Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Semyon Bychkov
Pianoforte Jean-Yves Thibaudet
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia n. 41 in do maggiore KV 551 Jupiter
Maurice Ravel: Concerto in sol per pianoforte e orchestra
Igor Stravinskij: “L’Oiseau de feu”, suite dal balletto (versione del 1945)
Torino, 17 gennaio 2013
Quando Semyon Bychkov torna a Torino per dirigere l’OSN RAI è sempre una festa, sia per gli orchestrali sia per il pubblico; uno dei momenti più alti della precedente stagione coincise con le quattro sinfonie di Brahms concertate dal direttore russo. Questa volta Bychkov presenta il capolavoro della scuola classica, la sinfonia Jupiter di Mozart, una suite dal più classico dei balletti di Stravinskij, L’Oiseau de feu, e accompagna Jean-Yves Thibaudet nel Concerto in sol di Ravel. Non appena attacca l’Allegro vivace dell’ultima sinfonia di Mozart, il direttore attira l’attenzione sul tempo, metronomico e coraggioso, in quanto solenne, pacato, certamente controtendenza rispetto alla maggior parte degli esecutori di oggi, che trasforma i ritmi mozartiani in galoppate beethoveniane. E soprattutto il tempo è unico, omogeneo: come se Bychkov volesse suggerire che la bellezza e la serenità di questa musica non hanno bisogno di stratagemmi, né accelerazioni né rallentamenti. Nell’enunciazione delle singole frasi il direttore sortisce un piccolo virtuosismo orchestrale, perché l’attacco è sempre netto, evidenziato dal colpo di timpano, ma poi il volume del suono si alleggerisce nel decorso, sicché ogni segmento musicale parte con vigore e chiude in levità; non c’è davvero nulla di eccessivo rispetto alla misura di “quieta grandezza” del lavoro. Il II movimento (Andante cantabile) non si presenta dolce, e neppure consolatorio; piuttosto, emerge la drammaticità di alcune zone d’ombra del tessuto musicale, a ricordare le pessime condizioni di vita di Mozart nel periodo di composizione (estate del 1788). L’incrinatura della quiete corrisponde nell’interpretazione di Bychkov a una lieve accelerazione dei ritmi, fortemente contrapposta alla mono-ritmicità del I movimento, che a questo punto acquisisce ancor più interesse. Alla fine, più della serenità o seraficità, la cifra fondamentale della sinfonia diviene la serietà con cui l’interprete vi si accosta. Appena più dilatato del solito il tempo del III movimento (Minuetto. Allegretto-Trio) nella sua aerea leggerezza: il trattamento agogico riservato alle frasi richiama di nuovo quello già sperimentato sul I movimento, mentre il suono omogeneo di tutta l’orchestra è di tanto in tanto venato da colorismi di singoli strumenti o da sussulti, peraltro attutiti, del timpano. Ma i colori e gli accenti più marcati giungono nel finale (Molto allegro), dominato da bellissime sonorità organistiche degli archi, in particolare violoncelli e contrabbassi, a sostanziare la struttura serena della fuga e l’imperturbabilità della melodia. In questo movimento Bychkov raggiunge l’apice espressivo, perché l’apparente mestizia di prima s’infiamma d’una gioia autentica, coincidente con l’impianto polifonico; e nel quadro ogni voce strumentale è distintissima.
Nel concerto di Ravel pianista e direttore concordano nell’esaltare i ritmi delle sezioni concitate, per isolare ancora meglio oasi liriche, in cui il pianoforte o altri strumenti recuperano dal caos informe la melodia. Nei passaggi più agitati il suono del pianoforte è magmatico, come se le note facessero fatica a staccarsi le une dalle altre. Anche per questo motivo l’effetto di contrasto è fortissimo nel II movimento, un Adagio assai che diventa quasi un ballabile lento, dal ritmo andante; e forse Thibaudet offre il meglio della sua interpretazione appunto nei tocchi leggerissimi della sezione centrale. Il vortice finale (Presto), nella sua brevità, deve sempre suscitare l’effetto di un caleidoscopio, di una girandola di colori; ed è così, anche se le espressioni musicali restano comunque distinte tra loro, e misurate. Forse il pianista, concentrato sulla bellezza delle melodie intermedie, non ha evidenziato a sufficienza quel procedimento caratteristico del Concerto, che è il «passaggio da un’immagine sonora all’altra», per riprendere le parole di Enzo Restagno (Ravel e l’anima delle cose, Milano 2009). Ma Thibaudet è comunque molto acclamato dal pubblico, e regala un bis raveliano fortemente evocativo come la Pavane pour une infante défunte (versione originale per pianoforte solo, del 1899).
A conclusione del programma Bychkov torna protagonista per dirigere L’Oiseau de feu, il balletto risalente al 1910, da cui Stravinskij trasse tre diverse suites orchestrali: la prima nel 1911, la seconda nel 1919 (solitamente la più eseguita nelle sale da concerto), e l’ultima nel 1945. Proprio dalla terza, la più estesa, comprendente ben dieci numeri, il direttore ha tratto un’antologia, invero piuttosto esigua, di appena cinque brani (il primo della serie, Introduzione e Danza dell’uccello di fuoco, e gli ultimi quattro, con l’immancabile Inno finale). Poco più di un assaggio, dunque, durato venti minuti scarsi; il pubblico avrebbe certamente gustato volentieri anche altri numeri della complessa partitura (come le Pantomime che caratterizzano la parte centrale). La selezione di Bychkov – una scelta plausibile ma molto personale – ha un senso, in quanto tutta tesa all’Inno finale, a cui riserva le esplosioni orchestrali, presentate quale apoteosi del balletto; i colori strumentali trionfano, ma appena può il direttore – comme d’habitude – alleggerisce il suono per scoprirne l’intimo segreto nella tenuta, nella delicatezza, nel sussurro. Il tremulo finale degli archi nell’attenuazione del discorso, subito prima della grandiosa coda, è il vertice di questa impostazione, capace di regalare, come già nel finale mozartiano, nuovo empito di gioia agli ascoltatori: “nobile semplicità”, appunto, anche tra le fiabesche fantasmagorie dei Ballets Russes. Foto Digital Photo