Rilassata, tranquilla, affabile e disponibile ad essere intervistata. Così si presenta nella sua casa di campagna a Castelnuovo che, nonostante sia Marittimo, è inerpicato sulle colline livornesi, Anita Cerquetti. Nella storia dell’opera è stata una meteora e come tale splendida, ma di brevissima durata. Siamo accolto festosamente dal famoso soprano e dal marito, circondati da alcuni parenti. Ci sediamo tutti attorno ad un tavolo, così alla buona e subito provvedono ad offrire un buon vino della zona. La signora Cerquetti si accende una sigaretta e non sarà l’unica nella serata. L’incontro si apre quindi sotto i migliori auspici. Parliamo. Mi sono preparato una valanga di domande.
Ci racconta un po’ dei suoi inizi di carriera?
«Il mio paese si chiama Montecosaro, in provincia di Macerata, dove sono nata il 13 aprile 1931 e ho debuttato in Aida a Spoleto nel 1950, a 19 anni; dirigeva il m° Ottavio Ziino. Vinsi il concorso a Spoleto e avrei dovuto fare Suor Angelica, perché non c’era Aida in programma, c’era il Trittico di Puccini e quella era l’unica opera drammatica. Poi durante le prove dissero che ero sprecata per fare un’opera in un atto e così decisero per l’Aida. L’ultima che ho fatto è stato il Nabucco ad Amsterdam».
La loquacità della Signora è affascinante quanto travolgente e tumultuosa; difficile redigere un racconto ordinato. Parla della sua breve e trionfale carriera con entusiasmo e, almeno in apparenza, nessun rimpianto. Si è ritirata nel ‘60, giovanissima, a 29 anni.
In Emilia ha cantato?
«Dalle vostre parti ho cantato a Reggio Emilia: feci Loreley con Bergonzi e il baritono Campolonghi, poi il Trovatore credo con Filippeschi e Aldo Protti. A Modena: Trovatore e Forza del destino. A Bologna un’Aida all’aperto in Piazza Maggiore. Dovevo cantare a Parma un Nabucco, ma saltò perché mi venne un’appendicite d’urgenza. Con Bergonzi ho cantato molte volte: ho fatto Trovatore, Forza, Don Carlos, Ballo, Aida, ma non riuscivo a vederlo come un guerriero; Carlo però aveva una linea di canto perfetta. Ho studiato a Firenze e lì ho cantato tanto: Nabucco, Norma al giardino dei Boboli, Gioconda, Don Carlos, Ballo in maschera, la Forza, gli Abencerragi di Cherubini, Ernani».
Quanti ricordi, tanti ricordi di persone… di voci?
«A me mi colpì la voce di Gino Penno, poi Bastianini, anche Björling nel Ballo in maschera a Chicago, anche se era un momentino usurato. Corelli a me piaceva molto; la Norma la faceva molto bene: l’ha fatta con me. Poi l’ho sentito in Carmen e mi piacque tanto. Un’altra voce che mi è sempre piaciuta moltissimo era quella di Di Stefano». Il colloquio si perde in mille rivoli difficili a governare. E’ evidente che gradisce la nostra testimonianza d’affetto e di stima.Riportiamo il discorso su un argomento preciso.
La sua voce, com’è stata educata e come ha superato eventuali problemi tecnici?
«No, problemi vocali non ne ho incontrati. La voce l’avevo impostata naturalmente. Lo studio mi è servito per ampliare la voce come volume, per cercare lo stile e la linea di canto. Avendo cominciato giovanissima ne avevo proprio bisogno, ma problemi vocali veri e propri non ne ho mai avuti. Per esercizio studiavo opere leggere, ma eseguivo opere drammatiche. Per esempio mi esercitavo facendo la romanza della Semiramide, del Flauto magico. Fortunatamente mi sono trovata una voce piuttosto forte e abbastanza duttile. Io poi avevo studiato il violino per sette anni, quindi la musica la conoscevo e gli spartiti potevo studiarmeli da sola, anche se suonavo con una mano, cioè la parte del canto».
Possiamo quindi dedurre che la sua voce sia stata un raro esempio di soprano drammatico di agilità naturale.
«Sì, è proprio così anche se all’inizio mi chiamavano lirico spinto; mi veniva tutto molto spontaneo. Qualche volta ho dovuto ritoccare alcune note: aprire questa, chiudere di più quella. Il mio passaggio era sul si bemolle che veniva meno brillante delle altre e allora con il mio maestro, il m° Rossini, studiavo e mi riascoltavo. Problemini qua e là, ma sempre risolti. Certe volte dipendeva da come e con chi avevo studiato un’opera. Mi capitò con la Forza, imparata un po’ così alla carlona, tant’è vero che quando l’ho dovuta fare nei teatri ho dovuto ristudiarla. Nella Forza, comunque, non sono mai riuscita a rendere quello che volevo. Certi effetti vocali che avrei voluto fare non mi riuscivano. Ecco cosa mi dava fastidio: stare zitta per tanto tempo e poi saltare fuori con l’aria. Guardi, dover attaccare con Pace mio Dio a voce fredda, quando ti sei scaricata psicologicamente, è tremendo. In quei lunghi intervalli non sapevo cosa fare; andavo in camerino a cantare non tanto per la voce, ma per tenermi caricata.
Mentre invece un’opera che mi piaceva da matti era il Trovatore, per me era un divertimento: era come andare in ferie, non mi stancava per niente. Molto impegnative per la voce erano Nabucco e Norma, ma la Norma non mi stancava vocalmente, mi stancava fisicamente. Alla fine ero distrutta, crollavo sulla sedia. Un’opera che avrei voluto fare era Carmen: mi è sempre piaciuta. La mia voce andava dal do acuto al do-la basso. Pensi che una volta ad Amsterdam, il direttore del Concertgebouw voleva farmi fare Rigoletto, perché secondo lui Gilda è un soprano drammatico! Chissà, forse poteva essere interessante. Tutte le opere presentano problemi da affrontare con grande umiltà e tanto studio. Ho fatto opere difficilissime: Norma, Nabucco, Mosé di Rossini per la RAI, anche il Ballo in maschera non scherza. Ernani mi veniva facile. Certo che per fare la romanza Ernani involami in tono me la cantavo tre volte in camerino: prima in tono, poi mezzo tono sopra, poi un tono sopra e sfioravo il re bemolle. Invece di fare i vocalizzi, come fanno tutti, me la cantavo tre volte così avevo la voce calda. Non le so dire quante ore al giorno studiassi. Quando dovevo fare opere più leggere, intercalavo con romanze leggere. Se venivo dalla Gioconda e poi dovevo fare il Mosè, allora cercavo di alleggerire e ritrovare l’agilità. Certi giorni con il mio maestro studiavo anche quattro o cinque ore, poi mi diceva “Ora basta e domani non si fa niente” quindi non c’era una regola fissa».
Il suo rapporto con i direttori d’orchestra….
«Mi sono trovata molto bene con Molinari Pradelli, con Santini,con Giulini e Serafin. Votto non era molto comunicativo, ma nel cuore mi è rimasto Mitropulos. Era un uomo amabilissimo che ti metteva subito a tuo agio in tutti i sensi: era facile cantare con lui. Qualche volta, con altri direttori, si discuteva sui tempi; all’inizio mi adattavo poi cercavo di vincere io, sia sui tempi che sul volume: più forte più piano. C’era un direttore che voleva ch’io cantassi Casta diva più forte, questo in disco, mentre io sostenevo di cantarla più piano essendo una preghiera. Ma lei ha capito di chi parlo, era un suo concittadino: Francesco Molinari Pradelli. Era un gran direttore con cui mi trovavo benissimo. Su Verdi era fantastico. Poi ricordo un altro grande direttore: Tullio Serafin che a Chicago si nascondeva dietro le quinte per sentirmi nel Ballo in maschera e non se ne andava. A chi lo veniva a chiamare diceva che era la prima volta in tanti anni di carriera che gli capitava di voler sentire una voce. E’ stato sempre dietro le quinte e poi andammo a cena insieme. I giornali del giorno dopo dissero che ero la pupilla di Serafin, e lo avevo conosciuto quella sera lì!
Dopo seppe che avrei fatto Gioconda e allora mi scrisse dandomi dei consigli. Mi diceva di stare attenta, perché è un’opera che si canta a fine carriera; non è che mi dicesse di non cantarla, ma di fare attenzione e di cantarla con quella dovuta cautela: non forzare le note, non forzare i centri. Nella Gioconda ci sono delle note basse da mezzosoprano che sono quelle che ti rovinano: poi magari devi fare un do o un si naturale. Ti trovi quel popò di notone che, se la voce non la spingi non hanno effetto. Poi, quando la feci, La Nazione scrisse che avevo cantato la Gioconda di Ponchielli come se fosse stata scritta da Mozart. Non sapevo se era una critica o un complimento; lo dissi a Serafin e lui mi rispose che era un complimento e di prenderlo come tale».
Quale consiglio darebbe ad un giovane che volesse intraprendere la carriera. Da chi lo manderebbe a studiare, da un cantante o da un maestro di musica?
«Da un cantante mai e nemmeno da un maestro di canto, ma da un maestro di musica: un vecchio direttore d’orchestra con una grande esperienza. Un giovane che si trova la voce deve fare le solite cose: studiare, avere tanta pazienza e la fortuna d’incontrare un maestro che lo capisca, anche per la scelta del registro, ché molti sbagliano. Vedi Bergonzi ritenuto baritono, Bastianini addirittura un basso. Lucia Danieli debutto da soprano per colpa della madre che, nonostante la maestra le dicesse che era mezzo-soprano, si oppose dicendo che non voleva mezze misure: o soprano intero o niente. Me lo raccontò lei, Lucia! Sa, è difficile dare consigli, perché ognuno ha una voce diversa dall’altro; è per questo che non ho fiducia nel maestro di canto, perché quello t’imposta la voce in un modo uguale per tutti. Poi circa quello che si deve cantare, oltre agli esercizi, posso parlare solo di me. Io ho cantato delle romanze di Tosti e Mozart, tanto Mozart! Comunque è tutto soggettivo, non si può generalizzare; a me se questa nota mi viene bene in una posizione, può essere che a un’altra signora la stessa nota venga bene in un’altra posizione. La voce, i suoni dipendono da tante componenti: la cavità del palato, l’apertura della bocca, la cavità nasale. Non si può dare un insegnamento unico che vale per tutti».
Fonte inesauribile di esperienze e di aneddoti, Anita Cerquetti, simpaticissima, improvvisamente ci parla di Beniamino Gigli, marchigiano come lei.
«A me Gigli piaceva moltissimo. Ci fu un concertino così informale, diciamo tra amici. Cantò un centinaio di romanze; alle tre di notte cantava ancora. Con lui ho fatto solo qualche concerto: opere non ne faceva più. Abbiamo cantato allo Sferisterio di Macerata e al teatro Lauro Rossi, sempre a Macerata. Abbiamo fatto romanze varie e duetti: si passava dal duetto delle ciliegie a quello della Cavalleria rusticana a quello dell’Otello. Che bei ricordi!»
Come ci si deve comportare in scena? Il suo rapporto con i registi?
«Io, più che altro mi soffermavo sugli atteggiamenti che alcune volte provavo davanti allo specchio. Con i registi ricordo una discussione con Squarzina, perché non andai ad una prova di luci degli Abencerragi. Io non sapevo di quella prova! Quando ritornai in teatro, Squarzina pretendeva che gli chiedessi scusa ed io gli dissi che, se dovevo chiedere scusa a qualcuno, l’avrei chiesta al m° Giulini. Ma la discussione grossa ci fu con Franco Enriques. Dovevo fare Il Pirata a Palermo e dopo tutte le recite di Norma che avevo cantato non ero riuscita a studiare Il Pirata, perciò cantavo con lo spartito in mano. Allora Enriques mi disse che Maria in tre giorni l’avrebbe imparato tutto; e continuava con ‘sta Maria. E va be’- gli dissi – Maria non c’è, adesso ci son’ io… Poi lo scenografo, suo degno compare, Zuffi, mi voleva mettere un costume di rosso di raso lucido e io gli dissi di no. “Il baritono lo vesti di blù e a me mi vesti di rosso?” Quello s’arrabbiò e si mise a urlare: “Lo scenografo sono io!” – “Sì però il costume me lo devo mettere io e non lei, perché se se vestisse pure lei de rosso famo la stessa figura, tanto più o meno siamo lì”.[n.d.r. Zuffi e la Cerquetti erano notevolmente robusti] Questi sono stati gli unici problemi; ma non sono mai intervenuta in scelte registiche, tranne quando contrastavano con le esigenze musicali, come nell’Aida a Verona con Pabst, quella famosa col Nilo vero! Ma lì non era una questione che riguardasse solo me, la situazione contrastava anche con tutti gli altri. C’era troppa roba: dovevano arriva’ i cavalli de corsa e poi c’era ‘sto rigagnolo d’acqua dove doveva passare una barca. Mi ricordo la prima sera di prove che cascarono tutti in acqua. Lui voleva fare della cinematografia, ma non ci si riesce con la musica. Serafin s’arrabbiò moltissimo: lanciò via la bacchetta».
Chiediamo altri aneddoti, altre riflessioni sul modo magico e insidioso del teatro d’opera e Anita Cerquetti, gentilissima quanto instancabile riprende a raccontare sorridendo.
«Boris Christoff è una Callas al maschile: non voleva che uscissi da sola. In America si usa che alla fine dell’atto esce chi ha fatto l’aria e nel Don Carlos, dopo Tu che le vanità, dovevo uscire sola e lui non voleva. Ci fu una discussione. Lui era uscito da solo prima e voleva uscire ancora. La prima volta che cantai in America, a Chicago, dirigeva il m° Rescigno che non conoscevo. Arriviamo al finale della romanza del Nabucco e lui voleva che la facessi com’è scritto, con il sol basso, invece con Serafin la finivo col sol acuto. Io lì m’impuntai e gli dissi che l’avevo sempre fatta così e la volevo fare così. Lui s’arrabbiò e ruppe la bacchetta, ma io la feci con la nota alta. A Nizza ricordo un Trovatore. Il palcoscenico era piccolo e quando Leonora muore andai a finire fuori dal velario: ci fu una risata generale». Concludiamo la lunga intervista con una curiosità sorta spontaneamente quando la Signora ci ha detto di non essere più andata a sentire un’opera.
Quale cast farebbe per una Norma senza la Cerquetti?
«Mi piacerebbe sentire la Caballé che non ho mai sentito. Per curiosità vorrei sentire la Norma della Sutherland. Ho sentito la Callas, ma non ci tornerei; mi piaceva, ma non in Norma. L’ho sentita in Armida: fantastica; in Medea era il non plus ultra, ma in Norma non mi piaceva. Come personaggio era sempre brava, ma non mi piacevano i recitativi: nessuno. Non mi piaceva la Casta diva, mi piaceva di più quando faceva In mia mano alfin tu sei. Non mi piaceva in Sediziose voci, mentre trovavo a lei più congeniale Ah, bello a me ritorna. Mi piaceva in Lucia: l’andai a sentire con Lauri Volpi. Ecco lì era lei. Restando sempre in Norma, come tenore penso a Corelli, a Del Monaco e non era male anche Mirto Picchi. Per Aida penso sempre a Corelli. Otello non l’ho mai fatto, ma ho sentito Del Monaco e, a Barcellona, Ramon Vinay già vecchio, ma aveva delle cose fantastiche. Per Aida, come soprano certamente non la Callas. Penso alla Stella, alla Tebaldi che era però un bel lirico. La Scotto l’ho sentita giovane, quando faceva un repertorio leggero e mi piaceva molto, poi non l’ho più sentita. Delle nuove leve non conosco nessuno. Ho sentito in televisione la Ricciarelli che cantò molto bene l’aria del Corsaro, ma in tv entra solo la faccia, non si possono fare delle valutazioni attendibili. Ecco: credo di averle detto proprio tutto!».
Intervista realizzata il 28 agosto 1975