Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Christian Arming
Violino Nemanja Radulović
Franz Schubert: “Ouverture in stile italiano” in do maggiore D 591 (op. 170 post.)
Felix Mendelssohn-Bartholdy: Concerto in re minore per violino e orchestra d’archi; Concerto in mi minore op. 64 per violino e orchestra.
Robert Schumann: Sinfonia n. 2 in do maggiore op. 61
Torino, 6 dicembre 2012
Il diavolo e l’acqua santa … Chi abbia visto suonare insieme Christian Arming e Nemanja Radulović all’Auditorium RAI di Torino non potrà evitare l’accostamento, inveterato ma questa volta d’obbligo. Due grandi artisti, entrambi giovani, molto professionali e talentuosi, brillanti eppure diversissimi: il direttore d’orchestra è l’emblema di un’eleganza viennese cosmopolita, saldissima nella tradizione e nel portamento; indossa un impeccabile frac; ogni gesto delle sue mani richiama la delicata movenza di un danzatore. Il ventisettenne violinista serbo è tutto uno scatto nervoso e impaziente; si presenta inguainato in pantaloni di pelle aderentissimi, da Rockstar (nel complesso la sua mise è molto Guns N’ Roses); agita in continuazione una chioma leonina, pronta ad accompagnare ogni inarcatura sul violino, ogni variazione ritmica, ogni sussulto della musica. Il programma era strutturato secondo un impianto molto tradizionale ed efficacissimo: il clima viennese iniziava grazie all’ouverture schubertiana e si chiudeva nel nome di Schumann con la Sinfonia n. 2 (per un lasso cronologico di pochi anni: scritta nel 1817 la pagina in stile italiano, tra 1845 e 1846 il secondo brano); al centro il concerto che Mendelssohn scrisse a tredici anni, nel 1822 (rimasto ignoto fino al 1951, quando Yehudi Menuhin lo riscoprì a Monaco e lo eseguì in pubblico a partire dall’anno successivo), e poi l’altro, il concerto in mi minore, la pagina romantica per eccellenza affidata al duetto tra violino solista e orchestra, scritta nel 1844. Appena un trentennio, in cui è però racchiuso il cuore della musica strumentale mitteleuropea, ammiccante anche a repertori di diversa nazionalità, come dimostrano le impressioni rossiniane e melodrammatiche dell’ouverture di Schubert. Radulović è violinista piuttosto noto al pubblico torinese, soprattutto dopo aver interpretato Paganini (il Concerto n. 1) in occasione del concerto inaugurale del Prix Italia 2010, all’Auditorium “Arturo Toscanini”; ha affrontato i due concerti di Mendelssohn, così diversi per struttura e intenti comunicativi, con identici zelo e intensità, e soprattutto con la caratura interpretativa che gli è più tipica: la morbidezza del suono. Del resto, il rapporto tra Radulović e Mendelssohn dura da quando il maestro aveva nove anni, allorché eseguì per la prima volta il concerto op. 64; e sull’abbinamento al meno noto concerto del 1822, che definisce «un’opera perfettamente matura, che si colloca tra il Classicismo e l’inizio del Romanticismo», afferma come «nella musica di Mendelssohn è difficile capire che età avesse il compositore quando la compose, per questo può toccare tutte le generazioni» (da un’intervista di Alberto Bosco pubblicata su «Sistema Musica» 4, 2012-13).
Radulović suona un violino Vuillaume del 1843, dal timbro piuttosto chiaro: tale colore si abbinava perfettamente alla delicatezza del fraseggio, sia nell’enunciazione tematica sia nei momenti più virtuosistici delle due partiture (le cadenze). Proprio perché non imposta con piglio autoritario, bensì con la dolcezza di un continuo sussurro, la parte solistica costituiva naturale sviluppo del precedente dialogo con l’orchestra; il languore romantico del concerto op. 64 era declinato da Radulović con l’intensità delle mezze tinte, dei pianissimi, dei diminuendo; e la riduzione del suono sortiva l’effetto di rendere più dolce e suadente ogni frase, ogni nota; il solista sgranava abbellimenti e colorature con precisione impeccabile, che non è mai venuta meno neppure per un istante. Il controllo del suono da parte di Radulović è l’esito di una tecnica davvero prodigiosa: unitamente alla chiarezza dell’emissione e alla nettezza di ogni passaggio, essa ha incantato il pubblico torinese e l’ha indotto a protrarre a lungo gli applausi, sia dopo il primo sia dopo il secondo concerto. Al termine della duplice performance il virtuoso non appariva neppure stanco; anzi, concedeva all’uditorio un pirotecnico bis come la Sonata n. 3 di Eugène Ysaÿe (quanto di più lontano dall’aristocratica serenità delle pagine precedenti, segno della duttilità e della raffinatezza di scelte dell’interprete).
Arming ha cesellato il suono dell’orchestra, proponendo una lettura chiarissima di ciascun brano, accompagnando il solista o guidando la compagine: al centro dell’attenzione era sempre il suono unitario, stagliato con una nitidezza molto affascinante. In particolare Schumann è stato affrontato con grande intelligenza, perché le sonorità di ogni famiglia strumentale risultavano perfettamente calibrate; sarebbe sufficiente l’esecuzione di Arming e dell’OSN RAI del primo movimento (Sostenuto assai – Un poco più vivace – Allegro ma non troppo) per sfatare ogni pregiudizio critico su Schumann cattivo strumentatore; anzi, il senso di lotta contro la malattia che caratterizza l’incipit della sinfonia scaturiva appunto dalla compattezza sonora di archi e di fiati, perfettamente omogenei e fluidi.
Oltre al lavoro sul suono, quello sul ritmo: Arming ha staccato tempi piuttosto incalzanti, sin dall’avvio, ma sempre in modo da conservare e rendere percepibile la differenza di indicazioni tra un movimento e l’altro; per cui il vivacissimo Scherzo risultava comunque differente rispetto al brano precedente. Ognuna delle quattro parti della sinfonia era dunque caratterizzata da un’autonomia, derivata anche dall’omogeneità metronomica con cui il tempo si manteneva dall’inizio alla fine del segmento. Sicurezza e trasparenza della direzione hanno completato la lettura della sinfonia con l’Allegro molto vivace, ossia il finale dichiaratamente teso all’ottimismo e, nella coda, addirittura alla marcia trionfale. Ma il momento più convincente è stato l’Allegro espressivo, il terzo movimento elegiaco e tenue, autentica cifra della difficoltà con cui il compositore proseguiva nell’opera di mediazione tra l’antica polifonia e il contrappunto da una parte, l’irruenza tutta romantica delle invenzioni tematiche e melodiche dall’altra. Senza alcuna concessione patetica, l’impostazione esecutiva di Arming faceva tornare in mente un motto (Ars severa, summum gaudium) che probabilmente aveva animato anche la prima esecuzione assoluta dell’opera, presso il Gewandhaus di Lipsia nel 1846, quando a dirigere la sinfonia era intervenuto un altro fautore dell’antico repertorio musicale germanico, Felix Mendelssohn Bartholdy, non a caso co-protagonista della serata torinese insieme a Schumann.