Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2012/2013
“ATTILA”
Dramma lirica in un prologo e tre atti, libretto di Temistocle Solera, dalla tragedia Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner.
Musica di Giuseppe Verdi
Attila, re degli Unni ERNESTO MORILLO
Ezio, generale romano LEO AN
Odabella figlia del signore d’Aquileja RACHELE STANISCI
Foresto, cavaliere aquilejese KHACHATUR BADALYAN
Uldino ANTONELLO CERON
Leone SEUNG PIL CHOI
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del Coro Armando Tasso
Regia Georges Lavaudant
ripresa da Stefano Trespidi
Scene e costumi Jean-Pierre Vergier
Allestimento del 2008 della Fondazione Arena di Verona
Verona, 12 febbraio 2013
La quinta e ultima recita dell’opera Attila di Giuseppe Verdi nella produzione della Fondazione Arena di Verona al Teatro Filarmonico, ha purtroppo coinciso con il con martedì grasso e con la prima serata di quello che è, nel bene o nel male, l’evento musicale televisivo dell’anno, ossia il Festival di Sanremo, dove una parte del coro areniano era impegnato ad aprire la serata con il “Va’, pensiero”, omaggio a Verdi nell’anno del suo bicentenario. Ne ha fatto le spese Attila che si è trovato con un teatro desolatamente svuotato di pubblico. Sul piano musicale, sappiamo trattarsi di un Verdi giovanile nel quale, nonostante momenti ispirati e con non privi di una grande originalità nell’orchestrazione, la caratterizzazione teatro-musicale è ancora acerba, e non si percepiscono i germi del nuovo linguaggio drammatico verdiano: Foresto è praticamente inesistente, Ezio e Odabella sono figure piatte e bidimensionali, e il personaggio di Attila è alquanto confuso e confonde. In ogni caso, da questa partitura “risorgimentale” del 1846, sprigiona una notevole forza, vitalità e, soprattutto, l’esaltazione del “coraggio italico” contrapposto alla ferocità dei barbari che, ovviamente ha chiari riferimenti politici. Da Foresto e Ezio sentiamo pronunciare frasi che parlano di “Patria” che si contrappongono ai ritmi marziali delle marce e cori dei guerrieri di Attila.
L’allestimento della Fondazione Arena, pur nel suo minimalismo, non manca di efficacia. Il palcoscenico inclinato proietta i solisti e coro verso il pubblico, coinvolge con più immediatezza e sottolinea il senso di un esercito invasore in marcia e pronto alla battaglia. Le scena fissa, grigia e spoglia, composta da un profilo che può richiamare delle rocce o le dune sabbiose della laguna veneta, ci è parsa abbastanza neutrale ad evidenziare delle da proiezioni sullo sfondo (Aquileia in fiamme, cieli in tempesta, Venezia, Santi che accompagnavano Papa Leone, fuochi d’artificio alla fine del secondo atto). I costumi, anche se non coerenti coll’epoca storica, tutto sommato, non disturbavano la coesione drammatico-musicale.
Questo secondo cast ci è parso complessivamente di buon livello. Ernesto Morillo è stato un Attila di buona presenza scenica. Ha dimostrato una vocalità tenace e robusta e un bel timbro. Peccato per una tendenza a forzare l’emissione che portava a suoni poco ortodossi e una dizione talvolta artefatta. Ha comunque delineato un Attila forte e convincente. Leo An (Ezio) ha fin da subito messo in luce un valida impostazione tecnica espressa da voce sonora e ferma e una dizione nitida e stilisticamente adeguata. Aiutato da una presenza naturalmente nobile, An è stato l’interprete stilisticamente più completo della serata. Rachele Stanisci (Odabella) ha dato il meglio di se nella cavatina “Oh nel fuggente nuvolo”, con quella squisita orchestrazione per flauto, corno inglese, arpa e violoncello, che ha dato alla voce un sostegno espressivo e delicato. La Stanisci ha saputo sostenere la linea vocale con un perfetto controllo del fiato, sostenendo le lunghe frasi con facilità, giocando con repentini cambi di colore e dinamica, e scandendo bene le parole con un’emissione pulita. E’ stata un’ottima esecuzione accolta calorosamente dal pubblico. Nel magnifico pezzo di invettiva musicale, “Allor che i forti corrono”, che ricorda la vocalità e temperamento di Abigaille, la Stanisci ha dimostrato il suo grande temperamento, ma ha anche evidenziato i limiti di un soprano sostanzialmente lirico quando si trova ad affrontare un ruolo drammatico. Mentre la voce era distesa e bella negli squarci lirici, precisa e scorrevole nell’agilità, nei declamati appariva debole e opaca. La tendenza di scurire innaturalmente la voce nella zona medio-grave ha avuto il solo risultato di rendere il fraseggio oscuro. Nel recitativo “Santo di Patria” che contiene una scala che tocca il do acuto e scende al si oltre due ottavi più in basso che si collega al vigore melodico dell’aria e della successiva cabaletta sono un irresistibile momento di teatro nel quale la Stanisci ha saputo far fronte con grande professionalità. Una piacevole presenza scenica e precisione musicale hanno sostenuto la bella qualità di voce e la solida tecnica di Khachatur Badalayan, nel ruolo di Foresto, che comunque dovrà porre più attenzione all’uso dei colori per dare una maggiore personalità al suo personaggio. Puntuale e sciolto l’Uldino di Antonello Ceron. Misurato e appropriato nel ruolo di Leone, Seung Pil Choi.
In questa recita ci è parsa debole la prestazione dell’orchestra diretta da Andrea Battistoni. Dopo un inzio alquanto distratto e sciatto, il proseguo non è andato molto meglio: l’articolazione era approssimativa, le frasi piene di pathos, piatte, la dinamica erano in un costante mezzo-forte/forte, troppo soverchianti nei confronti del canto. Le diverse sezioni degli strumenti ci sono parse poco calibrate fra di loro. La bella pagine del prologo che vede il sorgere del sole dopo la tempesta, invece di un lento crescondo, è arrivato al forte molto troppo presto. Un’esecuzione fiacca che il direttore sembrava non riuscire a rianimare e caricare di tensione drammatica. Solo nei più semplici accompagnamenti delle arie, eseguiti con dolcezza, l’orchestra ha dimostrato più attenzione e sensibilità. Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona