Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrey Boreyko
Pianoforte Emanuele Arciuli
Béla Bartók: Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra
Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n. 4 in do minore op. 43
Torino, 14 marzo 2013
Un direttore d’orchestra originario di San Pietroburgo e un pianista italiano dalla carriera internazionale (e dagli impegni didattici locali e statunitensi) insieme per l’avanguardia del primo concerto pianistico di Béla Bartók, con l’OSN della RAI di Torino, sempre pronta ad arricchire il suo repertorio e a cimentarsi in nuove difficoltà d’insieme: tre componenti stimolanti in funzione di un’esecuzione di straordinario valore.
Nel I° movimento del concerto (Allegro moderato – Allegro) Arciuli accentua i tratti percussivi, ma sa anche alleggerire molto bene le sonorità del pianoforte, specie nel dialogo con le percussioni vere e proprie. Il direttore, dal canto suo, esalta la nitidezza delle sonorità, per cui anche nei momenti più concitati nulla va perduto, neppure dell’arcaismo ancestrale (le memorie contadine e popolari cui Bartók accenna sempre). Nel II° movimento (Andante) prosegue il canto amebeo tra pianoforte e percussioni, ma come miniaturizzato: il tempo conserva così una sua pacatezza misurata nel volume, e un’impostazione “quantitativa” del suono assai tradizionale. Finalmente, nell’Allegro molto conclusivo esplode tutta la rabbia percussiva, anche del pianoforte, che comunque con Arciuli non è mai debordante, anche perché in relazione alla zona intermedia e lirica del movimento, di gusto impressionista. Il solista collega (più che contrapporre) la sezione chiaroscurale a quanto precede, insistendo sull’armonia anche nel nervosismo spezzato, tutto a scatti, secondo una concezione della musica certamente positiva e ottimistica. Scritto nel 1926, il concerto ha una caratteristica fondamentale, non tanto nel trattamento del pianoforte come tastiera percussiva (che rimarca comunque la rottura rispetto alla tradizione tardo-romantica), quanto piuttosto nella perpetua mobilità ritmica: le indicazioni in merito variano quasi a ogni battuta, dall’inizio alla fine, e questo rende la concertazione tra orchestra e solista particolarmente insidiosa (che l’opera sia tra le più difficili dell’intero repertorio per pianoforte e orchestra è suggerito dal fatto che l’ultima esecuzione presso la RAI di Torino risalga al 1965). Ma la presa di posizione così chiara e definita dei due interpreti, oltre alla straordinaria duttilità dell’OSN RAI nell’accostarsi alla pagina e ai suoi caratteri agogici e ritmici, hanno realizzato una versione davvero impeccabile.
Ai grandi applausi del pubblico Arciuli risponde con un bis lontanissimo da Bartók: una bagatella beethoveniana, le cui pur marcate legature fanno smemorare dai furori del concerto appena concluso. Ma il pianista prende nuovamente la parola per manifestare la sua gratitudine proprio all’orchestra di Torino, dedicandole una brevissima pagina di Bill Evans, dalle inflessioni jazzistiche ammiccanti e un po’ nostalgiche. Anche la scelta dei due brani fuori programma è coerente in Arciuli con una concezione tutta positiva della musica e della comunicazione artistica.
La IV Sinfonia in do minore di Dmitrij Šostakovič fu composta tra 1934 e 1936, ma la sua prima esecuzione risale soltanto al 1961: l’autore stesso, memore della stroncatura e della damnatio memoriae subite dall’opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, proprio nel 1934, preferì ritirarla prima della prevedibile bocciatura cui sarebbe andata incontro. Poi il manoscritto della partitura completa andò perduto, e si dovette procedere alla collazione delle singole parti orchestrali per ricostruire l’insieme di quella che Šostakovič aveva definito una composizione «imperfetta nella forma e troppo lunga, nonché soggetta a una certa mania di grandezza». L’imperfezione (o meglio, l’anomalia rispetto alla tradizione sinfonica) si riscontra nell’articolazione in tre movimenti anziché quattro o più; la lunghezza è innegabile, poiché la musica si protrae per oltre un’ora; la megalomania trapela dal gigantesco organico e dal continuo sfoggio di sonorità magniloquenti e grandiose. Ma tutti questi, che appaiono difetti secondo il punto di vista della pièce bien faite della sinfonia classica, documentano invece la crisi del modello sinfonico e le ricerche di strade alternative anche in un sinfonista dalla pratica scaltrita come Šostakovič. Le spigolosità e le continue variazioni tematiche della IV Sinfonia, gli sviluppi stemperati in una miriade di incisi, le fanfare congiunte agli accenni di danza, appaiono dunque oggi come il riflesso inevitabile dell’esperienza mahleriana, che assesta un colpo netto alle certezze (anche quelle dolorose) del compositore russo a proposito del genere musicale che avrebbe praticato di più.
Come già in Bartók, Boreyko non si concentra sulla fragorosa grandiosità, ma sui cedimenti del suono tradizionale, e dunque sulle dissonanze, sui frequenti cluster e sui loro stridori. Interessandosi al dramma esistenziale celato dalle difformità di armonia e di strumentazione, il direttore non insiste tanto su quella componente circense e un po’ grottesca che molto spesso caratterizza Šostakovič, ma preferisce evidenziare i caratteri sornioni e ironici, come nell’accenno di valzer verso il termine del I movimento (Allegretto poco moderato – Presto) o nell’assolo di violino che segue (affidato alla spalla dell’orchestra, Giuseppe Lercara) o negli interventi dei tre fagotti e del controfagotto (un quartetto formidabile, con Elvio Di Martino, Cristian Crevena, Mauro Monguzzi, e Bruno Giudice).
Lo schema del I° prosegue nel II° movimento (Moderato con moto), in cui diventano protagonisti i numerosi ottoni (tutti raddoppiati: otto corni, quattro trombe, due tromboni, due tube più il trombone basso), in un gioco esasperato e allucinatorio che si conclude con l’enigma di un congegno percussivo, quasi un meccanismo a orologeria che si dissolve da sé.
Il finale (Largo – Allegro) si apre con un ritmo di marcia funebre, in cui Boreyko sottolinea molto opportunamente le citazioni dall’analogo passaggio della I Sinfonia di Mahler. Gradatamente l’ironia e l’umorismo sono abbandonati in funzione di una solennità che alterna fasi di luminosità ad altre di mistero; solo di tanto in tanto il clima è squarciato dagli accordi luttuosi della marcia d’attacco, anche per mezzo di interminabili modulazioni condotte dagli archi (Boreyko è molto abile a valorizzarne gli interventi con grande intensità espressiva; diversamente l’ascoltatore subirebbe gli effetti di quell’eccessiva lunghezza che già il compositore temeva). Ma il dilungarsi progressivo del discorso si trasforma in un impianto climatico ascendente, in un crogiuolo di suoni che avvia lentamente alla coda, aggiungendo stili e temi diversi: ritorna qualche ultima frase ironica tra archi, flauti e arpe (che sembrano fare il verso alla cadenza della Lucia di Lammermoor: la serenità del belcanto è inesorabilmente scomparsa dal mondo, sembra dire Šostakovič negli Anni Trenta); e poi impennate dei fagotti, trombe martellanti, tromboni alla riscossa, spettri di altri valzer, in una struttura pletorica che si configura come tra le più affascinanti nell’arte del Novecento: il catalogo.
Non è l’idea compiuta e unitaria ad articolare questo finale, ma la giustapposizione di tante idee frammentarie – che coinvolgono tutti gli strumenti con brevi interventi a solo – e di tanti stili disparati e apparentemente inconciliabili. Dopo la galoppata finale degli ottoni la luce si attenua, il messaggio positivo si fa ambiguo, arpe e xilofono introducono uno stile nuovo, il mistero di una lugubre tromba che spegne l’intera composizione, avvolta da un cupio dissolvi enigmatico e lancinante. Il pubblico torinese applaude con grande entusiasmo un’esecuzione memorabile, capace di valorizzare ogni pannello del monumento; inutile cercare l’unità – sembra essere il messaggio interpretativo di Boreyko – laddove non c’è mai stata. In un mosaico vasto e frammentario conviene prendere in mano ciascuna tessera, osservarla da vicino, e godere del suo scintillio, sempre diverso da quello di tutte le altre.