Torino, Teatro Regio: “Evgenij Onegin”

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2012-2013
“EVGENIJ ONEGIN
Scene liriche in tre atti (e sette quadri) su libretto di Pëtr Il’ič Čajkovskij e Konstantin Šilovskij dall’omonimo poema di Aleksandr Puškin
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Evgenij Onegin VASILIJ LADJUK
Tat’jana SVETLA VASSILEVA
Vladimir Lenskij MAKSIM AKSËNOV
Ol’ga NINO SURGULADZE
Il principe Gremin ALEKSANDR VINOGRADOV
La vedova Larina MARIE MCLAUGHLIN
Triquet CARLO BOSI
La njanja Filipp’evna ELENA SOMMER
Zareckij SCOTT JOHNSON
Guillot GIUSEPPE CANNIZZO
La giovane Tat’jana FRANCESCA RABALLO
Il giovane Onegin ANDREA FRISANO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Kasper Holten
Scene Mia Stensgaard
Costumi Katrina Lindsay ripresi da Elena Cicorella
Luci Wolfgang Göbbel riprese da John Charlton
Coreografia Signe Fabricius ripresa da Toniah Pedersen
Nuovo allestimento in coproduzione con Royal Opera House Covent Garden, Londra e Opera Australia
Torino, 22 maggio 2013
Il nuovo allestimento di Evgenij Onegin, proposto dal Regio di Torino in coproduzione con il Covent Garden di Londra, è uno di quegli spettacoli che mette in luce come la regia sia cosa assolutamente diversa dalle scene e dai costumi. In questo caso, infatti, scene e costumi sono di impianto tradizionale, seppur non didascalicamente fedeli, mentre la regia tratteggia la vicenda secondo un’ottica decisamente anticonvenzionale. Nucleo dell’interpretazione di Kasper Holten è una lettura psicanalitica che immagina Tat’jana e Onegin cresciuti (al tempo del III atto) che osservano sé stessi ragazzi rivivendo come in flashback le vicende dei primi due atti. La realizzazione scenica di questa concezione registica è affidata alla presenza dei doppi dei protagonisti, che si aggirano per il palcoscenico in misura decisamente sovrabbondante e in maniera un po’ incoerente: talvolta, infatti, il doppio è un’apparizione, uno spettro che aleggia sullo sfondo o si raggomitola in un armadio (come lo scheletro del detto popolare); tal altra, viceversa, è il doppio a muoversi in scena e a interagire con gli altri personaggi, mentre l’interprete è una sorta di controfigura cantante che gli impresta la voce; per tacere del cadavere di Lenskij, che rimane in scena per tutto l’ultimo atto, o della misteriosa comparsa del principe Gremin (nella coscienza di Tat’jana e Onegin, pare di intuire) durante la scena finale. Insomma, ci si trova di fronte a una di quelle regie che, se già si conosce l’opera, si comprende alla seconda visione; se non si conosce l’opera, lascia con grandi punti interrogativi. Conseguenza della concezione a flashback è un’impostazione di taglio cinematografico che fa confluire una scena nell’altra senza soluzione di continuità, anche a costo di operare piccoli tagli o di sconvolgere la drammaturgia di Čajkovskij. Il mancato rispetto della drammaturgia si estrinseca, in primo luogo, nella dissoluzione dell’articolazione in tre atti – che corrispondono a tre precise unità temporali, distanziate l’una dall’altra di parecchi mesi (I e II atto) o di diversi anni (II e III atto) –, sostituita da un’arbitraria suddivisione dell’opera in due parti con intervallo a metà del II atto: il che rompe la continuità tra la sfida e il conseguente quasi immediato duello; e sminuisce il significato delle chiuse d’atto in pianissimo, che nell’attuale produzione divengono meri ponti verso il proseguimento dell’azione, che in scena si prolunga direttamente sulle note d’apertura dell’atto seguente. Emblematica, al proposito, la fine del II atto: Onegin si aggira sulla scena del duello circondato da sensuali fanciulle, mentre l’orchestra suona la Polacca sulla quale si dovrebbe svolgere il ballo nel palazzo del principe Gremin in cui si apre, sei anni dopo, il III atto; sicché, quando il siparietto scopre la scena del palazzo principesco, il protagonista afferma di essere capitato nel mezzo di un ballo che nessuno ha potuto vedere.
Se qualche perplessità lascia la regia, la componente musicale dello spettacolo è prodiga di soddisfazioni. Chiave di volta del successo è la direzione di Gianandrea Noseda, direttore musicale del Regio, forte di una lunga esperienza pietroburghese che gli ha messo nelle tasche il repertorio russo. Noseda governa lo spettacolo curando e ponendo nella dovuta luce la multiforme natura della partitura, ora drammatica e stringente, ora lirica, ora elegiaca e melanconica. Il sottoscritto, che ha ascoltato la prova generale (con la seconda compagnia, il 16 maggio) e poi la quarta recita, non ha potuto evitare di notare un forte miglioramento nell’orchestrazione, evidente frutto del rodaggio in teatro: se alla prova tutta la luce era puntata, con un certo squilibrio, sull’elemento drammatico, alla recita è stato appieno restituito l’equilibrio della composizione. Un avviso per il Regio, che sta sempre più puntando i propri cartelloni sul teatro di repertorio: non si dimentichi che, per raggiungere un livello qualitativo elevato, sono necessari prove e rodaggio.
Svetla Vassileva è una Tat’jana intensa, dalla voce forse non sempre stabile, ma capace, nella scena della lettera, di restituire nella giusta alchimia il dramma interiore e la cantabilità lirico-introspettiva che caratterizzano il personaggio; la sua interpretazione, sempre vivida, nella scena finale si arricchisce di tensione – grazie anche alle accorte sottolineature di Noseda, che acquisiscono maggior peso nel momento in cui il dramma non viene steso come tinta monocroma su tutta la partitura – dando carne al conflitto tra passione e ragione che dilania Tat’jana. Il baritono Vasilij Ladjuk interpreta Onegin con varietà di sfaccettature: belle inflessioni nel quartetto del primo quadro, in cui osserva con occhio disincantato la serena famiglia di campagna, impostazione dura e decisa nell’aria in cui “fa la morale” a Tat’jana, impeto disperato nell’ultimo atto. Un po’ monocromatico, al confronto, pare il Lenskij del tenore Maksim Aksënov: lo squillo è incisivo e lucente, ma la spinta costante e poco modulata rischia di non dare riscontro della delicatezza d’animo e di una certa fragilità del poeta innamorato; la stessa aria che apre il quadro del duello – pur chiusa, occorre riconoscerlo, con una smorzatura ricca di sfumature, e particolarmente applaudita dal pubblico –, tutta tesa a tratteggiare la disperazione di Lenskij, rischia di non dipingerne in pienezza la personalità. Ol’ga viene ben raffigurata dal contralto Nino Surguladze con uno stile colloquiale che ne riproduce il carattere spensierato.
Al di là dei protagonisti, Evgenij Onegin è opera in cui hanno fondamentale importanza numerosi comprimari, che possono impreziosirne o rovinarne la rappresentazione: nella presente produzione tutti contribuiscono alla complessiva riuscita dello spettacolo. Meritano menzione particolare il tenore Carlo Bosi, che tratteggia con carattere la figura macchiettistica del maestro di musica francese Triquet, reso nella sua affettazione attraverso una voce artificiosamente piccola. E merita menzione soprattutto il basso Aleksandr Vinogradov, al quale spetta una sola aria che basta a renderlo l’interprete più applaudito della serata: dominata dalla profondità e dal calore di un innamorato adulto, l’aria si conclude con un sol grave dalla fermezza memorabile.
Il Coro del Regio, pur costretto in costumi sempre e ovunque neri, ha splendidamente dato voce tanto ai contadini russi che cantano le canzoni tradizionali quanto alla nobiltà che partecipa alle feste mondane. Non si può dire che se la sia cavata altrettanto egregiamente nei balli – ridotti al minimo dalla regia –, ma occorre ricordare che pur sempre di un coro si tratta, e non di un corpo di ballo. Foto Ramella&Giannese