Interviste d’annata: Giuseppe Valdengo (1914-2007)

Conosco Valdengo in casa di amici dopo un’audizione delle sue prove con Toscanini. Ci sono attimi di commozione veramente intensi: Valdengo piangeva. Attendo che si riprenda e gli faccio la prima domanda senza legare il Baritono a Toscanini, ma cercando di ottenere notizie che riguardino esclusivamente Giuseppe Valdengo non solo cantante, ma soprattutto musicista, avendo studiato al conservatorio di Torino violino e oboe.
«Maestro mi parli di lei, della prima scrittura, della sua carriera». Mi risponde parlando lentamente, soppesando le parole, con un simpaticissimo accento torinese.
«La mia prima scrittura vera mi fruttò 180 lire per aver cantato il Germont nella Traviata, ma ho debuttato prima ad Alessandria nel teatro sperimentale in Butterfly il 12 febbraio 1937, poi ho cantato questa Traviata. Dopo ci fu un debutto più sostanzioso a Parma nel Barbiere di Siviglia. Ripensando alle tappe artistiche devo dire che, dopo quello che abbiamo detto, scoppiò la guerra e io ho fatto sette anni di servizio militare. Me la sono sempre cavata perché ho diretto la banda, ma è chiaro che mi ha rallentato la carriera.
Andavo tutti gli anni a Parma dove ho cantato Faust, Pagliacci, Manon, Bohème, Barbiere, molto del mio repertorio. Finita la guerra, nel ‘46 sono andato in America.
Durante la guerra ero stato anche alla Scala come comprimario, facevo le seconde parti; c’era la Simionato e cantavamo insieme. Ho cantato di tutto tranne … la Nedda dei Pagliacci. È stato un periodo molto importante, un tirocinio molto utile dove ho imparato tante cose. C’erano grandi maestri come Marinuzzi e Guarnieri, poi sono andato in America, perché degli osservatori avevano stabilito che la mia voce fosse adatta per gli Stati Uniti. Quando venne Toscanini alla Scala nel ‘46 io cercai di fare un’audizione, ma non lasciavano avvicinare nessuno al Maestro. Avevo interessato Mariano Stabile che cercò di farmi sentire. Mi convocarono alla Scala e io credetti di cantare davanti a Toscanini, ma quando ebbi finito di cantare Toscanini non c’era».

«Qualche ricordo dei direttori d’orchestra. Cosa ricorda dei loro insegnamenti ?»
«Dei direttori d’orchestra, escluso Toscanini, ho un caro ricordo di quelli che ho detto, posso aggiungere Podestà, Del Campo, Glucon: tutti personaggi splendidi. A noi giovani insegnavano a cantare, ci curavano nota per nota, cosa che oggi non fanno più perché non capiscono niente, mi dispiace dirlo. Saranno anche dei grandi cervelloni, ma l’artista non l’aiutano. Io ero giovane e magari aprivo una nota e subito Del Campo mi diceva di non farlo perché fin che sei giovane non ti fa niente, ma poi la paghi. E il m° Podestà, meraviglioso! Tra l’altro durante un bombardamento mi ha salvato la vita. Dovevamo fare I Pagliacci e avevamo chiesto di andare a mangiare dalla “Romilda” dove andavamo di solito, ma il Maestro disse che avrebbe fatto un prova veloce. Avevo appena  cantato il “prologo” quando arriva il grande allarme e per non andare nel rifugio di fronte al teatro, sempre affollatissimo, ci rifugiammo nel sotto palco e stemmo lì fino alla fine. La bettola della Romilda fu centrata dalle bombe e morirono quasi tutti».
«Che cosa aveva Toscanini in più di tutti quelli, decisamente molto bravi, che mi ha nominato. Mi risponda come musicista e come cantante, lasciando da parte, se può, il lato affettivo».
«Ero un uomo impastato di musica. Aveva quasi una magia. Quando m’imponeva di fare un “forte – piano” io lo facevo, cosa che con gli altri non l’avrei fatto. Aveva una forza unica di penetrazione nell’insegnamento, perché prima di tutto ti insegnava la pronuncia, ti insegnava il canto. Se gli dicevo che non mi veniva bene una nota si faceva dire le parole che c’erano e lui ti diceva di chiudere di più quella A o quella O e la nota ti veniva: comprende? Un insieme meraviglioso. Lui era come un atleta perfetto che fa la maratona e la vince, fa il salto in alto e lo vince, fa i cento metri e vince. Dirigeva tutto bene. Poi questa cura che aveva … Lei deve capire una cosa che quando si studiava un’opera col Maestro al pianoforte, perché lui diceva che l’opera si concerta al pianoforte e aveva ragione, dopo quando andavo in orchestra mi sembrava di aver sempre cantato quell’opera. Certo che pretendeva!
Quando si provava in sala al pianoforte, e non suonava lui, faceva gli stessi segni che poi rifaceva in orchestra. Ogni tanto faceva alzare il pianista e suonava lui: era un accompagnatore eccezionale. Io le opere le ho studiate a casa sua o nel suo studio alla NBC ed eravamo soli, io e lui. Poi, appena conoscevamo l’opera, ci riuniva prima due per volta e dopo tre fino a metterci assieme tutti quanti».


«Mi vengono in mente tante cose. Circa la fedeltà alla partitura da parte di Toscanini, cosa mi può dire».
«Più che altro su noi cantanti lasciava lo sfogo lirico, ma non voleva delle note tenute, lasciava fare delle belle note, ma non voleva delle “gigionate”. Le posso raccontare che cantavo Traviata in San Francisco e il maestro che dirigeva non voleva lasciarmi fare un sol bemolle dove dice “è Dio che ispira o giovine” e allora l’impresario, un vecchio impresario napoletano che si chiamava Merola, mi dice “Ma perché non fai il sol bemolle?” – “Perché il maestro non vuole”. Allora scrissi una lettera a Toscanini che mi rispose dicendo che questo sfogo, se era fatto bene, sarebbe stata una bella cosa».
«Lei è rimasto ancora nell’ambiente con i suoi allievi ai quali cosa insegna circa gli atteggiamenti di cui si diceva?»
«Guardi io sono assolutamente fedele a quello che diceva Toscanini, ma non perché lo diceva lui, perché ne sono pienamente convinto. Al pubblico non devi concedere troppo, perché vuole sempre di più. È la questione del bis: è pericoloso. Innanzitutto interrompe il discorso teatrale e poi se ti viene male magari ti fischiano anche.
Io comunque mi sono molto defilato dal mondo del teatro di oggi. Oggi mi pare che si esageri troppo nelle regie, nelle scene: anche come sperpero di denaro. Il regista oggi è diventato una prima donna a discapito dell’opera. Verdi stesso diceva che il pubblico non doveva essere distratto dalle scene e dal resto. Guardi, qui è tutto da rifare, come diceva Bartali. Siamo in mano a degli incoscienti, degli impreparati, dei disonesti».
«Che valore ha secondo lei la revisione critica di un’opera?»
«Non sapendo interpretare aprono dei tagli, eseguono cose mai fatte, fanno delle opere che lo stesso compositore diceva che erano uno schifo, comprende? L’importante è che venga sul giornale che il maestro tal dei tali ha aperto due pagine che da cento anni non si facevano. Toscanini mi diceva che questi tagli non son stati fatti così a vanvera, ma sono venuti attraverso il pensiero di maestri illustri. Certe parti è giusto che non si eseguano perché alle volte interrompono il climax dell’azione».

«Però c’è anche il rovescio della medaglia: certe parti vengono tagliate perché ritenute troppo faticose per i cantanti che si rifiutano di farle, vedi il duettone della Forza che è molto bello».
«Io in America l’ho fatto, ma è pesante per il tenore. Così com’è bello il duetto della Lucia che è forse un taglio abusivo, perché spiega tutta l’opera».
Cambio argomento e chiedo a Valdengo se si ritiene soddisfatto della sua produzione discografica.
«Io sono contento perché le opere con Toscanini sono state prese dal vero, non ci sono mistificazioni: come è, è. Io ero me stesso e ho cercato di dare tutto il possibile. Mi sono ascoltato e mi sembrano cose buone quelle che ho fatto; in certi punti avrei voluto fare meglio, ma poi penso che non si può essere perfetti. Pensi che dopo l’Otello Toscanini mi ha telefonato per ringraziarmi.
Toscanini era insaziabile, come una bella donna che ne vuole sempre di più. Lì si cantava giorno e notte e non gli bastava mai! Io e Vinay cantavamo tutto il duetto senza che ci interrompesse, poi alla fine si toglieva gli occhiali e ci diceva: “Adesso me lo ricantate tutto per bene, se no: a casa”. Ripensandoci aveva ragione. Ci faceva cantare sempre in voce, non ammetteva che uno cantasse piano.
Eh, sì! Con Toscanini si cantava bene. Io avevo sempre voce con lui anche quando avevo il raffreddore».

«Cosa significa “con quel maestro si canta bene”?»
«Significa che ti accompagna, che ti sostiene, perché Lui prima d’andar fuori a cantare cercava di risolverti i problemi. Ad esempio gli dicevo, proprio prima di uscire, “Maestro c’è un passaggio che mi preoccupa e sarebbe meglio se rallentassi la quartina di semicrome, perché mi viene meglio” e Lui “Tu canta che io ti accompagno”. Come era durissimo nelle prove, così era a disposizione della compagnia durante lo spettacolo; era uno che sapeva, che capiva. Adesso ci sono dei maestri che alzano una barriera intorno a sé. Sono freddi, senza comunicativa. Molti sono gelosi del successo, molti non sanno dirigere: battono il tempo. Non hanno il braccio. “Quello è un farmacista” diceva il Maestro, perché pesa tutte le notine.
«Ma il braccio di Toscanini com’era, me lo sa raccontare?»
Valdengo fa una risatina come per dire che è una cosa impossibile da raccontare, ma ci prova.
«Era il braccio di un violoncellista, magnifico! Poi diceva che non si poteva dirigere senza bacchetta. La mano sinistra era molto importante per noi cantanti: serviva per dare i colori, le sfumature»
«Dava anche gli attacchi con la sinistra?»
«No, non dava gli attacchi. Noi eravamo preparatissimi e lui era sicuro di noi. Sapevamo tutto a memoria, bastava che lui guardasse che si attaccava. Quando ci mandava in orchestra era già tutto fatto. Io l’Otello ce l’ho impiantato nel sangue.
Per studiare il Falstaff sono andato dieci – dodici volte a casa del Maestro. Io però me lo studiavo anche per conto mio. E poi una decina di volte con la compagnia. Ci voleva un mese, cosa che oggi non si fa più, però si sente cosa viene fuori».
«Lei insegna canto. Qual è la cosa che insegna per prima?»
«Il fiato: si canta col fiato. Poi i vocalizzi. Ci vuole del tempo e tanta pazienza prima di arrivare alla romanza. Insegno quello che so».
«Parlando con amici si diceva che di soprani ce ne sono, di tenori anche, ma di baritoni pochi, perché?»
«Non è vero. Sono tutti tenori “sbagliati”. Il baritono si riconosce dal colore e dall’estensione della voce. Il diapason si è alzato e così anche le voci si sono tutte sfasate. Il passaggio del baritono: Mi bemolle – Mi naturale, è spostato: bisogna tenerne conto».
Intervista realizzata a Parma 9/4/1977.