Dittico di balletti per il centenario del “Sacre du Printemps”

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Lo schiaccianoci. Atto II dal balletto op. 71, da un racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
Igor Stravinskij : Le sacre du Printemps. Quadri della Russia pagana (in due parti)
Torino, 2 maggio 2013

Poco più di due decenni soltanto separano la prima rappresentazione dello Schiaccianoci di Čajkovskij (San Pietroburgo, Teatro Mariinsky, 18 dicembre 1892) e del Sacre du Printemps di Stravinskij (Parigi, Théâtre des Champs-Elysées, 29 maggio 1913); l’ascolto consecutivo dei due balletti ispira però un’impressione ben diversa: sembra che siano trascorsi due secoli di storia della musica tra la prima e la seconda composizione, e non soltanto per la qualità e le finalità narrative dell’azione coreografica. Nella programmazione dell’OSN della RAI, che ormai volge al termine di stagione, il concerto condotto dal direttore principale, Juraj Valčuha, ha assolto a due scopi davvero importanti: in primo luogo celebrare il centenario della clamorosa e (a suo tempo) scandalosa opera di Stravinskij, e poi illustrare come il Novecento delle avanguardie musicali sia capace non di soppiantare i modelli precedenti, ma di proporre un nuovo paradigma di narrazione coreutica della stessa provenienza geografica dei modelli precedenti: sono entrambi russi i compositori che estremizzano il destino del balletto, Čajkovskij con una musica che ha per traguardo la bellezza assoluta del magico e del fiabesco, Stravinskij con un’altra musica, che sale dal centro della terra e rappresenta tutta la violenza e la brutalità del ciclo vitale. Forse, però, se l’ascoltatore si concentra sulla qualità propriamente musicale dei due balletti, specie nella splendida esecuzione torinese offerta da Valčuha, si accorge di una sostanziale congruenza, sulla musica pura, autonoma rispetto a programmi di altro genere. Nello Schiaccianoci non importano tanto le avventure della piccola Clara, del principe e della fata Confetto, così come nel Sacre non importa tanto la successione delle varie danze di adolescenti, dello scontro di città diverse, dell’arrivo del vecchio saggio e dell’eletta; sono di volta in volta la bellezza candida del mondo infantile, e quindi il suo opposto, la violenza sanguigna del trapasso al misterioso mondo adulto, a diventare quasi i due atti di uno stesso balletto universale, esplorativo delle età dell’uomo e dei loro ancestrali stati d’animo: gioia fanciullesca e trauma religioso come tempi diversi di un medesimo cosmo.
In un progetto musicale del genere l’assenza della componente sceno- e coreografica è senza dubbio un vantaggio, poiché permette al pubblico di concentrarsi sulla quella grandiosità musicale cui si accennava. Né sarà stato casuale, per converso, che proprio i brani più celebri di entrambi i balletti comparissero, e non certo reificati a banale “colonna sonora”, in un capolavoro della cinematografia di animazione come Fantasia di Walt Disney (1940-1941): modelli musicali capaci di rappresentare, e di fare sbocciare in immagine, sia la bellezza sia la potenza distruttiva della natura (non importa se, alla fine, Stravinskij fosse piuttosto contrariato dall’utilizzo del Sacre all’interno del lungometraggio).    Valčuha ha un grande merito, nella prima parte del concerto: aver scelto di eseguire non la suite dal balletto, ma tutto quanto il II atto dello Schiaccianoci, con il suo impianto di due scene iniziali, del grande divertissement e del pas de deux che conduce al valzer finale: una sequenza meravigliosa che, se anche non collegata da un robusto filo narrativo, è resa congruente dall’omogeneità fiabesca, natalizia, gioiosa di ciascun brano. Sin dall’inizio (Nel castello incantato sul pan di zucchero) squilla l’ottavino, con un marcato effetto coloristico, che caratterizza tutta la lettura di Valčuha. Poiché in questo II non c’è vera drammaticità, il direttore insiste in maniera molto intelligente sugli effetti imitativi (dei fiocchi di neve e della purezza incantata dei luoghi visitati da Clara); per questo le arpe e lo xilofono hanno un ruolo di primo piano, anche nel corso delle varie danze etniche abbinate alle varie bevande (la cioccolata della danza spagnola, il caffè della danza araba, il thè della danza cinese, conclusi dalle suggestioni cosacche della danza russa trepak). Valčuha è perfettamente a suo agio nella direzione e nell’intesa con l’orchestra, e tutto è perfetto nella sua esecuzione, dalle sonorità all’incalzare dei tempi; l’intensità del suono degli archi è tale da conferire vitalità all’atmosfera della fiaba, e sottrarre alla musica quel rischio di dolciastro e di artificioso in cui potrebbe incorrere. Anche i particolari agogici minuziosi sono curati, come il diminuendo del tamburello nella danza araba o le micro-accelerazioni nel celebre Valzer dei fiori che chiude il divertissiment; ma il brano più bello è stato senz’altro Intrada, ad apertura del pas de deux, anche perché l’unico a essere caratterizzato da intensità malinconica e struggente: un attimo di suggestiva incertezza nel profluvio di tanto splendore e di manicaretti natalizi. Pubblico in festa, naturalmente, e copioso tributo di applausi a orchestra e direttore; tutto è pronto per il trapasso dall’apoteosi del bello alla forza brutale e misteriosa che unisce uomo e terra, morte e rinascita, lotta e primavera.
Sin dalla prima sezione del Sacre, il direttore mette a dura prova i legni (oboe e fagotto in particolare), richiedendo loro prestazioni virtuosistiche che esaltino la centralità dello strumento di volta in volta solista. Ed è una scelta molto felice, perché valorizza anche alcune cerniere musicali solitamente lasciate in ombra. Perfetti e saldissimi – come sempre – gli archi; magnifico il tempo delle Ronde primaverili (nella I parte, L’adorazione della terra), sostenuto dall’intera orchestra (con legni divenuti impeccabili); quello degli ottoni è autentico grido lancinante, ma trattenuto, come per squarciare ancora di più e dilaniare una ferita, specie nel Giochi delle città rivali, in cui si ritrova il punto sonoro più violento della I parte. Quale tipologia di suono è prediletta da Valčuha? Certamente quella nitida, che permetta di distinguere gli elementi di base; e allo stesso tempo quella che non è mai reboante, mai eccessiva. In seguito a tali scelte si apprezza moltissimo l’Introduzione (Largo) della II parte, con archi in pianissimo e trombe con sordina: è un momento di quasi-silenzio, tanto assordante quanto i momenti di pieno orchestrale. Nella Glorificazione dell’eletta il motivo dei corni in progressione diventa una melopea, se non dolce, almeno serafica nella sua arcaicità; e la sonorità scelta da Valčuha sembra rimandare al principio dell’opera, all’antico canto lituano enunciato dal fagotto solo. Nel ritmo processionale dell’Evocazione degli antenati torna protagonista appunto il fagotto (Andrea Corsi), cui è nuovamente affidato un compito virtuosistico, come per sottolineare le specificità del linguaggio musicale, pur nella violenza del rito pagano. Al culmine della processione, più che la brutalità regna la solennità, come se la liturgia fosse pienamente condivisa, e dunque affermasse ancora oggi la sua vitalità. Nelle varie riprese da parte delle trombe il direttore esalta la politonalità dell’impianto stravinskijano, ma con rigorosa attenzione ritmica, poiché il tempo resta metronomico: è segno del rispetto per l’idea stessa di sacre alla base dell’opera. Nella danza finale si scatenano le percussioni (Stefano Cantarelli ai timpani è spettacolare come sempre), cui segue la chiusa, rutilante, ma non eccessiva: trionfa ancora quella misura complessiva che Valčuha s’impone, e che sortisce un esito perfetto.
Immancabili gli applausi, prima liberatori nei confronti di un brano opprimente, doloroso, violento; poi altri ancora, molto più lunghi e convinti, di ammirazione per un direttore e un’orchestra che davvero hanno offerto il meglio di sé.