Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“DON CARLO”
Opera in quattro atti, libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle, dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller. Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini.
Musica di Giuseppe Verdi
Don Carlo, infante di Spagna RAMON VARGAS
Elisabetta di Valois BARBARA FRITTOLI
Filipo II, re di Spagna ILDAR ABDRAZAKOV
Rodrigo, marchese di Posa LUDOVIC TÉZIER
La principessa Eboli DANIELA BARCELLONA
Il grande Inquisitore MARCO SPOTTI
Un frate ROBERTO TAGLIAVINI
Tebaldo, paggio di Elisabetta SONIA CIANI
Voce dal cielo ERIKA GRIMALDI
Il conte di Lerma DARIO PROLA
Un araldo del re LUCA CASALIN
Deputati fiamminghi FABRIZIO BEGGI, SCOTT JOHNSON, FEDERICO SACCHI, RICCARDO MATTIOTTO, FRANCO RIZZO, MARCO SPORTELLI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Coreografia Leda Lojodice
Luci Sergio Rossi
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 11 aprile 2013, 1a rappresentazione
Il Don Carlo è «una delle vette del genio poetico verdiano. In essa Verdi ha trovato un colore nuovo, ha trovato la carie nera e profonda della controriforma e le circonvoluzioni e i festoni del grande barocco». Così, dopo una prima scaligera del 1960, annotava Eugenio Montale a proposito di un’opera che in passato non ha goduto di ottima stampa né di clamorosi successi di pubblico, e che oggi appare invece un esito complesso e sempre più affascinante dell’arte verdiana. Ottima dunque la scelta del Teatro Regio di Torino di riproporre un suo fortunato e fastoso allestimento risalente al giugno 2006, sia per rendere omaggio all’anno verdiano con un titolo impegnativo sia per commemorare il quarantesimo anniversario del “nuovo” Regio. Il vecchio teatro, bruciato nel 1936, fu infatti sostituito dall’attuale struttura, opera dell’architetto Carlo Mollino, a partire dal 10 aprile 1973: quella sera, esattamente quarant’anni fa, iniziò la storia del nuovo Teatro Regio, e iniziò nel nome di Verdi, con I vespri siciliani. Tutto questo è stato ricordato dal sovrintendente Walter Vergnano e dal sindaco di Torino Piero Fassino, che hanno introdotto la serata a sipario chiuso, prima di cedere l’aringo al melodramma di ascendenza schilleriana. Già nel 1990 il Regio aveva dedicato grande attenzione al Don Carlo, proponendo congiuntamente la versione francese in cinque atti, comprensiva di balletto e di scene solitamente espunte, e poi quella più ricorrente, in quattro atti e in italiano, che è anche l’attuale.
Gianadrea Noseda, direttore musicale del teatro, che ha inaugurato la stagione 2012-2013 con Wagner (Der fliegende Holländer), si cimenta con la difficile e stratificata partitura verdiana, e sortisce un esito molto interessante, originale, lontano da qualsiasi consuetudine esecutiva. Il direttore ha compiuto certamente un lavoro straordinario di concertazione, con i cantanti e ancor più con l’orchestra, che suona in modo eccezionale. Della lettura di Noseda colpisce la programmatica sistematicità: nel corso dei primi due atti si registra una graduale crescita delle dinamiche, e soprattutto un progressivo, calibrato incalzare dei tempi. A differenza del suo solito, infatti, Noseda apre l’opera staccando tempi molto moderati; addirittura trattiene l’orchestra in più punti di snodo, nelle frasi di collegamento, con effetto drammatico pregevole. Le prime accelerazioni ritmiche – secondo un’intuizione molto intelligente – coincidono con l’inizio del precipitare degli eventi, ossia con il concitato terzetto notturno tra don Carlo, Rodrigo ed Eboli; analogamente, le sonorità più imponenti si percepiscono in corrispondenza del dispiegarsi tentacolare del potere, ossia nel duetto tra Filippo II e Rodrigo. Noseda è analitico, non perché insegua temi o disegni specifici a discapito dell’effetto complessivo, ma perché esalta le componenti strumentali che caratterizzano ciascuna scena; in particolare i fiati (non tanto gli ottoni, ma i legni) sono quasi sempre in primo piano, e si alternano in una resa innovativa dei colori; anziché insistere sugli archi o sugli ottoni (l’opposizione sonora più tipica, corrispondente all’opposizione dei toni lirici contro quelli politici, della cosiddetta “ragion di stato” trasposta in musica), il direttore illumina il solitamente tetro Don Carlo con i colori vividi del flauto, dell’oboe, del fagotto; con il timbro caldo del violoncello nel grande monologo di Filippo II; con corni e trombe squillanti nella scena dell’auto da fé (perfetta nel dialogo polifonico di orchestra e banda dietro il palco).
Certo, qualche perplessità di carattere propriamente musicale e drammaturgico sussiste; per esempio, la suddivisione dell’opera in due grandi blocchi non funziona completamente (alcuni melodrammi in quattro atti si possono utilmente scindere in due metà; con il Don Carlo questo è meno plausibile, dato che tra I e II atto è una cesura netta, di tempo, di situazione, di finalità drammatica). E poi perché interpolare il rintocco delle campane di mezzanotte prima dell’avvio del II e del IV atto, e uno scampanio da giorno di festa prima della seconda parte del II atto? L’amplificazione di un elettrofono crea un effetto innaturale, non richiesto dal compositore (senza specificare che all’epoca della vicenda i rintocchi della mezzanotte sarebbero stati sei – in quanto calcolati come ore notturne a partire dal vespro – e non certo dodici).
Per quanto concerne gli interpreti vocali, la compagnia è di buon livello, in alcuni casi di ottimo livello, in altri – ma isolati – si muove con qualche incertezza tra le pagine dell’opera. Ramón Vargas ha schietta voce di tenore lirico, tendente al lirico-spinto, e non si può neppure dire che accusi evidenti difficoltà nelle note acute; però la voce è accompagnata da un’emissione faticosa ed eccessiva al tempo stesso, che mortifica il fraseggio e l’espressività. Il cantante (ascoltato per esempio nel gennaio 2012 alla Scala come straordinario protagonista dei Contes d’Hoffmann di Offenbach, vale a dire in una parte molto ardua) testimonia quanto sia difficile oggi disporre di un tenore capace di affrontare con disinvoltura il ruolo di don Carlo, che inizia l’opera con elegiaco lirismo per assumere un carattere sempre più drammatico; nei momenti in cui deve sostenere un’orchestrazione imponente, Vargas è costretto a forzare la sua voce naturale, e spesso ricorre alla fibra più che al fiato, al grido più che al canto (eccessiva, o comunque troppo marcata, appare anche la recitazione, specialmente a paragone con quella più nobile e misurata di Tézier nel ruolo di Rodrigo; quando poi è in presenza del severissimo Filippo II di Ildar Abdrazakov, le sue goffaggini lo fanno scomparire dalla scena, e nessuno più pensa che dovrebbe trattarsi del protagonista). Insieme a Filippo II, Rodrigo è il personaggio meglio delineato in termini musicali, e dunque la sua resa determina il successo drammaturgico di tutta l’opera: «Verdi ha fatto di lui un eroe, non un baritono», come scrisse acutamente Eugenio Montale. A Torino l’eroe c’è, prima di tutto perché c’è un baritono eccezionale come Ludovic Tézier; cavata e colore sono quelli del baritone grand-seigneur, e in più spiccano il vibrare degli armonici e l’autorevolezza del porgere. Considerato il volume ragguardevole della voce di Tézier, è un peccato che gli acuti non siano tutti perfettamente coperti, specie nei primi due atti dell’opera. Ma nobiltà ed eleganza, che raggiungono la più alta intensità nel duetto del III atto e nella scena della morte, forgiano un’interpretazione così coerente e virile da annullare i piccoli difetti iniziali.
Ildar Abdrazakov è un Filippo II del tutto convincente, per fermezza, omogeneità, sicurezza e risonanza della voce. I momenti più significativi della sua interpretazione coincidono con il duetto con Rodrigo nel I atto, e con le prime due scene del III: nel dialogo con il baritono ogni intervento è scolpito con un fraseggio autorevole e grandioso; ma dalle mezze voci come dagli scatti nervosi traspaiono sia la severità sia la tragica solitudine del monarca. L’arioso che apre il III atto («Ella giammai m’amò») ottiene l’applauso più prolungato dell’intera serata; con voca chiara e con perfetta pronuncia italiana, il basso porge le parole rivelatrici dell’animo di Filippo non in atteggiamento trasognato o allucinato (come per lo più gli interpreti usano oggi) ma con realistica lucidità, come si addice a uomo ossessionato soltanto dal potere e dalla smania di esercitarlo. La recitazione di Abdrazakov nella grande scena dell’auto da fé si potrebbe riassumere con le parole di Alessandro Manzoni: «quel viso serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II […] pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia». Ma è nelle scene più intime che il cantante – evidentemente coadiuvato dal regista – rappresenta tutta la dolorosa solitudine del sovrano; quando ascolta le denunce di Rodrigo nei giardini della regina soffre, si dispera, agita le braccia sulla panca di pietra dove si è seduto; da sovrano diventa uomo allorché confida la propria tragedia a Rodrigo, il quale per un attimo si siede sulla stessa panca, come se i due potessero stare alla pari. Nel duetto con il grande Inquisitore (Marco Spotti) è la sua ponderata gestualità a tradire l’insofferenza contro le pretese dell’inquisizione: chiude con violenza un’anta dell’austera libreria, leva le braccia in segno di minaccia, il tutto senza teatralità ostentata, bensì con la naturalezza del vero attore.
Daniela Barcellona debutta nel ruolo della principessa Eboli, con un’interpretazione vocale interessante, un po’ discontinua anche se in crescendo: le cadenze della “Canzone del velo” nel I atto sono rapidissime, enunciate a piena voce (quasi gridate), mentre le agilità risultano semplificate (quasi spianate: ed è paradossale per un’esperta cantante rossiniana come lei). Al contrario, nel terzetto notturno rivela la sua perfetta identità vocale di perfida e intrigante cospiratrice; gli acuti della stretta sono lame taglienti, impeccabili nell’intonazione e nella tenuta. Analogamente molto intenso il duetto con Elisabetta nell’atto III, seguito dall’aria «O don fatale», culmine del tutto persuasivo della prova della Barcellona, momento di canto al femminile che ottiene dal pubblico il più ampio consenso.
Di Barbara Frittoli dispiace constatare come rappresenti l’anello veramente debole nella catena delle voci principali; è sempre delicata ed espressiva, ma quando dovrebbe manifestare dolore, collera, disperazione, la leggerezza della voce impedisce un canto bene impostato. Il soprano è dunque costretto a forzare, con distorsione del timbro e con effetti discutibili, anche nei pezzi d’insieme. Il meraviglioso quartetto del III atto («Ah! Sii maledetto, sospetto fatale») è davvero funestato dagli strilli (o, non meno fastidiosi, dai difetti d’intonazione) della Frittoli, che in tale concertato rivela la sua quasi totale estraneità alla vocalità di Elisabetta. Nell’aria del IV atto «Tu che le vanità conoscesti del mondo», pur fraseggiando in modo apprezzabile, il soprano fatica a reggere la tessitura e le sonorità orchestrali, e giunge al duetto finale quasi esausta. Marco Spotti è un Inquisitore autorevole, per lo più degno del confronto con Abdrazakov nel celebre duetto, anche se si percepiscono una certa difficoltà nell’emissione degli acuti e alcune risonanze di gola. Molto corrette e professionali tutte le parti secondarie, dal frate di Roberto Tagliavini, voce chiara ma robusta, al Tebaldo di Sonia Ciani, musicale e spigliata, alla Voce dal cielo di Erika Grimaldi, fino alle due voci tenorili di Dario Prola (conte di Lerma) e di Luca Casalin (araldo del re) e al gruppo di bassi nella parte dei Deputati fiamminghi. Ottimo, come sempre, il coro del Regio istruito da Claudio Fenoglio.
L’allestimento di Hugo de Ana, curatore di regia, scene e costumi, può essere definito con un solo aggettivo: impeccabile. La semplicità dell’impianto (due grandi pilastri, cui sono addossate tortili colonne barocche, in movimento dagli estremi ai fuochi del palcoscenico), la cura capillare per la recitazione e la gestualità degli interpreti, la ricchezza sempre funzionale dei costumi, degli oggetti scenici (come i simboli del potere autocratico e religioso nell’auto da fé, dallo scettro al tabernacolo fumigante), le maschere sfarzose e inquietanti al tempo stesso durante il preludio all’atto II, la colossale statua di Carlo V nel finale sospeso e irreale, le luci imprevedibili e sempre esatte di Sergio Rossi, le sobrie coreografie di Leda Lojodice, tutto insomma in questo spettacolo dimostra come il rispetto per il testo musicale e per le esigenze drammaturgiche abbia un esito di premiante coerenza, e renda superfluo il dibattito (ormai divenuto insopportabile) tra regie tradizionali o moderniste. Per servire la musica di Verdi, l’impostazione di de Ana del 2006 resta ancora oggi modello di eleganza e di buon gusto interpretativo. Grandissime le acclamazioni del pubblico al termine dei vari atti e alla fine dell’opera: di gran lunga superiori rispetto a quanto accade solitamente alle prime torinesi; ma, d’altra parte, oltre alla bellezza dello spettacolo e alla grandezza della musica, si festeggia il teatro stesso. Dopo i ringraziamenti al coro e al suo maestro, ai singoli cantanti, al direttore d’orchestra (che riceve un’ovazione) e al regista, alla fine anche l’orchestra compare sul palcoscenico, prima dietro i cantanti, poi in primo piano: è una gioia vedere risplendere il legno degli archi e l’ottone di trombe e corni, mentre il pubblico raddoppia l’entusiasmo! Poi i tromboni attaccano Happy birthday to tou, e a loro si uniscono altri strumenti; anche gli auguri “ufficiali” sono così intonati per il Teatro Regio, che davvero è tutto lì, presente e vivo, su quelle tavole di palcoscenico, come nella platea festante, con un’immensa gioia di esistere e di condividere; non è forse questo, la musica?