Bologna, Teatro Auditorium Manzoni, Stagione Sinfonica 2013 del Teatro Comunale
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Soprano Tatiana Serjan
Mezzosoprano Veronica Simeoni
Tenore Aquiles Machado
Basso Sergey Artamonov
Giuseppe Verdi: “Messa da Requiem” per soli, coro e orchesta
Bologna, 29 marzo 2013
È molto significativo che le opere di musica sacra più importanti della seconda metà dell’Ottocento siano state scritte da due atei o agnostici notori (o non-credenti o, in ogni caso, non-cristiani) i quali, senza che fosse loro arrivata nessuna commissione, hanno deciso liberamente di confrontarsi con la dimensione della trascendenza, utilizzando il simbolo dei riti religiosi ereditati dalla tradizione, riti nei quali personalmente non credevano: Brahms con Ein deutsches Requiem (1868) e Verdi col Requiem (1874). Si è molto discusso sulla constatazione del decesso di Dio di Nietzsche (ne La gaia scienza, 1882), ma a ben vedere l’ispirazione musicale di Brahms e Verdi era arrivata prima. L’ateismo dei compositori di queste due opere sacre così innegabilmente importanti è sempre stato fonte di alcuni imbarazzi per i commentatori e ancora di più nei nostri tempi di recessione economica e ritorno (interiore o esteriore che sia) alla religione. Maggiore rispetto e profondità ha mostrato l’ex-papa Benedetto XVI con le sue note ad un’esecuzione del Requiem che ha avuto luogo in Vaticano nel 2010, nelle quali si limita a rilevare l'”inquietudine spirituale” del bussetano, confronto a Riccardo Muti, che nel concerto al Senato del 16 dicembre scorso si è rivolto così al Cardinale Bertone (significativamente presente a fianco del Presidente), quasi scusandosi: “Non creda che Verdi fosse ateo. Era un mangiapreti sì, ma le sue musiche finiscono tutte guardando ad un mondo trascendente.”
Ein deutsches Requiem di Brahms e il Requiem di Verdi, terminati a sei anni di distanza l’uno dall’altro, affrontano entrambi l’elaborazione del lutto e la contemplazione della caducità della vita umana, il primo con serenità, il secondo con angoscia. Nel caso di Verdi lo stimolo esteriore proveniva da un lutto nazionale, la morte di Manzoni e prima ancora quella di Rossini (per cui fu scritta nel 1868 la prima versione del “Libera me, Domine”). Nel caso di Brahms si trattava invece di un lutto privato, la morte della madre, ma la dimensione nazionale compare fin dal titolo (“Un Requiem tedesco”), che sta ad indicare non soltanto che i testi utilizzati non sono quelli della messa latina ma vari testi sacri nella traduzione di Lutero, ma anche che l’opera si propone come una riflessione musicale sulla tradizione tedesca, da Schütz a Bach a Mendelssohn e Spohr, rivissuta in una maniera estremamente personale. Lo stesso si può dire per il Requiem di Verdi, che si confronta con il canto gregoriano e con la tradizione contrappuntistica italiana di Palestrina vista attraverso le lenti colorate del mondo operistico.
C’è qualcosa di particolarmente toccante e pietoso in questi addii prisco more parentum (“secondo l’antica tradizione degli avi”). In entrambi i casi il risultato di questa operazione retrospettiva, che oggi si direbbe post-moderna per la distanza che esiste tra l’autore e il recupero di un soggetto e di uno stile sentito come morto, si differenzia fortemente dal resto della produzione “maggiore” dei due autori, sinfonica e cameristica per Brahms e operistica per Verdi, e si caratterizza per uno stile ibrido e sperimentale, che si salva dalle opposte critiche di essere “noioso” oppure “troppo poco sacro/spirituale” solo in virtù della sua coerenza interna. In quasi tutte le opere sacre scritte, dipinte, scolpite, costruite o composte dopo il 1848 (o anche dopo il 1789, se si vuole) è difficile non constatare una lontananza del sacro dalla modernità (si pensi a tutte quelle chiese moderne che non sembrano chiese e/o scadono nel kitsch), una lontananza che solo pochi geni, quali Brahms e Verdi o Kierkegaard, hanno saputo rendere fertile. Il lettore perdonerà queste riflessioni introduttive, il cui intento è soprattutto quello di sottrarre questo Requiem all’ovvietà del canone dei “grandi classici” e di sottilineare invece la dimensione paradossale che sta alla base di questa partitura “di ricerca”.
Venendo alla lettura che l’Orchestra e Coro del Comunale di Bologna diretti da Michele Mariotti hanno fatto all’Auditorium Manzoni di Bologna, due giorni dopo aver portato questa stessa partitura a Mosca, non è un’esagerazione affermare che il 29 marzo 2013 è una data da incidere tra i fasti della musica e del bel canto. Il “golden boy” della musica in Italia ha sollecitato un’esecuzione pressocché perfetta dell’opera verdiana, scorrevole e intensa, attenta soprattutto a seguire le infinite gradazioni dinamiche dell’autore, dal pianissimo più impalpabile al fortissimo più violento, rivelando un coro ed un’orchestra in una forma smagliante. A voler cercare il pelo nell’uovo si potrebbe dire che il fortissimo del “Te decet hymnus” corale a cappella è stato un po’ eccessivo, a scapito della bellezza del suono, ma in ogni altro luogo non avrei potuto immaginare un’esecuzione migliore di quella che il coro felsineo ha dato in questa occasione. Quello che colloca questa esecuzione un gradino sopra a quelle che si sentono solitamente (e anche ad alcune preclare incisioni discografiche) è la cura con cui è stata realizzata la più espressiva indicazione dinamica di tutte, la più commovente e la più italiana, che si trova sparsa in gran copia in questa partitura: la messa di voce, grazie soprattutto ad un eccellente quartetto di solisti, tutti dotati non solo di strumenti veramente “verdiani” ma anche di una rara maestria tecnica. Il tenore Aquiles Machado ha una voce molto bella e spontanea e una tecnica infallibilmente ortodossa. In un contesto così “serio” gli si potrebbe rimproverare dei Mi e dei Fa naturali un po’ troppo “aperti” e solari (ma il Fa diesis è immancabilmente “coperto”), ma a dire il vero non dispiace questo tratto di umanità: nel dramma psicologico del Requiem verdiano il tenore e il soprano sono sicuramente le voci cui sono affidati gli sfoghi più fragili e tormentati, quali ad esempio la cattolicissima aria sul senso di colpa “Ingemisco”. E l’intonazione, come quella dei suoi colleghi, è sempre irreprensibile, anche nei quartetti a cappella. Vera voce da profeta quella del giovane Sergey Artamonov, unico cambiamento rispetto al cast moscovita, dove il basso era Riccardo Zanellato: una voce scura, ampia e generosa, mai ingolata e capace di notevoli sottigliezze. Dopo la felicissima prova della Petite Messe Solennelle a Bologna lo scorso anno, Veronica Simeoni si riconferma una perfetta concertista, per l’incredibile padronanza del suo strumento autenticamente mezzosopranile, e cioè per la pulizia e la consapevolezza nel trattamento del passaggio tra “registro di petto” e “registro di testa”, mai così evidente come nel bizzarro (e rischioso) duetto dell'”Agnus Dei” in cui soprano e mezzo cantano la stessa melodia all’ottava, dove la Simeoni ha saputo mantenere un colore scuro, uniforme e luminoso, senza mai rinunciare alla giusta intonazione. In luogo dell’annunciata Radostina Nikolaeva, indisposta, il soprano è stato Tatiana Serjan, come a Mosca, dove inizialmente era annunciata Barbara Frittoli. Se si ricorda anche che la Serjan avrebbe dovuto cantare la Lady nel trascorso Macbeth, poi sostituita dalla Larmore, si dovrà constatare che quest’artista a Bologna non canta quando dovrebbe e canta quando non dovrebbe. Curiosa sorte. Lungi dall’essere un rimpiazzo, infatti, questa cantante russa, il soprano d’elezione di Riccardo Muti in questi anni, è – diciamolo senza mezzi termini – una delle voci più importanti del momento sulla scena mondiale. Raramente ho ascoltato una cantante tanto completa (e con ciò intendo anche tra coloro che ho sentito solo in disco): una voce grande, bella e corposa nei gravi, nei centri e negli acuti, nel fortissimo come nel pianissimo e soprattutto capace di passare con omogeneità di timbro e intonazione infallibile dal petto alla testa, dal piano al forte e viceversa, con messe di voce (o “filati” che dir si voglia) che sbalordiscono e commuovono, facendo pensare alle descrizioni che il Mancini faceva del Farinelli. Solo quando il Si bemolle acuto sulla parola “Requiem” nel “Libera me”, cantato pppp come segnato, è sembrato sul punto di spezzarsi (ma non si è spezzato mai), ho richiuso per un attimo la bocca rimasta spalancata per lo stupore e ho pensato, con colpevole sollievo: “è umana anche lei!”.
Nonostante i copiosi attacchi di tosse che hanno costellato l’esecuzione, il pubblico bolognese, visibilmente toccato, dopo un lungo silenzio è scoppiato in un entusiastico, interminabile applauso, che ha coronato degnamente questa performance assolutamente eccezionale. P.V.Montanari