Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Jeffrey Tate
Tenore John Mark Ainsley
Joseph Haydn: Sinfonia in do maggiore Hob I n. 82 L’Ours
Benjamin Britten: “Nocturne” op. 60 per tenore, sette strumenti obbligati e orchestra d’archi
Arvo Pärt: “Cantus in Memory of Benjamin Britten” per orchestra d’archi e campana
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n. 34 in do maggiore KV 338
Torino, 28 febbraio 2013
È stato lo stesso Jeffrey Tate, per più anni direttore onorario dell’OSN RAI di Torino, a elaborare un programma centrato su Britten (il 2013 segna il centenario della nascita del compositore), ma anche incorniciato da due grandi frutti del classicismo viennese di Haydn e Mozart, due sinfonie risalenti rispettivamente al 1786 e al 1780. L’apparente disomogeneità è risolta dallo stesso Tate, che spiega come «i quattro pezzi in locandina hanno una loro coerenza interna. Sono, cioè, tutti contrassegnati da un’affascinante semplicità di scrittura, da una leggerezza che definirei cameristica, ovviamente risolta, a seconda dei casi, in termini molto diversi» (da un’intervista di Stefano Valanzuolo su «Sistema Musica», febbraio 2013, p. 16).
L’ascoltatore è dunque sbalzato dalla fine del Settecento al 1958 (anno di composizione di Nocturne) nella prima parte del concerto; nella seconda accade il contrario, perché dalla fine degli anni Settanta del Novecento (anni di composizione dell’omaggio di Pärt alla memoria di Britten) è riportato indietro al Mozart del 1780. Il salto a piè pari dell’Ottocento permette di concentrarsi appunto sulle sonorità “cameristiche” di cui parla Tate, anche se si tratta di quattro pagine sinfoniche a tutti gli effetti, e su una concezione della musica mirabilmente basata sulla dialettica tra singoli strumenti e gruppo più ampio: gli interventi del fagotto o del corno in Haydn paiono il modello caratteriale degli strumenti obbligati nei Lieder di Nocturne, ma anche dei rintocchi della campana di Pärt, che ripensa a Britten. Poi anche l’unicità e la solitudine della campana scompaiono, come assorbite dalla totalità di un’orchestra che ritorna gioiosa, unanime nel trasmettere l’entusiasmo di un messaggio tutto positivo: è il Mozart dirompente del periodo salisburghese, vessato da Colloredo, eppure capace di definire qualità nuove del genere sinfonico.
Sono oggi in auge due modalità fondamentali per eseguire Haydn (e in parte anche Mozart): quella tradizionale, modellata sin dalla metà del Novecento, sempre impegnata a far risaltare la bellezza del suono, lo scintillio di ogni singola nota, la perfezione da “meccanismo a orologeria” dei movimenti celeri, le sonorità carezzevoli e galanti di un Settecento assai di maniera, di cui non si butta via niente (ogni musicofilo ha in mente l’Haydn di Ansermet, di Karajan o di Bernstein, per non citare che i maggiori interpreti). E poi è la prospettiva filologica, con strumenti originali e recupero di sonorità più storicamente autentiche, tesa a cogliere anche gli aspetti nervosi delle partiture haydniane, le dissonanze e i legami con il passato (ancor più per Mozart vale questa ricerca del modello barocco), al fine di restituire una musica non monolitica ma screziata e disseminata di piccole incertezze, ripiegamenti, ambiguità; insomma una musica molto più “umana” nella sua espressione dell’insicurezza.
Tate sembra proporre una mediazione tra le due modalità esecutive: il suo Haydn, come anche il Mozart che ha concluso il concerto, è caratterizzato da brillantezza e gioia mondana negli snodi narrativi, nei ritmi di danza, ma anche da sonorità attenuate, perfino velate. Di grande effetto, nella sinfonia detta L’ours, il ritmare del timpano (Stefano Cantarelli) nel I e nel III movimento, quasi a voler mitigare la dolcezza del Minuetto (venato appunto degli squilli del corno di Ettore Bongiovanni). Ma questa è sinfonia decisamente brillante e ironica, al pari di quella di Mozart: nel ballo dell’orso del finale (Vivace) diventano protagonisti gli archi e la loro tessitura sgranata in maniera calligrafica. Ancor più vivace (e rapida, poiché manca del Minuetto) l’esecuzione della sinfonia n. 34 di Mozart, con il suo trascinante mulinello di idee musicali sempre nuove, di volta in volta innervate nelle zone di sviluppo della sequenza tripartita Allegro vivace – Andante di molto – Allegro vivace.
Nocturne è un ciclo di Lieder per tenore e orchestra su poesie o frammenti poetici di Shelley, Tennyson, Coleridge, Middleton, Wordsworth, Owen, Keats, e Shakespeare (che conclude con il sonetto 43): un piccolo florilegio della lirica inglese, concentrato soprattutto sull’età romantica, e concepito da Britten per la voce del tenore Peter Pears. Una sorta di poema sinfonico cantato, senza soluzione di continuità, in cui l’intonazione dei testi letterari, dopo il polifonico brano d’apertura, è impreziosita da uno strumento obbligato che dialoga con l’orchestra d’archi: il fagotto (Elvio Di Martino) per Tennyson, l’arpa (Margherita Bassani) per Coleridge, il corno (Ettore Bongiovanni) per Middleton, i timpani (Stefano Cantarelli) per Wordsworth, il corno inglese (Franco Tangari) per Owen, flauto (Monica Berni) e clarinetto (Enrico Maria Baroni) per Keats; il sonetto shakespeariano ritorna alla pienezza orchestrale, e conclude il ciclo con l’indimenticabile distico «All days are nights to see till I see Thee / and nights bright days when dreams do show thee me», accompagnato da postremi accordi dell’arpa e dagli archi in pianissimo.
John Mark Ainsley, specializzato nel repertorio sette- e novecentesco, è tenore dalla voce molto chiara e omogenea, impostata su un punto di emissione molto “in avanti”, che assicura al suo canto un effetto di grande delicatezza. La composita partitura propone numerose difficoltà, che il cantante risolve perfettamente, integrandosi allo strumento obbligato: molto bravo a rendere il sillabato largo in simbiosi con l’arpa, oppure gli effetti onomatopeici (versi di topo e di gatto evocati da Middleton) insieme al corno, o ancora la cadenza marziale insieme ai timpani (il cui tumultuoso rullare in Prelude di Wordsworth ricorda la tempesta marina dei Four Sea Interludes dal Peter Grimes). Ma è nel brano di Owen, The Kind Ghost, che l’intonazione sognante ed eterea di Ainsley diventa più vibrante, più espressiva e calda nell’assecondare i languori del corno inglese. Nocturne è certamente uno dei capolavori di Britten, che Tate aveva già proposto al pubblico delle stagioni RAI nel gennaio 1999, insieme al tenore Anthony Rolphe Johnson; riascoltarlo oggi con uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, per di più esploratore di tutta la produzione britteniana, e con un tenore la cui voce luminosissima ricorda quella del primo interprete, Pears, è il modo migliore per iniziare l’anno delle celebrazioni.
La perla più preziosa e suggestiva del concerto è stata però il Cantus in Memory of Benjamin Britten di Pärt, una pagina di pochi minuti, straordinariamente intensa e propositiva: non un corteo funebre, come la presenza della campana potrebbe far pensare, ma una scala ostinata dell’orchestra contrassegnata dai rintocchi delicatissimi dello strumento tubolare, tesa all’opposizione armonica conclusiva tra archi e campana stessa: mentre l’orchestra fa risuonare l’ultimo l’accordo in la minore, lo strumento solista segna in pianissimo un rintocco al do diesis, a mezza via tra il modo maggiore e quello minore: una lama di luce nell’oscurità, un raggio di sole sul destino doloroso degli uomini e sulla loro solitudine. Come se il personaggio più rappresentativo della musica di Britten, Peter Grimes, alla fine dell’opera non facesse naufragio al largo, ma navigasse nella luce, ben oltre l’orizzonte del mare.