Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Christopher Hogwood
Soprano Bernarda Bobro
Tenore Jeremy Ovenden
Baritono Kay Stiefermann
Coro della Radio Svedese
Maestri del coro Peter Dijkstra e Florian Benfer
Coro “Maghini”
Maestro del coro Claudio Chiavazza
Fortepiano Fulvio Raduano
Joseph Haydn: Die Schöpfung (La Creazione), oratorio in tre parti Hob XXI n. 2 per soli, coro e orchestra, su testo di Gottfried van Swieten, tratto dal Paradiso perduto di John Milton
Torino, 4 aprile 2013
In molte opere di musica sacra dell’età neoclassica e romantica, vale a dire di Mozart, Beethoven, Schubert, è frequente la presenza di un brano animato da una gioia speciale dell’uomo: quella dell’appagamento di un’autentica fede religiosa, e del piacere di manifestarla. La musica prevede dunque un’accelerazione del ritmo, ossia una forma fisica che denuncia passione ed entusiasmo. Die Schöpfung di Haydn non rientra tanto in tale dinamica, perché è tutt’un prodigioso susseguirsi di professione di fede, senza mai un attimo di ripiegamento; un continuo inno di lode alla creazione e al creatore, senza che intervenga mai la poetica del dolore, senza che si accenni mai alla disperazione dell’uomo, poiché la rappresentazione si situa prima della cacciata dei proto-parenti dal paradiso terrestre, prima che il dolore avesse corso libero nella vita dell’uomo, prima che – per alludere subito al substrato letterario dell’ispirazione haydniana – l’orizzonte diventasse quello del Paradiso perduto. Ed è come se anche la musica fosse una forma espressiva ancora vergine da qualunque tipo di languore e di angoscia, un’arte completamente gioiosa, ideale, rappresentativa di un mondo primigenio e incantato dove il male non esiste.
La stagione dell’OSN RAI raggiunge l’apice della sua offerta qualitativa, con un duplice appuntamento post-pasquale centrato sull’ambientazione sacra e oratoriale: prima la Creazione di Haydn, e a seguire il Messia di Haendel. Auspice della fortuna del primo titolo è il direttore, recentemente definito “il Karajan della musica barocca”, Cristopher Hogwood, che a Torino è stato di recente apprezzato quale concertatore del Don Giovanni mozartiano al Teatro Regio, e che ora guida in maniera impeccabile l’OSN RAI nel capolavoro di Haydn. Ma occorre subito riconoscere pari merito alla stessa orchestra, che non finisce di stupire per la sua duttilità, per la capacità davvero straordinaria di lasciarsi plasmare e di rispondere alle richieste più disparate in tempi ravvicinatissimi: in un mese si sono avvicendati concerti di sinfonismo slavo e russo del Novecento, poi un ritorno al repertorio romantico di area tedesca, poi musica americana della metà del XX secolo, e ora il grandioso oratorio composto tra 1796 e 1798, quando Haydn aveva ormai quasi settant’anni («Io non fui mai così pio come nel periodo in cui scrissi La Creazione: quotidianamente cadevo in ginocchio e pregavo Dio affinché mi desse la forza per portare a compimento il lavoro», avrebbe ricordato in seguito all’esperienza compositiva).
Nell’iniziale rappresentazione del caos, che precede la settimana della creazione divina, Hogwood trattiene i ritmi e le sonorità orchestrali in modo che non vi sia nulla di brutale: domina piuttosto una sospensione che identifica il caos con la disarmonia, non con la confusione; ogni segmento musicale è pronto a innestarsi su altri, ma sempre quelli sbagliati, come se le regole canoniche dell’armonia ancora non esistessero, perché manca ancora quella grammatica di Dio – l’ordine universale – dalla quale tutte le altre derivano. Poi prende avvio la narrazione della creazione, con gli interventi di Raffaele, Gabriele, Uriele e il coro. I personaggi dell’oratorio sono interpretati da tre cantanti: il soprano Bernarda Bobro (Gabriele, Eva), il tenore Jeremy Ovenden (Uriele), il baritono Kay Stiefermann (Raffaele, Adamo). La voce cristallina, tersa e leggerissima di Bernarda Bobro è particolarmente adatta al canto della Creazione: ogni frase è impostata sul fiato, risuona eterea, è scandita da un fraseggio purissimo. Jeremy Ovenden (ascoltato due anni fa alla RAI nella Passione di Gesù Cristo di Salieri, quello stesso compositore che alla prima esecuzione privata della Creazione, nel 1798, sedeva al clavicembalo) ha voce bene impostata “in avanti”, ma soltanto nelle note centrali; riscaldandosi, fornisce una buona prestazione, per esempio nel maestoso recitativo della I parte «In vollem Glanze / steiget jetzt die Sonne strahlend auf» (In pieno splendore / ora sorge raggiante il sole, nella traduzione italiana di Olimpio Cescatti acclusa al programma di sala). Non altrettanto felice il suo intervento nel terzetto della II parte «In holder Anmuth stehn» (Con grazia eletta s’ergono), specie per gli acuti un po’ velati e dal timbro sbiancato. Nell’aria di Uriele della II parte «Mit Würd’ und Hoheit angetan» (Fatto con dignità e nobiltà) Ovenden canta correttamente, ma forse non rende in modo adeguato la nobile simpatia del testo, in cui si rappresenta la creazione dei tratti fisici umani; se la cava meglio con gli acuti in pianissimo del Largo «Aus Rosenwolken bricht» (Dalle rosee nubi irrompe). Kay Stiefermann ha una bellissima voce di baritono chiaro, estremamente uniforme ed elegante, correttissima nell’emissione vocale, incisiva nei frequenti recitativi di Raffaele; senza dubbio molto adatta alla vocalità barocca, ma forse non perfettamente adeguata a ruoli di basso tout court. La parte di Raffaele richiede infatti note basse piuttosto solide, come nell’aria della I parte «Rollend in Schäumenden Wellen» (Rimbombando in spumeggianti onde), e in tali circostanze Stiefermann, pur a suo agio negli acuti e negli attacchi in pianissimo, risulta un po’ troppo leggero. Il verso iniziale di quest’aria ricorda l’analoga tipologia melodrammatica dell’aria “di tempesta”, sempre presente nel teatro di marchio metastasiano. E al pari di quanto accade nel melodramma, all’aria concitata basata sulla similitudine dell’elemento marino o fluviale sconvolto, segue un momento assai più disteso e pacato: ed è l’Andante affidato a Gabriele «Nun beut die Flur das frische Grün» (Ora la pianura offre la fresca verzura), che la Bobro canta mirabilmente, specie nell’impegnativa cadenza; è opportuno osservare come, nel caso di questo soprano, la leggerezza diafana della voce possa diventare una virtù, anche perché l’arcangelo sta magnificando con tono di meraviglia l’incanto del creato; la componente di potenza, derivante dal gesto del creatore, non deve essere insita nella voce, bensì nell’accompagnamento orchestrale, visto che agli archi si aggiunge un poderoso ottone (nella fattispecie del corno, anch’esso messo a dura prova da una tessitura impervia).
Ancora a proposito delle apparenti analogie tra musica sacra di Haydn (e oratorio settecentesco in generale) e melodramma, Hogwood riesce a evitare ogni tipo di possibile confusione o sovrapposizione, perché esalta le componenti più pure della struttura musicale (per esempio la nettezza della fuga e del contrappunto nel coro «Stimmt an die Saiten / ergreift die Leier», Intonate le corde, / afferrate le cetre!). Al centro non è dunque la ricerca di affetti capaci di suscitare passioni, come nel canto degli eroi teatrali, ma una riflessione razionale e al tempo stesso naturale sul mistero della creazione. Plasmando il suono alla ricerca dell’omogeneità e della perfetta resa coloristica (con gli strumenti obbligati, o anche soltanto con poche battute in cui un singolo strumento o una famiglia diventino protagonisti, imponendosi sul tessuto sonoro generale grazie alle numerose simmetrie di cui la partitura è sostanziata), Hogwood accentua quell’effetto imitativo che costituisce la principale differenza tra la musica profana e la musica sacra di Haydn: non gli affetti interni all’uomo, ma la meraviglia dell’uomo in quanto creatura di Dio, inserito nell’armonia e nella luminosità del cosmo. Delizioso, dunque, il fagotto di Elvio Di Martino che imita il tubare delle colombe nell’aria di Gabriele «Auf starkem Fittige schwinget sich / der Adler stolz» (Su possente ala si slancia / l’aquila superba), con il soprano che si sofferma con espressiva dolcezza sulla parola Liebe («und Liebe girrt das zarte Taubenpaar», e tuba amore la tenera coppia di colombi), e con il flauto di Giampaolo Pretto che ovviamente imita i gorgheggi dell’usignolo. Tutto è sereno e aggraziato: perfino l’evocazione del Leviatano, nel terzetto della II parte («Vom tiefsten Meeresgrund / wälzet sich Leviatan», Dal più profondo abisso marino / riaffiora il Leviatano), non ha nulla di terrifico, e non è scandita se non da alcune sottolineature dei contrabbassi.
Sulla base di tale culto dell’armonia, i momenti più significativi della partitura sono costituiti dai pezzi d’insieme, delle tre voci più il coro: la resa esecutiva, grazie all’ottima prova dei due cori (congiunti e perfettamente integrati tra loro per merito dei tre maestri) infiamma il pubblico torinese, che tributa calorosi applausi alla fine di ciascuna delle tre parti, e in particolare alla conclusione dell’oratorio. Siccome le arie dei personaggi non hanno la struttura tripartita come nel melodramma, bensì un’articolazione più semplice, la rappresentazione delle giornate della creazione può giovarsi di un ritmo più svelto; Hogwood lo accelera ulteriormente nella III parte, quando diventano protagonisti Adamo ed Eva, impegnati in una lunga sezione catalogica e rappresentativa («Von deiner Güt’, o Herr und Gott», Della tua bontà, o Signore e Dio, che non si risolve mai in semplice duetto d’amore). Comincia la storia umana, con i due (per ora) felici abitatori del paradiso terrestre; e al loro (in)canto si aggiunge il coro finale, invitando appunto alla preghiera. Con le parole dell’eternità («Des Herren Ruhm, er bleibt in Ewigkeit. / Amen», La gloria del Signore resta in eterno. / Amen) l’oratorio si chiude in un’armonia trionfante: soltanto la musica riesce a fissare in un fenomeno fisico (il suono) di eterna universalità la lode di tutto quello che Dio ha consegnato alla storia e a un tempo finito. Chi ascolta Die Schöpfung, ha per un attimo la sublime illusione che la mortalità non riguardi né l’uomo né il mondo.