Modena, Teatro Comunale “Luciano Pavarotti”, Stagione lirica 2012/2013
“OTELLO”
Dramma lirico in quattro atti. Libretto di Arrigo Boito dalla tragedia Othello di William Shakespeare.
Musica di Giuseppe Verdi
Otello KRISTIAN BENEDIKT
Desdemona YOLANDA AUYANET
Jago ALBERTO MASTROMARINO
Cassio ARTHUR ESPIRITU
Roderigo GIANLUCA BOCCHINO
Lodovico ENRICO TURCO
Montano MATTEO FERRARA
Emilia ELENA TRAVERSI
Un Araldo STEFANO CESCATTI
Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna
Coro Lirico Amadeus-Fondazione Teatro Comunale di Modena
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Scuola Voci Bianche della Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Maurizio Barbacini
Maestro del Coro Stefano Colò
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene Mauro Carosi
Costumi Odette Nicoletti
Luci Fiammetta Baldiserri
Allestimento del Teatro Regio di Parma
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena – Fondazione Teatri di Piacenza
Modena, 10 marzo 2013
Tutto sommato, un decoroso Otello di provincia. Di questi tempi, questo è un gran complimento. Ma a me pare che piuttosto che mettere su alla bell’e meglio un Otello di Verdi senza avere gli elementi giusti sarebbe molto meglio mettere su in maniera eccellente una Calisto di Cavalli o una Antigona di Traetta o una Campana sommersa di Respighi (per nominare solo tre capolavori assoluti del nostro patrimonio culturale italiano). Naturalmente questo non è possibile, perché i teatri italiani, incapaci di concepire strategie di marketing e comunicazione che sappiano appassionare il pubblico all’evento spettacolare in sé e non alla semplice idea di “andare all’opera perché fa cultura”, si fermano al dato che con quei 10 titoli di “grande repertorio” (comunque siano eseguiti) il teatro si riempie, con altre opere no.
Per questo Otello la sala del Comunale di Modena era gremita, ma mi domando se ad esempio le signore che erano nel mio palco, che per la prima volta si accostavano ad un’opera lirica, torneranno mai a vederne un’altra o se non abbiano piuttosto confermato la loro idea che il melodramma sia una faccenda assai noiosa che coinvolge uomini in sovrappeso che tentano affannosamente di strillare sopra l’orchestra.
Il problema principale è stato, come si immagina, la mancanza di un Otello, che per un’opera che ne porta il titolo non è cosa da poco. Tra gli innumerevoli cosiddetti “tenori drammatici” che ci sono in giro il lituano Kristian Benedikt, che sta cantando questo ruolo un po’ in tutto il mondo, non è poi così terribile. Nei suoi momenti migliori (ad esempio l’inizio del terzo atto) può ricordare un Domingo in fase declinante. Il più delle volte riesce ad arrivare ad un’intonazione accettabile (a differenza di molti suoi colleghi), ma, sotto la spinta violenta del fiato, la voce risulta dura e soffocata (e quindi di minor volume rispetto a quello che lui si aspetta). Come sempre in questo genere di cantanti, è immancabile il deprecabile uso del rantolo alla fine di ogni frase, la qual cosa può essere perfettamente appropriata, mentre il personaggio muore. Qui, solo alla fine del quarto atto.
Si potrà dire, con ragione, che circolano tenori ben peggiori del signor Benedikt. Tuttavia questo non è sufficiente per poter dire con sincerità che l’ascolto di Kristian Benedikt sia un’esperienza piacevole. Come invece – paradossalmente ce lo si dimentica spesso quando si parla di opera – dovrebbe essere.
Alla grave carenza del protagonista si è aggiunta quella, altrettanto inappropriata, delle parti di fianco. Il filippino-americano Arthur Espiritu (Cassio) ha cantato in maniera piuttosto rozza e faticosa. In via dubitativa si può azzardare che si tratti del solito caso di tenore leggero che quando per sua disgrazia viene scritturato in un’opera verdiana crede di dover cantare con un’altra voce. Elena Traversi (Emilia) ha un registro di petto un po’ sguaiato e soprattutto una dizione oscura che la rende particolarmente improbabile nel ruolo di un personaggio che dovrebbe comunicare informazioni necessarie per la comprensione della trama. Infine un Lodovico appena sufficiente, un Montano baritono e un Roderigo decisamente scarso.
Fin qui il quadro potrebbe parere assai fosco. Ma l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, sotto la bacchetta efficiente di Maurizio Barbacini, ha dato una prestazione professionale. Lo stesso si può dire per i cori riuniti dei teatri di Piacenza e Modena, salvo alcuni sfortunati sfasamenti con l’orchestra nel “Fuoco di gioia”. La “serenata” a Desdemona (“Dove guardi”), collocata interamente fuori scena anziché sul fondo come prescritto da Verdi, è stata per lo più inudibile, soprattutto nei momenti accompagnati dall’orchestra in buca. La regia tradizionalissima di Maestrini figlio, creata per il San Carlo di Napoli nel 2006, è soprattutto forte dei bei costumi di Odette Nicoletti e delle belle scene di Mauro Carosi che guardano al Quattrocento con gli occhiali dello storicismo ottocentesco, ben illuminate dalle luci suggestive di Fiammetta Baldiserri (che purtroppo però la regia faceva cambiare drasticamente per sottolineare i differenti stati d’animo dei personaggi, contrastando così in maniera un po’ dilettantistica con l’impostazione realista dell’allestimento). Si potrebbe dire che è un allestimento “oleografico” o anche “vecchio come il cucco”, ma in questo caso, una volta tanto, “tradizione” non è sinonimo di “polveroso” e “raffazzonato”. Prima di uccidere la moglie Otello prega rivolto alla Mecca (senza una stuoia), ciò che lascia intendere che egli sia in realtà un musulmano nascosto. L’azione non aggiunge nulla al personaggio e, collocata subito prima dell’uxoricidio, può facilmente essere considerata razzista. L’altra “invenzione” è quella di far uccidere Jago da Otello nel finale, come già in altri allestimenti, trovando che la sua fuga alla chetichella sia poco melodrammatica. Ma a parte queste due (infelici) piccole aggiunte, lo spettacolo si snoda seguendo in maniera abbastanza fedele le didascalie di Boito e Verdi e la recitazione (nonostante Kristian Benedikt abbia una fisicità tendente al rozzo) è piuttosto curata, ben rispecchiando la poetica scapigliata del libretto.
Intenzionalmente ho tenuto i due elementi migliori alla fine. Alberto Mastromarino tende a “nasaleggiare” senza motivo, ma generalmente si fa apprezzare per una pronuncia libera e una voce ampia e morbida e ricca di colori (anche se qualche “piano” troppo azzardato si è spezzato). Il suo, giustamente, è uno Jago insinuante ma melodrammatico e a tinte forti, che non rinuncia ad effetti plateali come quello di posare veramente il piede sul corpo di Otello colto da una sincope alla fine del terzo atto (effetto non gradito a Boito ma incoraggiato da Verdi). Trionfo assoluto per Yolanda Auyanet, una Desdemona credibile e commovente, con acuti limpidi e un registro di petto gradevole e naturale nelle note gravi. Quando la pronuncia non è artefatta e la voce è morbida, quando cioè si canta bene, è facile attrarre le simpatie del pubblico verso il proprio personaggio. E questo è quello che generalmente dovrebbe fare un cantante. La sua struggente scena della “Canzone del salice” e dell’“Ave Maria” ha strappato un lunghissimo applauso al pubblico. Inutile dire che questa voce “lirica” risultava molto più sonora di quella innaturalmente “drammatica” del collega tenore. In effetti, si aveva l’impressione che questa donna calma e sensibile avrebbe potuto rimettere al suo posto il marito iracondo e corpulento in qualsiasi momento. Forse il regista avrebbe potuto concederle reazioni un po’ più accese nei duetti e nel finale. Ma, d’altra parte, è molto evidente fin dal Terzo Atto che Desdemona avrebbe potuto benissimo cercare aiuto e troncare la relazione in ogni momento, se avesse voluto, ma piuttosto è guidata da un cupio dissolvi che la rende inerte. Questi sono i misteri dell’amore, no?P.V.Montanari Foto Rolando Paolo Guerzoni