Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2012/2013
“CUORE DI CANE (Sobač’e serdce)”
Opera in due atti, sedici scene e un epilogo dall’omonimo racconto di Michail Bulgakov
Libretto di Cesare Mazzonis (versione russa di George Edelman)
Musica di Alexander Raskatov
Filipp Filippovič PAULO SZOT
Bormental’ VILLE RUSANEN
Šarikov PETER HOARE
Šarikov (marionettisti) MARK DOWN, ROBIN BEER, FINN CALDWELL, JOSIE DAXTER
Dar‘ja / Voce sgradevole di Šarik ELENA VASSILEVA
Zina Nancy ALLEN LUNDY
Švonder VASILY EFIMOV
Vjazemskaja / Voce gradevole di Šarik ANDREW WATTS
Il grande capo / Fëdor / Un venditore di giornali GRAEME DANBY
La fidanzata di Šarikov SOPHIE DESMARS
L’investigatore MATTHEW HARGREAVES
Il primo paziente / Un provocatore BRIAN GALLIFORD
La seconda paziente ANNETT ANDRIESEN
Quattro proletari SOPHIE DESMARS, ANDREW WATTS, VASILY EFIMOV, EUGENIY STANIMIROV
Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore Martyn Brabbins
Ensembe vocale “Il canto di Orfeo” diretto da Ruben Jais e Gianluca Capuano
Regia Simon McBurney
Scene Michael Levine
Costumi Christina Cunningham
Luci Paul Anderson
Video Finn Ross
Marionette Blind Summit Theatre – Mark Down, Nick Barnes
Movimenti coreografici Toby Sedgwick
Produzione De Nederlandse Opera, Amsterdam. In collaborazione con Complicite, Londra
Milano, 16 marzo 2013 (1a rappresentazione)
Alla cronaca di una grande serata occorre giungere per gradi, tanto più se la storia è complicata e le fonti autorevoli. Michail Bulgakov compose il romanzo breve Cuore di cane nel 1925, ma non poté mai vederlo pubblicato, a causa del divieto di una censura che si protrasse fino al 1987, quando l’opera uscì per la prima volta nella versione integrale in lingua russa. La vicenda, però, clandestinamente diffusa e apprezzata, aveva nel frattempo infiammato la fantasia di lettori di tutto il mondo, e di artisti di ogni genere; nel teatro musicale, per esempio, si ricorda una recente trasposizione cameristica di Rudolf Rojahn, del 2007. L’anno dopo Pierre Audi, direttore della Nederlandse Opera di Amsterdam, commissionò un nuovo lavoro teatrale al compositore Alexander Raskatov, nato a Mosca nel 1953; e questi scelse il soggetto di Bulgakov, affidandone la riduzione a libretto a Cesare Mazzonis (l’attuale direttore artistico dell’OSN della RAI di Torino, già direttore artistico alla Scala tra 1982 e 1992) e a George Edelman per la versione in russo. La prima assoluta dell’opera andò in scena ad Amsterdam il 7 giugno 2010, con la direzione d’orchestra di Martyn Brabbins e la regia di Simon McBurney (lo stesso allestimento che ora giunge a Milano); in inglese l’opera fu rappresentata anche a Londra nel dicembre dello stesso anno. Alla Scala la prima rappresentazione (prevista il 13 marzo) è stata rimandata a causa di problemi tecnici e della riparazione di un importante elemento scenografico; tutto questo ha ulteriormente accresciuto le aspettative nei confronti di un nuovo lavoro musicale, caratterizzato da complicatissimo impianto scenico e registico. Assistere a una nuova pièce di teatro musicale è sempre importante per la vitalità del genere, tanto più in un teatro di grande tradizione storica e internazionale come la Scala. Cuore di cane è inoltre tratto da un’opera letteraria, che ormai è un classico della narrativa novecentesca, e il suo approdo al palcoscenico musicale ricorda il rapporto tra arti diverse che è sempre stato alla base del melodramma. La scelta di Raskatov è stata certamente coraggiosa, ma la fluidità del libretto di Mazzonis, articolato in sedici scene abbastanza rapide e un epilogo corale di grande suggestione, ha contribuito all’ottima riuscita del progetto; la realizzazione, da ultimo, si è avvalsa di professionisti straordinari nel campo della regia e dell’animazione, al punto che il risultato complessivo può annoverarsi tra i più alti degli ultimi anni di storia scaligera (sullo stesso piano di Da una casa di morti del 2010, per la regia di Patrice Chéreau e la direzione di Esa-Pekka Salonen, per intendersi).
Lo spettacolo è nel complesso così omogeneo, unitario, coerente, che risulta difficile gerarchizzarne i valori e le componenti, con una separazione chiara tra visivo e acustico. La presenza fisica del cane Šarik domina tutto il I atto, in una triplice modalità: uno scheletro nero, poco più di un’inquietante e diabolica ossatura, poi una sagoma di cane nero più in polpa (Šarik dopo essere stato rifocillato), e infine la metamorfosi che trasforma con alcune fasi intermedie l’animale nell’uomo Šarikov. Le marionette del cane sono costantemente animate da tre o quattro abilissimi marionettisti del Blind Summit Theatre di Londra, che ne muovono testa, zampe, addome, coda con straordinario realismo. Alla “naturale macchinosità” dei movimenti del cane si congiunge la sua duplice voce: quella “bella”, affidata al controtenore (il bravissimo Andrew Watts) e quella “brutta”, affidata agli effetti gracchianti urlati in un megafono da un soprano drammatico (l’esperta Elena Vassilieva, dedicataria di numerose composizioni vocali di Raskatov, impegnata anche nella parte della cuoca Dar’ja). Nel II atto il cane è ormai uomo a tutti gli effetti, e canta da «tenore di coloratura buffo» (nell’occasione Peter Hoare, abilissimo nel dimenarsi sulla scena, nel mimare i residui di canina bestialità e nel cantare con sguaiata espressività i tormenti dell’essere ibrido; irresistibile la scena 8, in cui imbraccia una balalajka e intona una canzonaccia che terrorizza il sonno di Filippovič). Altra voce di tenore, questa volta eroico, è Švonder, a capo di un gruppo di proletari: Vasily Efimov lo interpreta con notevole intensità. E poi c’è il grande protagonista dell’opera, l’ambiguo e sdegnoso demiurgo, nemico del proletariato ma protetto dal Grande capo (un’epifania, quest’ultimo, del potere arbitrario che si traduce visivamente sia con gli occhi di Stalin su un pannello sopra il palcoscenico sia con un attore, Graeme Danby, sosia di Lenin), ossia il professor Filipp Filippovič, basso-baritono interpretato da Paulo Szot; certamente il personaggio più complesso di tutta l’opera, vocalmente impegnato dall’inizio alla fine, Szot lo rende in modo impeccabile, con la necessaria imperturbabilità e l’ironico distacco da gran signore connaturato alla sua voce e alla presenza scenica. Tra le voci femminili ha un importante rilievo la cameriera Zina, la cui impervia tessitura è tutta collocata tra acuti e sopracuti: il soprano Nancy Allen Lundy l’affronta con coraggio e spigliatezza, anche se spesso con esiti un po’ striduli, dovuti a una parte troppo alta per la sua voce.
La musica è organizzata all’interno di una partitura complessa, ma non radicale e neppure troppo sperimentale; l’ascoltatore si sente anzi a suo agio nel notare come il compositore abbia lavorato soprattutto in funzione dei personaggi e delle voci, tanto che ciascuno dei caratteri o dei gruppi ha una determinata presentazione e configurazione orchestrale: i ringhi del cane sono congiunti a percussioni anche di stampo jazzistico, gli archi accompagnano il canto di Filipp Filippovič, gli ottoni sono preponderanti nei momenti concitati, e insomma risulta chiara la volontà didascalica e illustrativa nei confronti del libretto (nella buca è presente anche un clavicembalo, a rimarcare naturalmente i momenti recitati; ma la famiglia strumentale meglio rappresentata e valorizzata è quella delle percussioni, cui si aggiungono numerosi strumenti etnici, diversi tipi di balalajka e di domra). Tra I e II atto l’impostazione musicale subisce comunque una trasformazione sensibile, perché in apertura della vicenda domina l’affiancarsi di cellule ritmiche molto semplici e non sviluppate: come una serie di frammenti sonori, allusivi a personaggi e a situazioni, che progressivamente si vanno incastrando e ricomponendo. Nel II atto le strutture musicali sono sempre basate su moduli ritmici, ma riescono più articolate, più complesse, come se fosse necessaria la metamorfosi completa dal cane all’uomo (che costituisce appunto la cesura forte tra le due parti dell’opera) perché il frammento musicale diventi a sua volta musica definita a tutti gli effetti. In alcune scene del II atto, per giunta, le scelte armoniche e strumentali molto più rilassate e narrative richiamano la musica per film (in particolare nel duetto tra il Professor Filippovič e l’assistente Bormental’ nella scena 11, con ottoni e percussioni in primo piano), e rischiano anche una lieve banalizzazione stilistica (bilanciata però dall’originalità narrativa, come nella scena 13, in cui Šarikov, diventato accalappiatore del Comune di Mosca, dà la caccia ai gatti randagi).
La musica riesce comunque a essere uniforme nello stile, proprio in quanto Raskatov distorce le tante suggestioni (colte o popolari: salmodie ortodosse e canzoni della rivoluzione, Šostakovič – specie quello del Naso – e Schnittke, e soprattutto un modello come Bernstein nella strumentazione), semplificando e adattando a esigenze drammaturgiche del tutto nuove. Nell’epilogo, prima del ritorno della voce gradevole del cane Šarik, nuovamente scheletro nero e inquietante, l’orchestra modula una fanfara dalle sonorità arcaizzanti: è forse l’ultimo spettro musicale, quello della tradizione slava di Janáček, che si proietta sulla partitura di Raskatov. E dunque la fantasmagoria conclusiva, in cui musica e immaginazione visiva s’innestano una sull’altra, secondo la didascalia finale di Mazzonis: «Poi, forse proiettati forse moltiplicati in altro modo in palcoscenico o forse anche in sala, cominciano ad apparire dei cloni di Šarikov e a invadere tutto lo spazio».
La regia di Simon McBurney non concede un attimo di tregua, né agli interpreti né allo spettatore, subissato da suggestioni visive (anche grazie ai sapienti video di ambientazione moscovita di Finn Ross) e da un continuo incalzarsi reciproco dei personaggi sulla scena; pannelli mobili e pareti di fondo, che continuamente avanzano e si ritraggono, diventano spazio di proiezione per ombre (come nella scena 6, con la grottesca operazione di Šarik) o accompagnano gli spostamenti dei protagonisti, per lo più all’interno della lussuosa abitazione del professor Filippovič. La recitazione non risparmia nessun tono drammatico o violento, ma fa intendere bene come la sordida ferinità di Šarikov, che sevizia il gatto in casa di Filippovič oppure abusa della cameriera, sia ampiamente superata dalle ipocrisie e dagli orrori degli uomini a tutti gli effetti (come gli squallidi pazienti del professore, e come il professore stesso, imperterrito a trapiantare ipofisi e testicoli animali nelle persone e viceversa); ecco perché, in occasione della seconda operazione a Šarikov, il sangue che prima si intuiva soltanto scorre a secchiate sul pavimento, a simboleggiare la cieca brutalità degli oppressori sugli inermi.
Il pubblico della Scala, dopo i timidi applausi alla fine del I atto, dimostra grande apprezzamento al termine dell’opera, gratificando tutti gli interpreti con prolungate acclamazioni; e sul palcoscenico, dopo il direttore d’orchestra, il regista e i suoi vari collaboratori, si affaccia anche Alexander Raskatov, per condividere con gli artisti la perfetta riuscita della rappresentazione, e con il pubblico il fascino di una vicenda tutta surreale e “politica” che è riuscito così bene a trasporre in musica. Foto Brescia e Amisano © Teatro alla Scala