“Don Giovanni” al Teatro Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2012-2013
“DON GIOVANNI”
Dramma giocoso in due atti, libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni CARLOS ÁLVAREZ
Donna Anna EVA MEI
Donna Elvira CARMELA REMIGIO
Don Ottavio TOMISLAV MUŽEK
Leporello CARLO LEPORE
Zerlina ROCÍO IGNACIO
Masetto FEDERICO LONGHI
Il Commendatore JOSÉ ANTONIO GARCÍA
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Christopher Hogwood
Maestro al fortepiano Carlo Caputo
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Michele Placido ripresa da Vittorio Borrelli
Scene e costumi Maurizio Balò
Movimenti coreografici Tiziana Tosco
Luci Andrea Anfossi
Direttore dell’allestimento Saverio Santoliquido
Allestimento del Teatro Regio di Torino
Torino, 15 febbraio 2013

Don Giovanni di Mozart torna al Regio di Torino dopo otto anni, nello stesso allestimento che Michele Placido (allora debuttante come regista d’opera) propose per la stagione 2004-2005. Non una nuova produzione, dunque, ma una ripresa curata dal versatile Vittorio Borrelli, con un direttore d’orchestra e una compagnia vocale interessantissimi. Christopher Hogwood, celebre clavicembalista e interprete di musica rinascimentale e barocca, debutta sul podio del Regio (con la stessa opera con cui iniziò ufficialmente la carriera direttoriale nel 1983, negli Stati Uniti). La sua intensa frequentazione mozartiana (rifluita tra l’altro in un’incisione completa delle sinfonie) si fa sentire sin dalle prime battute dell’ouverture; era ovvio attendersi da Hogwood un Mozart dalle sonorità e dai ritmi più tendenti al modello barocco che non all’impeto romantico; e invece sorpresa c’è stata nell’esaltazione della componente sinfonica di tutta la partitura, ma contenuta in volumi sonori che lasciano sempre in primo piano le voci dei cantanti. Quando questi ultimi tacciono, gli strumenti dell’orchestra ne proseguono le vibrazioni, le giocosità così come le malizie, tra galanteria e malinconia, in una summa esecutiva di indefinibile eleganza. Hogwood ha svolto un impeccabile lavoro di concertazione con le voci, e l’intesa tra palcoscenico e orchestra è perfetta; mentre dirige sembra sottrarre peso e presenza alle sonorità strumentali, non tanto per alleggerire quanto per svelare la struttura intima della musica mozartiana; che non è mai definibile in termini sintetici, tanto più nel caso davvero eccentrico di Don Giovanni e dell’«ambiguità radicale del testo e della musica, inseparabilmente, spesso fondata e giustificata sopra una condizione storica e concreta, quale effetto della transizione non indolore, nell’autunno dei lumi, tra un barocco e un romanticismo che si legano in un trascolorante impasto, che sfida qualunque tentativo di esplicazione compatta» (come scrive Edoardo Sanguineti nel saggio del 2005 per la produzione torinese, ora ristampato nel programma di sala).
Nel caso del Don Giovanni non è neppure ozioso specificare il carattere vocale del protagonista; Carlos Álvarez è un baritono, e non un basso; da una voce autenticamente baritonale, piena, virile e signorile come la sua ogni battuta del burlador risulta perfettamente credibile e adeguata: la zona acuta della tessitura è affrontata senza alcun problema, e tutto è cantato con emissione bene impostata (dal pezzo di bravura di «Fin ch’han dal vino» al malioso duettino con Zerlina «Là ci darem la mano» alla melliflua canzonetta «Deh vieni alla finestra, o mio tesoro!», in cui è davvero grand seigneur), senza ricorso al parlato, senza difformità nel registro. Ed è naturale che l’uniformità vocale si traduca in determinazione e coerenza nella resa del personaggio, ossia in un effetto drammaturgico-musicale di sicura efficacia. D’altra parte, la compagnia di Torino è quasi completamente caratterizzata da tale uniformità e correttezza vocali. Carlo Lepore reca sin dal nome il destino dell’interprete di Leporello: spigliato, abilissimo sia nei momenti di sarcastica ribellione al padrone sia in quelli di terrore nelle due scene finali, il basso si distingue per la ricchezza di armonici della voce e l’eleganza del porgere; forse non riesce a coprire perfettamente tutte le note più acute, ma raggiunge nel complesso un risultato eccellente, di gran lunga superiore al Don Alfonso di Così fan tutte (interpretato al Regio di Torino nell’aprile 2012). Il tenore tedesco-croato Tomislav Mužek ha voce molto bella e aggraziata; canta certamente bene, anche se il primo dei suoi due difficili cimenti (l’aria «Dalla sua pace» del I atto) non è esente da qualche piccolo difetto d’intonazione; riesce meglio in quello del II atto (l’aria «Il mio tesoro intanto»), anche se le fioriture e la cadenza non sono in ogni passaggio felicissime. Federico Longhi è un Masetto dal carattere vocale ben definito, e lo sarebbe ancor più se non ricorresse sovente a inflessioni parlate. Molto corretto il Commendatore di José Antonio García, che nella scena del sepolcreto e nel finale II sembra cantare dalle profondità della buca orchestrale.
Il terzetto femminile, come in ogni Don Giovanni, merita considerazione a sé, soprattutto per la particolarissima cura che Mozart profonde nel differenziare i caratteri vocali di Donna Anna, Donna Elvira e Zerlina, e che le interpreti hanno il compito di rispettare. Eva Mei, Carmela Remigio, Rocío Ignacio ci riescono molto bene, proprio perché tutte e tre esperte mozartiane (e, le prime due, molto amate dal pubblico torinese): la prima, con la sua voce calda, ricca di armonici, ferma e sempre curata nel fraseggio, rende perfettamente l’aristocratico distacco di Donna Anna (magnifiche, in particolare, aria e cadenza del II atto «Non mi dir bell’idol mio»; e non importa se alcune note basse non sono sempre sostenute da sufficiente fiato). Anche la seconda fraseggia assai bene, ed è molto espressiva nella scomposta passionalità di Donna Elvira (e anche per la Remigio il momento più intenso e suggestivo è nel II atto, con il recitativo e l’aria «Mi tradì quell’alma ingrata»). La terza ha voce vigorosa e sostenuta, dal colore che assomiglia un po’ a quello della Remigio; ma la Ignacio ha saputo esprimere la maliziosa blandizie di Zerlina con la giusta freschezza, e quindi il contrasto scenico rispetto a Donna Elvira resta sempre netto.
Come lo stesso Placido ha affermato a proposito dell’ambientazione, «non si sa se sia più Sicilia o Spagna» («La Stampa – Torino Sette» del 15 II 2013); ma se è forte la suggestione visiva di regioni italiane molto solari («Il nero della pietra lavica, il rosso dell’Etna»), di cui il regista è originario, ancor più forte è la suggestione vocale spagnola di tanti cantanti: Carlos Álvarez proviene da Malaga, Rocío Ignacio da Sevilla, e di origini iberiche è anche José Antonio García.
Perché sia sempre sottolineata l’atmosfera notturna dell’azione, la scena è caratterizzata da un cromatismo ridotto al minimo: scarsa luminosità, pesante sipario-quinta nero, con fregi in oro di gusto barocco; nei momenti concitati una maestosa lanterna torreggia con la sua unica e fioca luce, come se tutto si svolgesse nello spazio di un androne, o in un andito che collega il cortile di un palazzo ai viali di un giardino. Ci sono però due esplosioni di color rosso fuoco, nella scena finale del I atto e nel finale dell’opera, sempre a casa di Don Giovanni, prima nella sala delle danze e poi in quella da pranzo (allusivamente affrescata con soggetti licenziosi a intera parete).
Se le scene di Maurizio Balò sono sempre sontuose (anche negli scorci di murate grigio-scuro, sormontate da monumentali vasi di agavi e piante succose) i suoi costumi sono invece funzionali alla recitazione nella loro sobrietà (quasi si direbbe severità, soprattutto per le tre maschere del finale I). Nell’impianto registico non c’è nulla di troppo, perché Borrelli ama rispettare la sostanza delle indicazioni sceniche: al termine dell’opera il Commendatore non compare, ma è sostituito da una maestosa e barocca statua di angelo vendicatore, sul cui basamento Don Giovanni sale per stringere la mano marmorea, e quindi precipitare agli inferi con tutto il blocco; anche qui, appunto, fedeltà sostanziale. Siccome oggi non c’è allestimento di Don Giovanni che non provveda a “redimere” e “salvare” il protagonista, al termine dell’«antichissima canzon» intonata a fini morali, mentre il sipario si chiude, egli riappare, e si produce in una sonora risata davanti al pubblico. Il quale festeggia poi tutti gli artisti con calorosi applausi; soprattutto festeggia il protagonista, che per la sua irrefrenabile simpatia da «dissoluto punito» (titolo effettivo dell’opera di Mozart) diventa il «dissoluto assolto» (come suggerisce il titolo di José Saramago, recente rielaborazione di un mito che non smette di affascinare e divertire).