Incontro Piero Cappuccilli (Trieste, 9 novembre 1926 – Trieste, 11 luglio 2005) nel complesso residenziale Watergate giovedì 16/9/1976. Il celebre baritono triestino è negli USA con una tournée della Scala. Simpatico e gioviale, mi riceve nel suo appartamento e lì parliamo di tutto in modo assolutamente informale, come due vecchi amici. La voce parlata di Cappuccilli è molto gradevole, mantiene la brunitura tipica della sua corda e non parla nel naso per risparmiare la gola.
Gli inizi.
«Ho cominciato a studiare canto per caso. In casa cantavo sempre e uno zio, appassionato di lirica mi ha consigliato di farmi sentire da un maestro, ma io non ci pensavo. In quegli anni andavo all’università. Non ero appassionato d’opera e come fa la maggior parte degli studenti andavo a ballare, conoscevo ragazze e studiavo. Ma lo zio insisteva e allora sono andato a farmi sentire e il maestro disse che avevo una bella voce da baritono, una voce di qualità. Allora ho studiato per un mese sacrificandomi, perché non mi andava proprio studiare canto. Poi sono scomparso per tre quattro mesi fino a quando il maestro mi telefonò chiedendomi ragione della fuga. Gli dissi che non potevo, che non avevo tempo con l’università: studiavo architettura. Il maestro mi disse di scegliere: o l’una o l’altra cosa. Tra l’altro, sotto il governo militare alleato, mi ero anche arruolato in polizia per guadagnare qualcosa che mi permettesse di studiare, ma non il canto. Mio padre, poi, quando seppe che andavo a lezione di canto si arrabbiò perché il lavoro del cantante è molto aleatorio, mentre invece un laureato avrebbe trovato un impiego più sicuro. Ma il maestro (Luciano Donaggio, ndr) era furibondo: “Ti vengo prendere a casa e ti do un sacco di cazzotti”. Ed eccomi qua».
Bene. Meno male che il maestro ha vinto consegnando al melodramma un artista come te. E poi?
«E poi ho cominciato con la gavetta. Una gavetta di lusso: in Emilia che è l’élite della musica lirica. C’è un pubblico emancipato che conosce il repertorio, che fa i paragoni. In questi cinque o sei anni ho cantato a Reggio, Parma, Modena, Mirandola. Lì veramente mi sono fatto, perché questo mestiere lo faccio con una tal passione che per me è una gioia cantare. Io non mi lascio dominare dalla voce, sono io che la comando. E questo pubblico a cui piace sentir cantare e cantare bene, mi ha dato tanta fiducia. Ho sempre avuto tanta fiducia in me stesso: non mi lascio smontare. E dopo questa gavetta in Emilia, dove ha passato periodi stupendi anche culinari. Tornerò a fare un giro in Emilia, perché ho avuto tanti successi che non dimentico».
Quali sono le tappe artistiche più importanti, quelle che hanno agito maggiormente sulla tua formazione?
«Ѐ avvenuto tutto gradualmente. Il debutto alla Scala è stato molto importante e ti dirò che sono entrato alla Scala tranquillo, perché io gioco sempre a carte scoperte. Le tappe più importanti sono quelle che ho raggiunto ultimamente, con grandi sacrifici e onestamente, perché non vendo fumo. Ovviamente ho trovato persone che hanno creduto in me: Strehler, Abbado, Gavazzeni, Votto, Serafin che è stato quello che mi ha sentito per primo».
Mi riferisco non solo ad incontri con grandi maestri, ma anche ad altre occasioni.
«Una grande occasione è stata nel ‘60 quando ho inciso con la Callas. Stavo cantando a Bologna, al Duse, Rigoletto e il maestro Serafin mi ha chiamato per incidere Lucia, con la Callas appunto. Il maestro mi aveva sentito a Palermo che facevo il doppio, allora la casa discografica, che era la EMI cercava un baritono giovane (aveva 34 anni, ndr) e Serafin ha fatto il mio nome. Ecco il mio salto: da Bologna a Londra a incidere Lucia».
Cosa ti ha dato l’incontro con la Callas e la direzione di Serafin?
«Ѐ stata una grande impressione. Mi sembrava di essere un comprimario di fronte a tanti grossi artisti, perché c’era anche Ferruccio Tagliavini: mi sembrava proprio di essere un intruso. Poi un po’ alla volta mi sono ambientato. Serafin mi dava coraggio e mi diceva “Ragazzo canta, non ti preoccupare, tira fuori la voce”. Dal punto di vista interpretativo non ci sono stati problemi, perché fare il fratello, bonario o arrabbiato, non ci vuole molto. E dopo questa esperienza sono andato nei teatri principali come Vienna, ma la cosa più importante è stato il debutto alla Scala che mi ha aperto la carriera. E adesso dopo anni l’evento di maggiore soddisfazione è stato il Simone alla Scala. Posso dire che l’ho voluto fare io, in concordanza con Abbado, perché mi sentivo maturo per farlo. Mi sentivo pronto, diversamente da altri colleghi che si buttano a fare cose molto difficili. Il Simone, a parte le difficoltà vocali, presenta molte difficoltà interpretative e se non sei padrone della voce non ti puoi dedicare all’interpretazione. Non sai se pensare alla voce o a quello che devi fare: la voce deve andare da sola. E siccome il vestito del Simone lo calzavo bene, due anni dopo ho detto alla Scala: facciamo il Macbeth. Problemi vocali no, ma interpretativi talvolta sì. Io facevo certi gesti, assumevo degli atteggiamenti che poi frenavo, perché mi sembrava di fare troppo. Invece no. Sul palcoscenico alcune gestualità vanno fatte per farle vedere al pubblico: c’è la distanza dalla platea e la distanza rimpicciolisce tutto, quindi ci deve essere uno veramente preparato che ti guida, che ti dica quello che devi fare. Così è stato con Strehler e con Luchino Visconti con cui ho lavorato molto bene in una produzione di Trovatore».
Visto che hai parlato di registi, com’è il tuo rapporto con i registi? Quando devi interpretare un personaggio che tu hai già studiato, di cui ti sei già fatto un’idea, di cosa parli con il regista?
«Innanzitutto prima di studiare vocalmente un personaggio, lo studio storicamente come ho fatto con Macbeth: mi sono letto diverse cose per entrare nell’epoca. Dopo lo studio musicalmente cercando di collegare tutte queste cose. Poi mi incontro col regista e questo è un fatto molto importante. Parliamo di Strehler che è stato l’ultimo regista. Strehler ha un modo di lavorare fantastico. Con il Macbeth, ad esempio, lui aveva già preparato tutto e quando siamo arrivati, io e la Verret, ci ha preso in sala con il palcoscenico montato e lui passeggiando avanti e indietro ci ha spiegato cosa intendeva, come lo concepiva e ce lo ha esposto. Poi ci ha fatto vedere le scene ed è andato su lui con un’altra persona per farci capire quello che voleva. Ѐ un lavoro molto difficile, di pazienza».
Questo è un modo ottimale di lavoro, ma io vorrei sapere cosa succede quando le tue idee contrastano con quelle del regista.
«Beh, ci si ragione su e si cerca di mettersi d’accordo. Se le nostre idee sono diverse si parla, ma non per vedere chi ha torto o chi ha ragione: bisogna cercare di mediare le due posizioni. Io ho una personalità e non si può svuotare un individuo della personalità altrimenti diventa un automa e allora non rende più».
Può capitare che il regista non tenga conto di esigenze musicali che ignora.
«Anche questo è un fatto giusto, però certe volte gli artisti si incaponiscono per cantare sempre con la faccia verso il pubblico. Tante volte non è neanche necessario, perché la voce arriva lo stesso e se è necessario perché non cantare anche di spalle».
Ad esempio nel Macbeth di Milano tu venivi sballottato diverse volte dalle streghe e quando venivi rimesso in piedi e dovevi cantare ne risentivi di tutto questo tourbillon?
«In effetti era una cosa un po’ elaborata, ma poi si supera e cantavo, perché la voce ha sempre fatto quello che ho voluto io».
Sempre a proposito di questo Macbeth non ti sembra che il personaggio sia troppo debole, troppo schiavo di questa donna al punto che ci si dimentica che fosse un guerriero. Te lo chiedo come se tu fossi uno spettatore, anche se non ti sei mai visto.
«Purtroppo non mi sono mai visto. Vedi, Macbeth è un guerriero al di fuori della casa. Lui era succube della moglie, sessualmente era un succube e un uomo quando è preso sessualmente da una donna non capisce più niente. Fuori casa era un formidabile guerriero, un condottiero, un leone, ma in casa diventava una pecora con una moglie come Lady Macbeth che era tutto sesso. Questa era la visione che aveva dato Strehler ed è quello che penso anch’io. Lo istigava a fare un delitto e gli faceva capire che se non avesse fatto così non sarebbe andato più a letto con lei».
Insomma “chi non lavora non fa l’amore”.
«Sì, sì è proprio così – ride – sono perfettamente d’accordo».
E del Simone?…
«Beh, il Simone è tutto un altro discorso. Abbiamo usato lo stesso sistema di lavoro, ma il Simone ti prende molto di più dal alto umano: umanamente è una cosa eccezionale».
Ti senti più Doge o Macbeth?
«Direi che mi sento tutti e due: dipende da quello che sto cantando. Sono due personalità molto diverse: Macbeth è un freddo calcolatore, Simone è un uomo pieno d’amore, di affetto, di umanità».
Giro la domanda: ti diverti di più a fare Macbeth o Simone?
«Tutti e due».
Ridendo allora gli dico che non mi dà molta soddisfazione.
«Politicamente sono a posto».
E i Foscari?
«Anche i Foscari sono una cosa eccezionale, soprattutto l’ultimo atto. Tutta l’opera è bella, forse è un po’ vuota all’inizio, però c’è un ultimo atto che fa scoppiare, fa saltare il pubblico. Ѐ sempre per una questione affettiva: nel Simone c’è l’affetto verso la figlia e nei Due Foscari verso il figlio».
Sono molto curioso di sapere qualcosa del tuo incontro con Karajan quando hai fatto il Don Carlo.
«Ѐ stata una cosa molto simpatica l’incontro con Karajan, è stata una grande esperienza che ho fatto. Ho trovato un maestro che mi ha lasciato cantare come volevo, d’altra parte ho trovato dei grossi nomi che dei piccoli nomi che mi hanno lasciato cantare come volevo. Forse con altri colleghi non l’hanno fatto, ma con me lo hanno fatto tutti quanti. Con Karajan volevo dire che mi ha lasciato cantare più degli altri, perché ha abbandonato l’orchestra lasciandola con me, senza dirigere. Quindi la morte è venuta con dei pianissimi, dei rallentandi eccezionali».
Ma in prova ti ha detto qualcosa, ti ha dato qualche consiglio?
«Ti posso dire che l’anno scorso, quando l’ho cantato per la prima volta, non ho mai cantato in voce durante le prove. Quando siamo andati in orchestra ho cantato sempre in voce. Ho fatto la morte “per me giunto è il dì supremo”. Karajan non mi aveva mai sentito cantare, per lui si trattava di una novità. Ѐ rimasto allibito e mi ha applaudito dal podio e così tutte le sere mi mandava baci e mi applaudiva insieme a tutta l’orchestra: una cosa che mi ha dato una grande soddisfazione. Finito di cantare sono andato in platea. Com’è finito il quadro lui ha dato riposo all’orchestra, è saltato fuori dalla transenna del golfo mistico, è venuto verso di me e mi ha abbracciato e baciato: nota che eravamo tutti in platea. Poi mi ha detto che in quarant’anni non aveva mai sentito cantare così. Cosa che ha fatto lo stesso Bernstein alla prima di Don Carlo. Ѐ andato da Karajan a chiedere “Questo baritono da dove viene fuori?” – “Ѐ un baritono che canta da diversi anni alla Scala”. Poi è venuto in camerino e ti assicuro, te lo giuro sui miei bambini, piangeva. C’era anche mia moglie che è rimasta allibita».
Qualche intervento di Karajan sulla regia e sul canto?
«Mah, poca roba. Qualche posizione, più a destra o a sinistra e musicalmente alcune indicazioni tipo “più forte” o “più espressivo” in qualche recitativo, ma in sostanza non ha toccato niente».
Un’altra cosa ti vorrei chiedere: la tua opinione sui dischi. Ѐ una cosa valida o è un grosso falso, può servire didatticamente e la tua voce è riprodotta bene?
«Questo è un discorso molto complesso. Posso dirti solamente una cosa: qualche disco corrisponde a verità, cioè la mia voce risulta abbastanza a fuoco, però la più bella incisione dove la mia voce risulta com’è al naturale, è l’ultimo disco che abbiamo fatto: il Macbeth della Deutsche Grammophon. C’è una pulizia, una qualità formidabile di tutte le voci, dell’orchestra, del coro di Gandolfi. Ognuno di noi ha la voce che ha. Perché vedi ci sono degli artisti che sono esclusivi di certe case discografiche, quindi la casa ha più interesse a mettere a fuoco tecnicamente i propri, verso gli altri hanno minori interessi. Il disco può essere un buon documento se fatto ad hoc, altrimenti resta un bel ricordo. Dal punto di vista didattico non so. Prendiamo i dischi dei grandi del passato: ci si può fare relativamente un’idea di quello che sono stati i cantanti di una volta, perché il modo d’incidere era completamente diverso. Le voci sono sfasate. Si percepisce l’intenzionalità, la qualità, ma la quantità è una cosa diversa. Ascoltando l’intensità degli armonici ti dà l’idea di come poteva essere quella voce. Adesso le rifanno queste incisioni, ripulite tecnicamente, ma restano un falso. Musicalmente può servire se ci sono nomi validi e direttori d’orchestra validi, perché ci sono state delle esecuzioni inascoltabili».
A parte Cappuccilli chi è il tuo baritono preferito?
«Dei colleghi non parlo e anche andando al passato non so molto perché non volendo studiare canto, mi interessavo poco dell’argomento. Del passato oltre al grande Titta Ruffo, mi piaceva il modo di cantare di Galeffi, in certe opere Basiola per qualità e potenza di voce. Degli ultimi non parliamo, ma dei penultimi a me piaceva moltissimo Tagliabue che era una scuola di canto e l’ho sentito in teatro a fare Ernani, ma ti dico che mi è talmente entrato in testa che quando mi capita di fare Ernani penso a lui, perché faceva delle cose stupende e un po’ l’ho copiato. Abbiamo parlato dei penultimi e adesso parliamo degli ultimi: Bastianini e Protti che mi piacevano molto».