Teatro La Fenice, venerdì, 22 febbraio 2013, Stagione sinfonica 2012-2013
Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia
Direttore Diego Matheuz
Oboe Marco Gironi
Clarinetto Vincenzo Paci
Corno Konstantin Becker
Fagotto Marco Giani
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n. 29 in la maggiore KV 201 (KV6 186a); Sinfonia concertante per oboe, clarinetto, corno, fagotto e orchestra in mi bemolle maggiore KV Anh. I, 9 (KV3 297b; KV6 Anh. C 14.01)
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
Venezia, 22 febbraio 2013
Se volessimo individuare un elemento comune tra i vari titoli in programma per questo concerto, non potremmo non far riferimento alla personalità di Wolfgang Amadeus Mozart. Un Mozart diciottenne, quello che ci offre, grazie alla proverbiale precocità del suo genio, un gioiello di fervida inventiva, delicata espressività e sapiente uso degli strumenti, spesso protagonisti in eleganti giochi imitativi, quale la Sinfonia n. 29 in la maggiore KV 201. Un Mozart avvolto nel mistero, quello che, invece, emerge dalle pagine di un lavoro di dubbia autenticità, la Sinfonia concertante per fiati, la cui partitura originale, per flauto, oboe, fagotto e corno è andata perduta, cosicché oggi si ascolta una versione concepita, forse nell’Ottocento, per un diverso ensemble di fiati: oboe, clarinetto, fagotto e corno. Quanto all’ultimo titolo previsto, se esso è decisamente lontano dalla sensibilità mozartiana, nondimeno è indubbio che il suo autore nutriva una smisurata ammirazione per il Grande Salisburghese, ravvisabile in varie opere, quali la Serenata in do maggiore op. 48 e la Suite n. 4 op. 61. Ma un’altra costante, che ha attraversato questa serata certamente ricca di emozioni per il pubblico, è l’impeto virile, che il promettente quanto prorompente Diego Matheuz ha saputo imprimere non solo alla titanica sinfonia ciaikovskiana, ma anche, in qualche misura, alle due partiture mozartiane.
Nella Sinfonia KV 201, detta “a mezza orchestra” per l’organico piuttosto ridotto formato solo da archi, oboi, corni e continuo, il primo tema del movimento iniziale, Allegro moderato, risuonava con grande slancio vitale grazie anche alla buona prova degli archi, in particolare al suono perlaceo dei violini. Forse l’impostazione di Matheuz non ha messo abbastanza in valore il breve squarcio lirico che fa seguito, nello sviluppo, all’inquietante tremolo degli archi, guardando già al preromanticismo e alle opere successive, ma l’intera esecuzione – a parte qualche peccato veniale dei corni – ha generalmente brillato per pulizia di suono e sicura condotta delle parti: così nell’Andante, un brano ancora vicino allo stile galante; così nel Minuetto – pur eseguito, a dire il vero, con eccessiva concitazione – con le sue insistenze su una sola nota e la sua sorprendente conclusione in sospeso; così nell’incontenibile Allegro con spirito finale, movimento dalla scrittura complessa e piuttosto brillante, caratterizzato da scale veloci, temi brevi, e da quella successione di accordi quasi seri, che chiudono la sinfonia, uno dei punti d’arrivo della produzione giovanile di Mozart.
Analogo vitalismo ha percorso l’esecuzione della Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore per oboe, clarinetto, corno, fagotto e orchestra KV Anh. I, 9, opera dalla genesi ancora misteriosa, composta nel corso del soggiorno parigino. Inizialmente concepita per alcuni strumentisti, che Mozart aveva conosciuto a Mannheim (il flautista Wendling, l’oboista Ramm, il cornista Punto e il fagottista Ritter), per ragioni tutt’ora oscure (probabilmente l’invidia suscitata dal Salisburghese, idolo del pubblico della capitale francese, nel musicista italiano Cambini) la partitura manoscritta venne fatta sparire (complice il direttore del Concert Spirituel Jean Le Gros che pur l’aveva commissionata) prima che fosse copiata nelle sue singole parti ed eseguita. Si ignora, dunque, da chi e quando sia stata riscritta l’attuale versione per oboe, clarinetto, corno e fagotto: donde l’incertezza nella numerazione Köchel. L’ipotesi più probabile è che le parti solistiche siano di mano mozartiana (ricordiamo che il clarinetto, presente nella versione corrente, era uno degli strumenti prediletti da Mozart), mentre l’accompagnamento orchestrale, talora pedissequo e ripetitivo, sia opera di un compositore successivo.
Nell’esecuzione diretta da Matheuz si è segnalata l’eccellente prestazione dei solisti (il cosiddetto “concertino” di derivazione barocca), che hanno sfoggiato ineccepibile intonazione, bel suono, perfetta intesa tra loro e con l’orchestra (sotto la guida del sempre autorevole maestro venezuelano), oltre a una sicura padronanza tecnica, più che mai necessaria in una composizione che, al di là dei misteri e travagli legati alla sua genesi, è un capolavoro di virtuosismo, seppur mai fine a se stesso e intramezzato da incantevoli squarci espressivi, languidamente patetici. Meritatissimi i festeggiamenti del pubblico tributati ai solisti una volta conclusa l’esecuzione.
“Promettente e prorompente”: così abbiamo definito Diego Matheuz. Forse questo suo gesto perentorio e solare andava talora a scapito di una lettura più nuancée, in grado di aderire ai momenti più intimi, di più sommessa espressività. Ma questo vale per i primi due titoli in programma. La sua interpretazione della Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64 di Pëtr Il’ič Čajkovskij – che fa seguito a quelle già proposte al pubblico della Fenice, relative alla Prima, alla Seconda e alla Sesta – ci ha, infatti, rivelato un direttore maturo e sensibile, che ha saputo probabilmente fare tesoro dell’esperienza fin qui acquisita nell’affrontare i lavori sinfonici del grande compositore russo, di cui in un prossimo concerto proporrà la Terza sinfonia, oltre a Romeo e Giulietta, ouverture-fantasia.
Inutile sottolineare la potenza espressiva, l’originalità a livello ritmico e melodico della Quinta sinfonia, che è un vero capolavoro, nonostante l’insoddisfazione inizialmente espressa dallo stesso autore dopo la tiepida accoglienza riservata dal pubblico a questa composizione alla prima di Pietroburgo. Incentrata sul tema della lotta dell’uomo contro il destino, la sinfonia esprime – a parere della critica – una visione radicalmente pessimistica e sconsolata, che esclude ogni possibilità di vittoria della ragione umana, diversamente dalla concezione beethoveniana, ancora rischiarata da un ottimismo di stampo illuministico. Essa rispecchia pienamente la personalità ciaikovskiana incline al più cupo pessimismo, a cui si alternano solo rari momenti di sereno. Il maestro venezuelano, che ha diretto l’imponente partitura a memoria, ha saputo guidare con autorevolezza la nutrita compagine orchestrale che, a sua volta, lo ha seguito con precisione e duttilità in una lettura raffinata e ricca di sfumature e contrasti. Molto espressivi i clarinetti al principio dell’Andante introduttivo esponendo, nel registro grave, il tema dal ritmo puntato, che lega tutti e quattro i movimenti e, secondo Cajkovskij, sta a significare “una completa rassegnazione di fronte al destino”; coeso l’insieme dell’orchestra che lo accompagnava con le sue sonorità scure e meste. Anche nel successivo Allegro con anima, basato su un nuovo tema dal ritmo relativamente vivace, cui segue un secondo tema più rasserenate di carattere pastorale, il gesto di Matheuz sapeva adeguarsi ai diversi climi evocati dalla partitura, variando con sapienza la dinamica e l’agogica nel corso di questa seconda parte del movimento, in cui i sonori interventi dell’ottima sezione degli ottoni segnavano il culmine della tensione. Estremamente raffinata e variegata anche l’esecuzione del successivo valzer, lirico e vaporoso.
Splendido, sullo sfondo della sonorità grave degli archi, l’intervento del primo corno nel successivo Andante cantabile, con alcuna licenza, esponendo la sua accorata melodia, uno dei vertici del sinfonismo ciakovskiano. Intensa anche l’espressività dell’oboe nel successivo delicato dialogo con il corno, proponendo una nuova melodia, ripresa anche dagli archi e poi dall’intera orchestra. Straordinaria la sezione centrale ricca di slancio, con la toccante melodia affidata agli archi, in cui la sensibilità del direttore si è espressa in modo esemplare per scelte coloristiche e articolazione dei tempi, che si allargavano e si strigevano con grande musicalità e intelligenza interpretativa. Elegante l’esecuzione del terzo movimento la Valse: Allegro moderato, facendo emergere tutta la pacata tristezza che lo pervade. Travolgente il Finale in cui riappare il tema del destino, trasformato in un canto di vittoria in modo maggiore – ma questa parte è apparsa ad autorevoli musicisti e critici, tra cui Brahms, il punto debole della partitura per quel suo falso trionfalismo magniloquente. Qui, comunque, le varie sezioni dell’orchestra, con particolare riguardo a quella degli ottoni, hanno dato il meglio al pari della sensibile bacchetta del sorprendente Diego Matheuz. Applausi a non finire a conclusione dello spettacolo.