13 gennaio 2013. In occasione del 77esimo compleanno del grande cantante veneto, pubblichiamo questa intervista-ritratto che traccia alcuni dei momenti più importanti della sua grande carriera artistica.
Ho conosciuto il baritono Renato Bruson mercoledì 2 gennaio 1974 al Comunale di Bologna: prova generale di Favorita. Era una buona produzione con Bruna Baglioni e Luciano Pavarotti diretti da Francesco Molinari Pradelli. Diciamo che stavano tutti in buona salute e già dalla generale si poteva presagire il successo che non mancò nelle recite successive. Nell’intervallo sono salito nel suo camerino e mi sono messo in fila per l’autografo. Lui, ancora in costume, era in piedi davanti a un tavolo e, attingendo da una scatola di fotografie, ripeteva automaticamente “Il suo nome” e firmava. Arrivato il mio turno, mentre allungava la mano per prendere una foto, lo ho anticipato dicendo “Io la fotografia ce l’ho già” e gli ho messo davanti una foto famosa fatta a Parma il 20 gennaio 1971 in occasione di un Trovatore piuttosto tormentato, quando fu immortalato con la spada sguainata mentre cala un fendente, fortunatamente andato a vuoto, a Giovanni Ferraguti, il fotografo della Gazzetta di Parma. Ebbe un piccolo trasalimento che in realtà controllò molto bene, come avrebbe fatto Alfonso di Castiglia. Né lo tradì la voce che, sibilante e imperiosa disse, indicandomi il salottino, “Si metta lì”. Lo guardavo mentre continuava a distribuire autografi. Lo vedevo tutto, di spalle e davanti nello specchio. Aveva un fascino particolare, emanava un senso di rispetto veramente regale. Insomma se invece di Renato Bruson avesse firmato Alfonso XI di Castiglia, non si sarebbe meravigliato nessuno. Accontentati i cacciatori di autografi, ha posato il pennarello e si è voltato verso di me, sempre serio, sempre “regale”.
«Come fa lei ad avere questa foto?» – “Me l’ha data Ferraguti raccomandandomi di non fargliela vedere, ma io gli ho detto che gliel’avrei fatta autografare. Mi disse che ero matto e che avrei rischiato di farla arrabbiare”. Bruson mi ha guardato severo poi, improvvisamente, il suo viso si è illuminato di un sorriso insperato e abbiamo cominciato a parlare. Di lì è nata un’amicizia che dura ancora oggi.
Renato mi ha raccontato tutto della sua vita, delle sue origini contadine, mai rinnegate, di cui andava fiero. Sapeva molte cose dei campi, delle colture e degli animali. Tra un’opera e l’altra, nei rari momenti di pausa, andavamo in giro nelle campagne della bassa padana. Questo negli anni della sua attività al Regio di Parma, dove ha lasciato ricordi incancellabili. Ho seguito Bruson in Italia e all’estero, come fanno i suoi fans stranieri, tant’è vero che ormai ci conosciamo tutti. Ogni volta riceviamo preziosissimi regali di “cultura artistica” che Renato elargisce senza parsimonia. È diventato quasi normale, per non dire scontato, l’esito delle sue interpretazioni. Col tempo non sbiadiscono, perché sono indimenticabili: sono modelli, paradigmi.
Quando hai cominciato a pensare di diventare un cantante lirico?
«Per la verità io non ho mai sognato di fare il cantante lirico. È stato per caso che ho iniziato a studiare canto. Ero disoccupato e ogni tanto mi assumevano nei cantieri come manovale. Eravamo negli anni dell’immediato dopoguerra. A quel tempo c’erano poche strade asfaltate, erano quasi tutte sterrate. E il mio compito era proprio quello di riempire di sabbia le buche che si creavano sulle strade. Ricordo che la paga era di cinquecento lire al giorno. Quindi, a tutto potevo pensare tranne che a diventare un cantante».
Quando hai scoperto di amare la lirica?
«Tardi. Fino a 15 anni non sapevo neppure che cosa fosse, quindi non mi piaceva affatto. In casa non avevamo la radio e io, appassionato di sport e soprattutto di ciclismo, andavo dagli amici che l’avevano solo per ascoltare gli arrivi delle tappe del Giro d’Italia e per sentire le canzonette del Festival di San Remo. Le conoscevo tutte. Ma non sapevo riconoscere nessuna aria di Verdi. Era un genere che non mi piaceva».
Allora com’è avvenuta la svolta?
«Nel 1950 arrivò nel mio paese un parroco nuovo, don Sergio, che era appassionato di lirica. Fu lui a farmi scoprire l’opera. Aveva una grande collezione di spartiti e un giorno mi disse di andare da lui per ascoltare la lirica alla radio. Era il 1951, l’anno del cinquantesimo anniversario della morte di Verdi. Quella sera trasmettevano il Nabucco. Ascoltai l’opera, seguendola sullo spartito e mi appassionai. Continuai ad ascoltare le opere alla radio. L’anno dopo, quel prete mi portò per la prima volta all’Arena di Verona. Ricordo che viaggiammo sulla sua moto, percorrendo tutte stradine sterrate secondarie da Granze a Verona, un centinaio di chilometri circa. Quando arrivammo, la sua tonaca non era più nera ma quasi bianca dalla polvere. Vedemmo la Gioconda, diretta dal maestro Votto, con Maria Callas. Da quel momento la lirica mi entrò nel cuore».
Qual è stata l’evoluzione che ti ha fatto entrare nella lirica?
«Dopo quella Gioconda in Arena ho cominciato a prendere in considerazione la possibilità. A Padova c’erano delle audizioni per il teatro e gli amici mi convinsero a partecipare. Mio cugino mi prestò la giacca, un paio di pantaloni e anche le duecento lire necessarie per l’iscrizione. L’audizione la tenne il maestro Pedrollo e devo dire che andò bene. Mi fecero chiamare e mi chiesero che intenzioni avessi, se volevo cioè studiare canto. Dissi con franchezza che avevo partecipato a quella audizione solo per curiosità e che non avevo i mezzi economici per studiare. Tutto sembrò finire lì. Passarono tre mesi e, poco prima di Natale, la commissione del teatro mi fece chiamare. Avevano deciso di assegnarmi una specie di borsa di studio perché potessi studiare al Conservatorio di Padova. Mi avrebbero pagato il viaggio da Granze a Padova, le tasse e anche il vitto per quei giorni in cui dovevo restare in Conservatorio. Mi lasciai convincere e cominciai. Ma fin dall’inizio non miravo a nulla. Per natura io sono un pessimista e a quel tempo lo ero molto di più. La vita non mi aveva dato altro che difficoltà e avevo sempre dovuto lottare coi denti per qualsiasi cosa. Gli insegnanti parevano davvero convinti che io potessi fare qualcosa di buono nel mondo della lirica, ma io non ci credevo. Mi mettevo a litigare spesso con loro perché credevo che mi prendessero in giro. Non avevo la minima fiducia nelle mie possibilità. A casa poi, non avevo alcun appoggio. Anzi, mi erano tutti contro. Il periodo era quello del dopoguerra, la mentalità del paese era ristretta, la mia famiglia era povera. Io, con il mio studio del canto, passavo per quello che non ha voglia di fare nulla. I miei parenti dicevano che non avevo voglia di lavorare e di farmi una posizione ed erano scandalizzati che mio padre continuasse a lasciarmi andare a Padova a studiare. Ad un certo momento anche mio padre mi si mise contro e per poter continuare gli studi, dovetti lasciare il paese, andare in esilio. In pratica fino a quando non arrivò il primo grande successo, nel 1967 a Parma, non pensai mai di poter mantenermi facendo il cantante».
Però già nel 1961 avevi vinto il concorso di Spoleto.
«Sì, e avevo debuttato con successo in teatro. Ma poi seguirono altri anni di tremende difficoltà che non facevano sperare niente di buono».
E dopo Spoleto le traversie si sono un po’ attenuate o no?
«Mica tanto. In quel periodo ero bersagliato dalla sfortuna. Nel 1962 mi stabilii a Roma, perché nella capitale potevano nascere le occasioni di lavoro. Potei studiare con vari maestri del Teatro dell’Opera e sostenere delle piccole parti in teatro, ma niente di più. L’attesa, durissima, continuò per cinque anni. Finalmente nel 1967 fui chiamato dal Regio di Parma. L’opera era la Forza del destino, con Franco Corelli. C’era moltissima attesa e fu per me un battesimo straordinario, che segnò il vero inizio della mia carriera. In sala c’era Roberto Bauer, incaricato dal Metropolitan di cercare voci nuove. Venne a congratularsi e mi fissò un appuntamento con il sovrintendente del Metropolitan, Rudolf Bing. L’anno successivo andai a New York e debuttai al Met. Bing voleva che restassi là, pagato mensilmente. Io rifiutai perché non mi piaceva l’America. Lui si risentì e finché rimase direttore io non ho più messo piede al Met».
Quali sono state le altre tappe importanti all’inizio di carriera?
«Dopo il debutto al Metropolitan nel 1968, considero una tappa importante il debutto al San Carlo di Napoli con il Lohengrin, in italiano, nel 1969. Opera difficile, ma grande esperienza per me. Poi il debutto alla Scala nel 1972, con Linda di Chamounix e il debutto all’Arena di Verona nel 1975. Fu il commendator Cappelli, sovrintendente, ad insistere perché andassi a cantare in Arena. Erano tre anni che mi faceva proposte, ma io avevo sempre detto di no perché le opere che mi voleva far cantare non erano del mio repertorio. Alla fine, il quarto anno, mi offrì La forza del destino, l’opera con la quale avevo debuttato a Parma e che mi aveva sempre portato fortuna. Solo allora accettai e fu un successo. Da allora la mia carriera non ebbe tregua».
Nella carriera di ogni artista ci sono serate magiche che non si possono dimenticare. Ne puoi citare qualcuna?
«Parma, sicuramente, con il mio vero debutto nel 1967. Il debutto non si può dimenticare. Parma era allora considerata una piazza davvero molto difficile: il pubblico era esigente e competente. In quella città o si ottenevano grandi successi o fischi. Se andava bene, voleva dire che avevi proprio cantato bene. Ricordo che tra i cantanti la tensione si respirava addirittura settimane prima. Parma metteva davvero paura. Corelli era pallido come un cadavere. Immagina come mi sentivo io. Ma andò benissimo e il ricordo è indimenticabile. Fra le tante altre serate rimaste indelebili nei miei pensieri, quella che forse mi ha dato la più viva emozione artistica, l’ho vissuta a Vienna nel 1984. L’opera era il Simon Boccanegra, una produzione della Scala con la regia di Giorgio Strehler. Come ho detto più volte, il Simon Boccanegra è un’opera che io adoro. Il finale mi ha sempre commosso, al punto che fin dalle prime volte che l’ho cantato, ho dovuto imparare a controllarmi per non incrinare la voce a causa della commozione. A Vienna quella sera fu un’apoteosi. Nel 1984 avevo già fatto circa cento recite del Simon Boccanegra. Lo avevo assimilato bene. Era entrato dentro di me al punto che quando lo interpretavo riuscivo veramente a immedesimarmi. Quella sera a Vienna, con Claudio Abbado sul podio, ho dato veramente il meglio di me stesso. Alla fine dell’opera, si chiuse il sipario e fu silenzio. Il pubblico era così preso, così coinvolto, che non applaudì. Niente. Silenzio assoluto. Furono attimi da infarto, non per la paura che l’opera non fosse piaciuta, ma perché sentivi che perfino l’aria era elettrizzata dall’emozione che coinvolgeva tutti. Naturalmente dopo alcuni attimi si è scatenato il finimondo di entusiasmo con applausi interminabili. Ma furono proprio quegli attimi di silenzio a decretare il successo della recita. In seguito ho ricevuto anche delle lettere da persone presenti allo spettacolo. Mi scrivevano dicendo che, dopo aver assistito a quella recita, la loro vita era cambiata. Questo per me è stato il massimo di soddisfazione che un artista possa avere dal suo lavoro».
Cosa pensi di certi registi moderni che vogliono stravolgere le indicazioni del compositore?
«La maggior parte si preoccupa solo del quadretto che sta allestendo. Il resto non conta: peccato che il resto sia l’opera. Penso che, oggi, molti registi cerchino solo di sfogare nelle scenografie i loro istinti repressi. Cambiano tutto, anche lo stile stesso dell’opera. Non si interessano all’interpretazione dei personaggi. Così manipolano i giovani cantanti, i quali si trovano sul palco in un contesto moderno, quindi strano, sentendosi a disagio e non sapendo per niente cosa devono fare. Questo perché il regista non dice loro nulla. È chiaro che poi l’opera va male. Ma questo non è un guaio per loro. Oggi l’importante è far parlare e i registi allora cercano di fare cose sempre più strane, proprio perché se ne parli. L’assurdo è che poi pretendono anche di spiegarti l’iter psicologico che li ha portati a quella scelta. Per esempio, al Teatro Sperimentale di Spoleto hanno allestito, anni fa, una Tosca dove, nella scena del “Te Deum”, al posto dei chierichetti c’erano delle ragazze a seno nudo. Ma ti pare possibile? Io più di una volta ho litigato con registi di questo tipo e sono stato costretto ad andarmene. Mi ricordo di una recita di Otello a Macerata. Invece del costume di Iago, il regista voleva che indossassi un vestito bianco, tenessi un gatto in mano e portassi il monocolo. Siccome Iago è un cattivo, il regista voleva che fossi vestito come il cattivo dei film di 007. “Io voglio fare Iago come lo avevano in mente Verdi e Boito”, ho protestato. “O il costume è come dico io o vi trovate un altro interprete”. Alla fine io ho indossato il costume classico, ma ero l’unico in quell’allestimento».
Quante opere hai in repertorio?
«Una settantina. Ma mi riferisco alle opere interpretate in teatro, sulla scena, con i costumi. Perché poi ce ne sono tante altre che ho fatto solo in forma di concerto oppure che ho cantato per un’incisione discografica. Se teniamo conto anche di queste, il repertorio sale a circa 110 opere».
I tuoi cavalli di battaglia?
«In testa c’è Macbeth, poi Simon Boccanegra, Rigoletto, Traviata. Ho fatto tante recite anche di Don Carlos. Insomma, come vedi, opere di Verdi».
Hai legato molti dei tuoi successi al Teatro Regio di Parma dove sei andato per molte stagioni: evidentemente ti sei trovatoi bene.
«Mi sono sempre trovato bene anche perché ho avuto sempre successi. La prima volta sono venuto nel dicembre 1968 con La forza del destino. Poi sono ritornato con il famoso Trovatore e molte altri titoli».
Chi va a teatro soltanto da un anno vorrebbe sapere: famoso perché?
«Ci sono stati quelli che hanno contestato me e io ho contestato loro. Poi son venuto l’anno scorso con la Miller e Tosca e quest’anno col Simon Boccanegra, finalmente un’opera dove potevo dare un’interpretazione mia, personale».
Allora ti piace molto il Simone. È forse l’opera che preferisci?
«Sì, insieme a Macbeth, Otello, Jago ovviamente, perché sono personaggi dove si può tirar fuori qualche cosa. Non è come Renato del Ballo in maschera che è un personaggio un po’ superficiale».
Tu sei ancora convinto di fare Renato perché è un caso di omonimia? Io ti ho sentito dal vivo e ho ascoltato le ultime registrazioni e devo dire che sono ottime cose.
«Sì, ma preferirei non farlo anche se mi chiamo Renato. È un’opera in cui, a parte l’aria “Eri tu”, non c’è quasi niente per il baritono».
Parliamo di questo Simone che è stato un successo sotto tutti i punti di vista, non soltanto per l’aspetto vocale ma soprattutto per quello interpretativo, come è stato il giudizio unanime della stampa. Cosa trovi in Simone che si lega così bene a te?
«Ci sono tante cose. Io sento molto il ruolo del padre, questo padre un po’ patetico. Infatti anche l’anno scorso sempre nel padre nella Luisa Miller, ho avuto delle critiche buone. Poi mi piace la parte musicale che è indiscutibile e poi sono convinto che in certi punti c’è proprio l’animo di Verdi».
Insomma lo senti molto. Senti più Simone o Macbeth?
«Questa è una domanda a cui è difficile rispondere. Adesso sento molto Simone, ma se tu oggi pomeriggio mi fai sentire una registrazione di Macbeth, sento quello».
Non credo però che basti l’aspetto del padre, forse hai trovato altre cose che ti hanno colpito nella figura di questo doge – corsaro.
«L’ho studiato profondamente e ho cercato nella storia. Mi sono documentato e poi ho avuto gli insegnamenti di Tito Gobbi che su questo personaggio credo sia il più documentato».
In quali termini l’aiuto di Tito Gobbi è stato fondamentale?
«Mi ha dato dei chiarimenti storici che non avevo. Per esempio quando sono stato a Genova per la Favorita mi ero interessato per vedere dov’era stato sepolto, ma non sono riuscito a sapere niente. Attraverso Gobbi sono riuscito a sapere dove si trova la tomba, dove sarà trasportata, come è morto Simone».
La cosa sorprendente è che sembra che tu lo faccia da anni e questo legame con il personaggio è proprio il frutto delle ricerche che hai fatto?
«Sì, penso proprio di sì».
Un rilievo che da qualche parte è stato fatto. Hanno detto che sei troppo signore per essere stato un corsaro che dopo diventa Doge.
«Secondo me è un giudizio molto sbagliato, perché era corsaro sì, ma era un padre. Dopo venticinque anni lo ritroviamo Doge e padre e questo matura l’uomo. Poi, a parte questo, sono passati venticinque anni e anche se è stato corsaro, vivendo nel palazzo dogale qualcosa credo che abbia perduto. Una persona intelligente, come si è dimostrato Simon Boccanegra, non poteva rimanere corsaro sotto le vesti del Doge. Dipende poi dai punti di vista: se uno nasce bovaro e vuole restare bovaro son fatti suoi. È indubbiamente una figura complessa. Lo vediamo nel primo atto dove ritrova la figlia e lì diventa non solo signore ma anche patetico. Si sente un poco del suo carattere nel secondo atto, quando nel Consiglio inveisce contro i suoi dignitari che cercano di sbranarsi fra loro. Anche lì se noi guardiamo la partitura, non è il corsaro che grida: ci si aspetta l’urlo quando dice “E vo’ gridando pace e vo’ gridando amor”. Verdi ha messo dei p e poi il coro e tutti gli altri artisti dopo quella frase dicono “Il suo commosso accento”. Non è un grido che lui fa, non è un urlo disumano: il Doge prega questa gente di far pace fra di loro. La parola gridando esprime questo concetto: vi dico continuamente di fare pace. Non può essere un “commosso accento” se urla o salta sullo scranno».
Renato ti ringrazio per la cortese pazienza e per la profonda analisi sul Simone.
«Grazie a te».