquietudini e le incertezze dell’uomo post-moderno, del XXI secolo («all’età di ventisei anni […] mi sento incapace di fare qualsiasi cosa», riflette nel monologo che apre il III atto). Le scene liriche čajkovskijane sono dunque sempre attuali, e la scelta del Teatro Regio di Torino (dove l’opera mancava dal 1998; protagonisti all’epoca furono Roberto Servile e Mirella Freni) non può che essere definita felice.
Gianandrea Noseda domina la partitura dell’Onegin come nessun altro direttore italiano; in più, la sua pluriennale consuetudine con l’orchestra del Teatro Regio gli permette di intendersi alla perfezione con gli strumentisti: si riconoscono dunque il suo piglio, l’abbrivio dei tempi, le sonorità marcate, tutti caratteri che rendono vivacissime e rapide alcune scene o interi quadri (quella articolata del ballo – ossia il I quadro del II atto – fluisce, per esempio, come un unico respiro, neppure la scena e canzone di Triquet riescono a pausarne la drammaticità). In altre circostanze, invece, la direzione di Noseda è meno soddisfacente, in particolare nei momenti più lirici, come la scrittura della lettera di Tat’jana o il canto manierato dei distici di Triquet in onore della fanciulla; è come se il direttore fosse un poco noncurante di certe sezioni, perché ne predilige altre.
Vladislav Sulimskij, nel ruolo di Onegin, è un cantante molto corretto, dal timbro baritonale ordinario e giusto, ma senza alcun tratto rimarchevole; non ha, insomma, un’autentica personalità vocale, e tende a uniformare l’emissione, con un esito a volte monotono. Qualche inflessione di gola nel I atto, poi la voce si scalda e l’effetto negativo, fortunatamente, scompare. Nel III atto, invece, si sforza di essere più espressivo, anche grazie a un impegno marcato profuso nella recitazione.
Radostina Nikolaeva è una Tat’jana molto interessante sul piano vocale: in primo luogo il registro della sua voce è omogeneo, fermo, ben timbrato; e poi possiede una tecnica solida, che le permette di affrontare tutta la parte senza difficoltà (fata eccezione per un piccolo cedimento nel duetto finale, dovuto probabilmente alla stanchezza). La voce di per sé non ha grandiosi armonici, ed è di colore piuttosto scuro; ma proprio la leggera brunitura risulta adeguata al complesso e sfortunato personaggio di Tat’jana. Come nel caso di altri cantanti della compagnia, la prestazione della Nikolaeva va crescendo nel corso della recita: molto buona la scena della lettera, specie nel contrasto tra l’ansiosa innamorata e i freni della stolida njanja Filipp’evna; molto intenso, del pari, il duetto del III atto, nella cui aria l’interprete dà il meglio di sé.
Aleksey Tatarintsev è un Lenskij credibilissimo, anche se all’inizio la voce fredda appare un po’ impacciata. A mano a mano che si riscalda, si attenua il difetto di aggredire le note, specie quelle acute, con il fiato, anziché far galleggiare il suono sul fiato stesso. Il tenore non ha voce bella; anzi, è piuttosto larmoyante, e scabra, a volte puntuta; ma tali caratteristiche si adattano bene al personaggio, come rivela in particolare l’aria del II atto (una delle più belle di tutta la storia dell’opera; Tatarintsev decide di cantarla con mezze voci rotte dalla commozione, che sortiscono un effetto molto convincente senza sfociare nel patetico).
Iryna Zhytynska è un’Olga giovanissima, dalla voce un po’ acerba, anche se complessivamente molto corretta.
Il principe Gremin è interpretato in entrambe le compagnie da Aleksandr Vinogradov, che restituisce un personaggio molto aristocratico: la voce è pulitissima, chiara, dalle risonanze riconoscibili; ma è anche una tipica voce di basso russo, con qualche prevedibile mancanza: piuttosto ruvida, limitata negli armonici, poco carezzevole (mentre il principe dovrebbe essere animato da un cantante che torna tenero come un adolescente innamorato; nel 1998, anno dell’ultima edizione di Onegin a Torino, l’interprete era Nikolaj Gjaurov, per intendersi).
Molto apprezzabili le voci di tutti i cantanti comprimari: svenevole al punto giusto il tenore Carlo Bosi come Triquet, vigoroso ed enfatico il mezzosoprano Marie McLaughlin come Larina, rustica nel porgere (come deve essere) Elena Sommer in Filipp’evna, buoni i due bassi Scott Johnson e Vladimir Jurlin, rispettivamente Zareckij e un capitano della guardia. Ottimo, come sempre, il coro del Regio istruito da Claudio Fenoglio.
Kasper Holten, regista dello spettacolo, sceglie di strutturare l’ambientazione in un’unica scena, una sorta di loggiato-salone visto frontalmente, con una serie di pilastri che segmentano lo sfondo in quattro settori, e permettono chiusura di cortine e di porte, in modo da isolare i cantanti in uno stretto spazio a ridosso del proscenio. Uno studio accurato delle luci e dei fondali garantisce la mobilità cromatica in corrispondenza dei vari quadri, così come oggetti scenici trasportati sulla ribalta integrano la rappresentazione oggettuale, sempre ridotta al minimo. Un’unica struttura scenografica in un’opera come Evgenij Onegin funziona molto bene, a patto che nel corso degli atti essa sia sottoposta ad alcune (magari piccole) metamorfosi; questa è la strada segnata da un magnifico allestimento del Bol’šoj di Mosca, che nel luglio 2009 giunse anche alla Scala di Milano: la regia di Dmitri Tcherniakov aveva collocato al centro del palcoscenico un grande tavolo ovale, quale oggetto-fulcro di una sala da pranzo prima campagnola e poi aristocratica. Dalla sobria eleganza provinciale della casa di Larina si trascorreva così allo sfarzo pietroburghese di Palazzo Gremin: il tavolo era sempre lo stesso, ma variavano le seggiole, i velluti, i candelieri e le specchiere, cosicché risaltasse l’evoluzione sociale di Tat’jana, in contrasto con l’immobilità di Onegin. Holten, invece, per l’allestimento che ha debuttato a febbraio a Londra, e che poi migrerà fino in Australia, ha deciso di mantenere lo stesso aspetto esteriore di pilastri e di porte in tutti e tre gli atti; la scena resta molto coesa, ma non si avverte alcuna differenza qualitativa tra gli ambienti dei primi due atti rispetto all’ultimo. Anche perché, nel cuore drammatico dell’Onegin, c’è un momento sinfonico che deve coincidere con lo scintillio dell’orchestra, con un’ambientazione ricca e spensierata, con una festa aristocratica, anche di ostentazione del Kitsch e del prevedibile: tale momento è ovviamente la Polonaise che prelude al III atto (lo ricorda la didascalia del libretto: «una sala dove un ballo è appena incominciato, come di consueto, con una polacca»). Nell’allestimento di Holten non solo mancano danzatori e prospettiva aristocratica, ma la musica si apre quando sul proscenio giace ancora il cadavere di Lenskij, tra rami secchi, davanti le porte chiuse del loggiato-salone del I atto; e il corpo dell’amico ucciso resta sulla scena mentre fanciulle avvolte in ampi veli accennano sobri passi di danza, come silfidi che si disperano sullo sfortunato innamorato di Ol’ga. Tat’jana compare quindi, nel III atto, con abito principesco ma nello stesso spazio della sua infanzia, ancora più desolato e disordinato rispetto all’inizio (e questo può essere allusivo all’aridità della vita coniugale con Gremin, anche se lo spettatore resta un po’ disorientato nel vedere il principe sempre presente sulla scena, perfino nel corso del duetto finale).
I primi due atti sono caratterizzati, sul piano registico, da un unico elemento attoriale di spicco, centrato non già sugli interpreti vocali ma sui loro doppi; e dunque la scena si affolla di un quartetto (Tat’jana, Evgenij e i loro doppi) che a dire il vero disturba un poco, soprattutto perché di tale copia dei personaggi non si sente alcun bisogno. Perché mai l’ingenua e appassionata lettera non dovrebbe essere scritta dalla stessa Tat’jana, bensì dalla sua proiezione inconscia? E perché a uccidere Lenskij non dovrebbe essere Onegin, bensì il suo ologramma (che poi, al culmine del grottesco, a duello concluso porge la pistola al personaggio)? I primi anni del XXI secolo negli annali registici del teatro d’opera saranno certamente ricordati come quelli “dei doppi” (o addirittura dei multipli); i registi, da qualche anno a questa parte, amano infatti sdoppiare i personaggi teatrali, come se due corpi fisici esprimessero più agevolmente le lacerazioni interiori e la scissione di una psicologia. Anche questo è un sintomo di quell’horror vacui che invade chi deve allestire una pièce di teatro musicale; il regista teme che la parola, la drammaturgia, la scenografia, la recitazione, il corpo stesso degli interpreti, non siano mai sufficienti a esprimere tutto. Ci si dimentica, forse, che la percezione degli spettatori è già abbondantemente arricchita dalla musica, la quale è sempre presente a se stessa, e basta da sola a esprimere tutto.