Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”, I Concerti del Lingotto 2012-2013
Orchestra Sinfonica del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo
Direttore Valery Gergiev
Pianoforte Nobuyuki Tsujii
Giuseppe Verdi : Ouverture da La forza del destino
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in si bemolle minore op. 23
Dmitrij Šostakovič : Sinfonia n. 5 in re minore op. 47
Torino, 8 aprile 2013
Un giovane pianista giapponese capace di affrontare i grandi concerti del repertorio romantico è un fenomeno artistico al quale il pubblico è abituato da molti anni, che suscita sempre ammirazione e simpatia. Quando però si ascolta un pianista giapponese venticinquenne, non vedente dalla nascita, suonare il concerto n. 1 di Čajkovskij con straordinaria abilità tecnica, con impeccabile controllo della tastiera, con inflessibili concentrazione e intensità esecutiva, e in più con totale umiltà e semplicità, allora all’ammirazione si aggiungono stupore, commozione, riflessione sul potentissimo valore dell’arte e sulla sua forza compensativa, almeno nella vita di uomini non comuni. Di fronte alla minuta, mobilissima persona di Nobuyuki Tsujii, alla sua esplicita felicità nel cimentarsi con un testo musicale tanto bello quanto impervio, ognuno di noi non è più nella veste di pubblico davanti a un esecutore, non è più spettatore davanti all’artista e al professionista dello strumento, ma diventa testimone della vera humanitas, di quei caratteri perenni che troppo spesso l’uomo dimentica, e che invece l’arte e la tenacia degli artisti straordinari obbligano a riconsiderare, come per la prima volta. L’esito di chi si impegna in un tale sforzo sconvolge anche chi assiste; il miracolo è avvenuto, lo si può commentare, ma guai a interrogarsi sul perché sia avvenuto. Vi sono manifestazioni dell’arte, le cui motivazioni restano misteriose: impongono il rispetto, con il silenzio, con le lacrime agli occhi; soprattutto il critico, talvolta, non deve fare altro che tacere.
Il concerto n. 1 per pianoforte e orchestra di Čajkovskij non apriva la serata all’Auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto di Torino con l’Orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, ma ne era certamente il momento più atteso, grazie alla presenza di Tsujii; ed è giusto renderne subito conto, come conviene a una circostanza eccezionale. Il pianista entra accompagnato dal direttore, prende posto allo strumento e attacca con molta naturalezza, sgranando note, gruppetti, arpeggi e agilità senza alcuna esitazione; anzi, più il passaggio è irto di difficoltà (come nella lunghissima cadenza del I movimento, Allegro non troppo e molto maestoso, o al centro del III movimento, Allegro con fuoco), più Tsujii accentua la capacità di legare frasi e periodi, per conferire alla musica sempre più fluidità, in un crescendo d’intensità e di ritmo. Il carattere emozionante dell’esecuzione non è racchiuso nell’espressione dei sentimenti, ma nella forza del suono, nella vitalità di ogni singola nota, in particolare di quelle acute, lame d’acciaio in un cielo luminoso e terso. L’Andantino semplice che costituisce il II movimento scorre rapido e pacato come una parentesi di lirica pace in mezzo a duplice, fragorosa burrasca. Nel movimento finale l’accompagnamento di Gergiev assume infatti tratti espressionistici, soprattutto nel vortice dei fiati (oboe, flauto, clarinetto) in dialogo continuo con il pianoforte. La conclusione liberatoria e trionfale è salutata dal pubblico con martellanti applausi, rivolti soprattutto al pianista; e Tsujii ringrazia, inchinandosi su ogni lato del palcoscenico, con la semplicità e la naturalezza dei magnanimi. Gratificato dall’entusiasmo crescente, il pianista torna allo strumento e attacca la parafrasi di Liszt del quartetto «Bella figlia dell’amore», dal Rigoletto: la suona con grazia, e con l’usuale resa capillare di tutte le difficoltà tecniche. Ma il bis è soprattutto un omaggio al pubblico italiano, e all’amore per il melodramma verdiano in un anno speciale: altro gesto indimenticabile di generosità e di sincerità di Nobuyuki Tsujii.
Con l’operista di Busseto il concerto si era aperto, perché Gergiev aveva diretto la sinfonia dalla Forza del destino, puntando soprattutto sulle pause (lunghissime) tra una sezione e le altre nella prima parte, e poi sull’evidenza dei fiati e dei pizzicati dell’arpa. Nel finale, mentre gli archi legano le frasi in strette ballettistiche, anche i corni disegnano in sottofondo striature morbide e sinuose, che ammiccano già al Čajkovskij seguente: giusto fragore e languore à la russe, molto personale. Un Verdi sui generis, ma godibilissimo, specie in quel momento bisognoso di piglio e di originalità come la pagina iniziale di un concerto. Stupisce, dunque, il confronto tra questo eseguito a Torino e il Verdi del Macbeth, che Gergiev sta dirigendo alla Scala, ma in maniera inspiegabilmente scialba, senza alcun vigore (e forse anche senza troppa passione).
Il programma torinese è invece di per sé appassionante, nella sua struttura tradizionalmente “cronologica”: del 1869 è l’ouverture verdiana, del 1874 il concerto solistico. E dopo l’intervallo il direttore rientra per guidare la “sua” Orchestra di San Pietroburgo nella Sinfonia n. 5 di Šostakovič, ossia in un grande classico del sinfonismo russo del Novecento, tutto sospeso tra apparente esaltazione della politica stalinista e abile canzonatura dello stesso regime (è del 1937, ed è accompagnata in partitura dalla celebre chiosa: «Risposta pratica d’un artista a una critica giusta»). Ancora oggi, quando la televisione russa trasmette un’esecuzione della V Sinfonia di Šostakovič, si usa commentare che evidentemente è morto un dirigente della Nomenklatura …
Nel I movimento (Moderato) Gergiev esalta le contrapposizioni di sonorità: in un’atmosfera sobria, anche se con un tempo di base staccato piuttosto rapidamente, tanto sono netti gli accordi dell’arpa quanto il flauto nel suo assolo appare come imbarazzato, incerto, offre l’idea di una magnifica fragilità. Sono gli interventi dell’arpa a definire la “temperatura sonora” nella prima metà del brano, perché con il demoniaco ingresso del pianoforte tutto cambia: in un attimo le percussioni diventano padrone della scrittura sinfonica, che si gonfia fino al parossismo. È quindi un incanto il ritorno tenue del flauto; che poi si accompagna a un corno, grottesco e burlone; per lasciare spazio alla raggelante celesta, nella chiusa del movimento: ecco dispiegata tutta l’ambiguità stilistica e semantica del lavoro. L’Allegretto è forse il brano più ambiguo, anche se manca il clangore delle percussioni; il precedente effetto del corno è ripreso dai disegni maliziosi del primo violino, e Gergiev insiste sui flebili ricami degli altri archi: che cosa vorrà dire? Forse che si sta preparando un momento assai più complesso, come il III movimento (Largo), in cui l’incertezza e la malinconia regnano incontrastate. Il direttore calibra sullo stesso piano i tremuli degli archi in pianissimo con la nuova incertezza lamentosa dei flauti (che diviene così la cifra della sua lettura, ben più importante dei tratti magniloquenti affidati a timpani, tamburi, gong rangolanti e ottoni squillanti). Tutto appare contrapposto, speculare, rispetto all’irruenza del I movimento; anzi, Gergiev riesce a contemperare la mestizia sussurrata con il fragore grazie alla peculiare espressività con cui si sofferma proprio sul penultimo movimento. In attacco del finale (Allegro non troppo) le risonanze dell’arpa – nuovamente marcate – creano un collegamento con l’inizio della sinfonia, prima della sezione trionfale e della grandiosa coda, in cui il direttore continua a esaltare l’ambiguità di gesti e stile pompier ridisegnati dal realismo sovietico.
Applausi altresì trionfali (ma di trionfo autentico) commentano l’esecuzione della sinfonia, e predispongono a un bis dell’orchestra: una scelta praticamente d’obbligo, nel 2013, considerato che il concerto si era aperto con Verdi, e con un Verdi parafrasato da Liszt si era conclusa la prima parte. È dunque il turno di Wagner, di cui Gergiev presenta il Preludio del Lohengrin come una poesia lirica e mistica, tutta protesa verso l’alto: ottima purificazone, dopo tanto furore, dopo tante esplosioni sonore.