Interviste d’annata: Renata Scotto

Renata Scotto era un soprano lirico-leggero, ma è stata una delle rarissime voci che hanno superato lo scoglio del canto moderno senza naufragare. E perchè? Perchè la tecnica, ci piaccia o meno, ha saputo fruire di certe astuzie e accorgimenti, perchè il timbro, che mai era stato sguaiato, si è naturalmente rimpolpato e perchè, soprattutto, la lezione della Callas fu dapprima imitata, ma poi totalmente assorbita in una nuova personalità…Ciò che la cantante ha forse perso in freschezza ha guadagnato in fraseggio che è di un’autorità indiscutibile, di quelle autorità che competono solo alle massime..
.La Scotto mantiene i suoi “piani” e “pianissimi” di grande suggestione e di intensissima espressività…anche i giovani dovrebbero guardare proprio alla Scotto e alla Freni per imparare a far sviluppare la loro voce. Si accetti anche una grande lezione di canto”. Così scriveva nel 1978 Angelo Sguerzi nel suo volume “Le stirpi canore” e crediamo che più che mai siano chiare nel descrivere l’arte di questa grande artista. A questo aggiungiamo quello che ci ha raccontato di lei in questa intervista che inizia con una domanda insolita.
Quale tipo di musica preferisce extra lirica? 
«È difficile dire quale tipo di musica extra lirica preferisco perché sono nella lirica tutti i giorni. Comunque mi piace il jazz, quello americano di New Orleans o di Benny Goodman o di Duke Ellington. Quando ho tempo ascolto questo, oltre alla musica classica».
Qual è la sua opinione sui dischi? 
«Io non sono una fanatica dei dischi perché so come vengono fatti. Mi piace di più una registrazione  dal vivo. Il  disco viene fatto spezzettato e si sa che non è fedele, è troppo ritoccato».
Lei nei dischi si piace, rende bene? 
«È molto difficile piacersi completamente nel senso che quando si fa un disco, si sa che il pubblico lo vuole perfetto sotto tutti i punti di vista, perché lo ascolta e riascolta. Se si fa una registrazione dal vivo ci sono dei momenti in cui non si è perfetti, che però sono belli in una serata e danno una sensazione di realtà: uno non può essere una macchina. Nel disco basta che una nota non sia venuta bene che la si rifà. La mia voce nel disco è abbastanza fedele. Per esempio ci sono delle voci belle in teatro che non rendono in disco e viceversa. La Nilsson nel disco di Turandot non rende bene per la potenza che ha: era  meglio ascoltarla in teatro».

Ho sentito molti suoi colleghi, soprattutto uomini, disquisire da tecnici sulle eccessive frequenze e sugli armonici.  
«Certi armonici nel disco si perdono, c’è sempre un appiattimento. Come le dicevo, la voce potente nel disco perde perché non ci sono abbastanza frequenze per poterle registrare tutte. Quando ho inciso  una certa frase nella quale da un pianissimo passavo ad un crescendo fortissimo, parlo anche per l’orchestra, non si riesce ad avere questo effetto neanche nello stereofonico. Quando ascolto un mio forte riconosco che ho cantato molto più forte e così anche per un pianissimo. Per quanto ci sono diversi tipi di incisione. Mi sono trovata ad incidere con la CBS che ha una tecnica perfetta sia per le voci che per gli strumenti. La CBS ha dei mezzi d’incisione semplicissimi, per esempio con altre case avevo tanti microfoni mentre il metodo moderno usa un microfono unico a otto piste, per cui la voce ha la sua pista e ogni strumento anche. Molto dipende da chi registra perché deve essere un musicista bravo. Comunque io ce l’ho con i critici del disco perché, essendo l’esecuzione completamente falsata, non si può criticare un disco. Se per fare una frase la spezzi dieci volte, per fare una sola nota come puoi criticare? È inutile che io abbia un disco di Butterfy di una tale cantante che in scena non la farà mai. Io ho inciso La traviata, la Butterfly, La bohème, la Lucia perché sono tutte opere con le quali in scena ho avuto il successo del pubblico e quindi desidero che siano tramandate come mio ricordo».
Allora soltanto in questo senso lei approva il disco: se quell’opera è stata fatta in teatro. 
«Sì, oppure incidere il disco dal vivo come si tenta di fare adesso. Farò un  concerto alla Carnegie Hall e spero si possa registrare per un disco con la presenza del pubblico, come fanno le registrazioni pirata che però tecnicamente sono brutte».
Quale ritiene sia la sua migliore incisione? 
«Se devo parlare come popolarità, come indice di gradimento direi la Butterfly, senz’altro. Dirigeva il grandissimo direttore John Barbirolli. Come esecuzione invece direi La traviata che ho inciso con la Deutsche Grammophon e anche un Rigoletto, ne ho fatti due, uno con la Deutsche l’altro con la Ricordi».

È famosa anche un’altra sua incisione: l’aria della Lodoletta “Flammen perdonami”. 
«Sì, ho recentemente inciso due recitals a Londra dove ho registrato ancora questo “Flammen perdonami”, anzi uno è un disco solo di arie verdiane e ho voluto mettere un’aria, che non si fa quasi mai, della Battaglia di Legnano, poi I Lombardi, un’aria del Nabucco che mi piace immensamente anche se non farò mai il Nabucco, poi ho messo l’ultimo atto dell’Otello: “Ave Maria” e “Salce”. Poi I Vespri Siciliani: Bolero e “Arrigo” e La traviata: “Addio del passato”. Dopo ho fatto un disco di arie del verismo e quando canto questo genere mi preoccupo del testo, della parola, perché per la voce ci pensa la tecnica che ho, mentre per la parola ci vuole l’espressione. Debbo dire che non sono assolutamente una mascagnana, a parte la Cavalleria Rusticana, non amo particolarmente Mascagni, però questo pezzo l’ho trovato tanto espressivo e soprattutto tanto moderno, specialmente nel recitativo, che nel disco inciso adesso ho fatto completo, mentre in un altro in cui feci il recitativo è tagliato».

Dove s’impara il canto in Italia? 
«Eh, questa è una domanda a cui è un po’ più difficile rispondere: è un dramma! Io ho cambiato tanti maestri di canto ed ora dico che non credo più al maestro di canto. Se dovessi consigliarlo ad una cantante che inizia, mi troverei molto imbarazzata. Trovo che bisognerebbe studiare con un musicista, non con un maestro di canto: cominciare come quando si studia uno strumento, ma la domanda è molto imbarazzante e io non so rispondere. Potrei pensare a un direttore d’orchestra, però anche qui bisogna fare un distinguo, perché ci sono dei grandi direttori d’orchestra che non sanno insegnare canto».
E dai Conservatori cosa si aspetterebbe?
«Siamo sempre lì: chi insegna canto al Conservatorio è sempre un ex cantante, non è mai un musicista.  Se dovessi fare un nome farei quello di Ettore Campogalliani perché non è stato un cantante era un musicista, un pianista, oggi è l’unico maestro di canto che ci sia in Italia. Ogni voce ha una sua naturalezza, una sua caratteristica di canto. Non posso trasmettere ad un’altra persona quello che faccio io. Quello che ho imparato per poter tirare fuori la mia voce, l’ho imparato con mio marito, con un musicista (Lorenzo Anselmi, violinista alla Scala). Perchè quando sei intonato e riesci a fare le note acute, non è il maestro di canto che te le fa fare: non so come spiegarmi».
Un artista che conosce già le difficoltà del canto, come dovrebbe fare ad organizzare una scuola di canto e con quali materie?
«Una scuola di canto tipo, dovrebbe essere così: prima di tutto un musicista, un direttore d’orchestra e io ho avuto un violinista che è ideale perché il suono del violino è molto simile all’emissione della voce. Poi un cantante che sia stato un interprete vero. Per arte scenica ci vorrebbe un bravo regista che sappia la musica. Queste secondo me dovrebbero essere le tre persone adatte ad insegnare canto. È fondamentale l’intonazione, perché molti cantanti che sento in giro hanno problemi con l’intonazione: è proprio l’imposto vocale, perché quando si è intonati significa che la voce è nella posizione giusta».
Intervista raccolta a Parma il 6 gennaio 1976