Gianni Raimondi, bolognesissimo, per almeno vent’anni è stato un tenore molto famoso che ha calcato tutti i più prestigiosi palcoscenici del mondo. Raimondi fu alla Scala nella Traviata della Callas, nella Bolena, fu il Rodolfo della Bohème di Karajan con Mirella Freni, sino al Pollione di Norma con la Caballé. Sia in Traviata che in Bohème, Raimondi dovette subentrare a Di Stefano, tanto famoso ed amato dal pubblico scaligero quanto impreparato e periclitante. Fu, insomma, in Scala il tenore delle situazioni disperate, o quasi. Delle opere difficili o impraticabili, perché se Corelli fu il Raoul di Ugonotti ben confezionati sulle sue capacità e paure, Gianni Raimondi nel 1965 fu Arnold del Tell, opera che anche con i tagli di tradizione è temibilissima. Era in natura dotatissimo ed estesissimo tanto è che nella prima fase della carriera, ossia sino al 1966, cantò frequentissimamente Favorita, Puritani, Don Pasquale e Guglielmo Tell, oltre che Rigoletto.
Come tutti i tenori lirici affrontò Bohème, opera che gli diede grande fama e notorietà, perché oltre alla Scala fu l’opera del debutto al Met. Nella seconda fase della carriera arrivarono opere più sostanziose come il Ballo in Maschera, I Vespri siciliani, Tosca sino alla Norma ed all’Otello.
Il cantante era dotatissimo in natura, soprattutto quanto ad estensione ed a facilità a sostenere tessiture scomode (per quanto ne so “la gelida manina” era sempre in tono anche negli anni 70, quando Raimondi ne aveva quasi cinquanta e venti di carriera e nella cavatina di Pollione il do era sempre presente all’appello), difettava il fraseggiatore. E questo nonostante la frequentazione con direttori che avevano indiscussa nomea di grandi concertatori e con colleghe come Madga Olivero, Maria Callas, Renata Scotto e Leyla Gencer, maestre di accento prima di tutto. Stupisce ancor più il limite perché Raimondi era un cantante di solidissima cognizione tecnica. Devo anche dire che la varietà di fraseggio nel dopoguerra non è proprio stata la caratteristica che ha contraddistinto alcun rappresentante della corda tenorile. Divissimi ancora in carriera o di recente scomparsi non hanno mai avuto il fraseggio fra le proprie peculiarità. Forse i più completi fraseggiatori della generazione di Gianni Raimondi sono stati il primo Bergonzi, il Kraus della seconda parte di carriera e, più di tutti il misconosciuto Alain Vanzo (2 aprile 1928 – 27 gennaio 2002 nato a Monte Carlo e morto a Parigi per un ictus) .
Il 15 febbraio 2007 mi riceve in casa, a Pianoro, dove abita già da un decennio. Dichiara subito i suoi ottantaquattro anni che porta con disinvoltura, sostenuto da quel fatalismo scanzonato comune nei bolognesi autentici.
«Sono nato il 17 aprile 1923 in quella strada che c’è dopo il ponte della Mascarella; in fondo alla strada ci stava la Frazzoni».
Le chiacchiere volano. La simpatia di Gianni Raimondi è molto accattivante e diventa difficile iniziare “l’interrogatorio” che mi ero preparato.
«Lo conosce quel signore lì?» e mi mostra una fotografia di Beniamino Gigli che tiene sul tavolo come un santino. «Gigli è il mio idolo, il più grande!» e si ferma un attimo a contemplare la fotografia, così riesco a fare la prima domanda:
Quando ha debuttato e quando ha lasciato il palcoscenico?
«Ho debuttato il 9 novembre 1947, Rigoletto, a Budrio e Rigoletto era il budriese Anselmo Colzani. Ultima opera 30 dicembre 1979, Macbeth, a Catania. Ho cantato in tutto il mondo ma in Giappone non ci sono mai andato».
Preferisce il repertorio romantico o quello verista?
«Il repertorio romantico richiede precisione: non ti lascia spazio, mentre nel verismo sei più libero».
A 33 anni, nel 1956, approda alla Scala con Traviata insieme a Maria Callas, dirige Giulini, regista Visconti. La sala del Piermarini gli si aprirà quaranta volte. «Dopo I Vespri, che inauguravano la stagione del ‘70, venne in camerino Riccardo Bacchelli e mi disse “…finalmente ho sentito un tenore dei miei tempi”, guardi solo a dirlo mi commuovo».
Mi racconta qualche aneddoto?
«Di aneddoti ne ho fin che vuole. Alla Scala facevamo Favorita, dirigeva Gavazzeni. Nel primo atto c’è da fare un do diesis nella romanza Una vergine, un angiol di Dio. Ero preoccupato e vado dal mio maestro a fare i vocalizzi. Quando arrivo alla fatidica frase mi salta fuori un do diesis pulitissimo. L’orchestra applaude e Gavazzeni mi dice: “Gianni, alle dieci del mattino, che do diesis, bravo!”. Intanto arriva la regista, Margherita Wallmann, che si rivolge a Gavazzeni: “Maestro, Raimondi e Ghiaurov hanno sbagliato il movimento” e la risposta fu che non interessava a nessuno se il tenore, dopo quella nota, sbagliava un passo».
Continua Raimondi, sorridente e felice di ricordare un passato che ha sempre vissuto in souplesse, evitando i clamori dei media, cosa che avrebbe potuto fare il tenore che più volte ha cantato al fianco di Maria Callas. Sono ben 270 le recite che lo hanno visto sul palcoscenico della Scala, protagonista di serate memorabili, alcune delle quali appunto nella Traviata del ‘56, con la regia di Luchino Visconti e la Violetta di Maria Callas. Non meno memorabile il suo Rodolfo accanto a Mirella Freni, nella Bohème del 1963.
Parliamo dei suoi colleghi…
«Ho sempre avuto un buon rapporto con i colleghi, anche se un po’ di rivalità ogni tanto saltava fuori. Per esempio: La bohème del ‘63 diretta da Karajan era in forse tra me e Di Stefano, ma il direttore voleva un tenore che avesse “un do sicuro”. Io di “do” ne avevo fatti tanti e Karajan mi aveva sentito, quindi scelse me. Alla prima, quando arrivo alla “speranza”, pianto un “do” bellissimo. Per fortuna, se mi veniva male ero rovinato!».
Lei è sempre stato amante di Riccione e mi pare che avesse anche una villa da quelle parti.
«Sì, in collina dietro a Misano. Eh, a proposito di Riccione! Un giorno sono in viale Ceccarini con un amico che mi dice: “Andiamo a prendere un aperitivo al Green Bar: il padrone è un patito per l’opera”. Entriamo, l’amico mi presenta e il padrone mi fa un sacco di feste, poi mi chiede se avevo cantato con la Callas e se era veramente brava. Certamente, rispondo, era bravissima. E lui ricorda che era morta da un anno, poi dice: “Sa, sig. Raimondi, se fosse morto lei avrei avuto meno dispiacere!”. Ho fatto un salto e ho cominciato a toccare tutto quello che avevo sottomano».
Ha lasciato il teatro a 56 anni e con tanta voce: perché abbandonare?
«Ho avuto un’allergia alla polvere di palcoscenico. Mi sono curato anche con il cortisone, ma non guarivo. No, mi sono detto, il cortisone a lungo fa male e dopo 33 anni di carriera posso fare a meno del palcoscenico».
Del palcoscenico sì, del canto no. Ha cantato ancora per diversi anni in concerti memorabili fino al 1991, lasciando attonito e plaudente il pubblico incredulo. Gianni Raimondi morì in casa domenica 19 ottobre 2008. Di Raimondi devo anche ricordare un piccolo dettaglio rivelatore, forse, della personalità, il semplice e misurato necrologio che Raimondi e signora (Gianni e Gianna) fecero pubblicare in un profluvio di parole inutili o di dimenticanze, sul massimo quotidiano milanese.
Queste riflessioni e questo ricordo consentono di rilevare come oggi, dopo stagioni che vedono i tenori titolari di Lucia o Puritani annegare sistematicamente, il teatro per regalare quelle serate che dalla cronaca possano aspirare alla Storia, ha assoluto irrinunciabile bisogno di cantanti come Gianni Raimondi.